Storie originali > Giallo
Ricorda la storia  |       
Autore: Kronos333    02/11/2009    0 recensioni
In una New York stretta da un gelo polare misteriosi omicidi si susseguono. Persone apparentemente normali diventano atroci assassini e uccidono altra gent comune. Cosa c'è dietro tutto questo? Toccherà a Rose McDemos, insieme alla sua squadra di polizia e a Matt Collins, involontario assassino, scoprire un'orribile verità che affonda le sue radici nella mitologia e nella follia.
Genere: Azione, Thriller, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

I DUE VOLTI DEL SERPENTE

La neve cadeva dolcemente su New York, la città eterna. I fiocchi bianchi oscuravano la visuale e la temperatura costantemente in calo costringevano le persone ad infagottarsi con diversi strati di maglie, maglioni, sciarpe, cappelli, paraorecchie, guanti e cappotti. Un corvo nero, talmente maestoso che sembrava uscito da una poesia di Edgar Allan Poe, si alzò da un ramo parzialmente coperto di neve lasciando qualche piuma sparsa sul terreno. Nero su bianco. I colori complementari si mescolarono quando altri fiocchi di neve coprirono le piume dell’uccello trasformando il contrasto in un disgustoso grigio sporco. Il corvo sorvolò Manatthan agitando velocemente le ali nel tentativo, vano, di riscaldarsi. Il maestoso uccello fu attratto dall’insegna luminosa di un locale, un gigantesco panino e una bibita lampeggiavano ripetutamente sopra il nome della tavola calda, “Da Joe”. Subito quel macabro sesto senso posseduto solo dagli uccelli portatori di sventura si attivò nell’animale. Il corvo fece un mezzo giro del locale e arrivò sul vicolo nel retro. Dei bidoni dell’immondizia, una accattone… e una finestrella. Il maestoso animale si appollaiò proprio sul davanzale di quest’ultima e si pregustò la scena.

La minuscola finestra dava sul bagno del ristorante. Era questi una stanza piccola e sporca, con un grande specchio opaco davanti ai due lavandini, di cui uno guasto. Le mattonelle del pavimento erano verde acceso. In fondo alla stanza c’erano tre piccoli separé, e in uno di questi separé era seduto un ragazzo esile. Doveva avere circa vent’anni ma non ne dimostrava più di quindici. I capelli corvini gli cadevano in un buffo ciuffo davanti agli occhi e il suo viso non aveva ancora perso i tratti infantili tipici dell’adolescenza. Indossava dei jeans neri, un orrendo maglione sformato beje che però dava l’impressione di essere incredibilmente caldo e comodo e una giacca di pelle nera. Il ragazzo non stava bene. Aveva gli occhi rovesciati all’indietro e i muscoli si contraevano rapidamente provocandogli numerose convulsioni. Nonostante questo si stava incidendo gli avambracci con notevole precisione con un coltello da carne. Improvvisamente la porta del bagno si spalancò e ne entrò un signore di mezz’età. I capelli grigi e i vestiti curati del nuovo arrivato stonavano con lo squallore del bagno. L’uomo non si accorse di quello che stava succedendo nel separé e prese a lavarsi meticolosamente le mani. Il ragazzo si alzò come in trance e barcollando usci dal separé con il coltello in mano. L’uomo nonostante avesse davanti a se l’enorme specchio e potesse controllare tutta la sala non si accorse del ragazzo che gli stava arrivando alle spalle perché con la sua figura copriva perfettamente quella dell’altro. Quando si accorse dell’estraneo fu troppo tardi. Con un colpo preciso il ragazzo in trance incise la gola dell’uomo per impedirgli di gridare ma senza procurare altri danni. L’uomo cadde a terra stordito e il ragazzo salì su di lui. La lama del coltello, già sporca del sangue della vittima e dell’assassino brillò un’ultima volta nella debole luce della lampada prima di penetrare in profondità nel petto dell’uomo una, due, tre volte. Il sangue si sparse sul pavimento. Rosso su verde.

La macchina, un utilitaria di colore giallo acceso, si fermò sul marciapiede. «Non lo sopporto» si stava lamentando a gran voce il guidatore. «Perché tutti gli squinternati della città devono mettersi ad ammazzarsi tra loro proprio quando in servizio ci sono io, è slealistico!». «Sleale» lo corresse a bassa voce una ragazza dai lunghi capelli color miele legati in una frettolosa coda che occupava il posto di dietro. «Quello che è» la liquidò infastidito l’autista, un ragazzone pallido con una spettinatissima zazzera rossa che spuntava da sotto il cappello di lana. «Ruphert, ci sono omicidi tutti i giorni a New York» commentò stancamente la donna bruna accanto al ragazzo scendendo dalla macchina. «Ma di più quando in servizio ci sono io» protestò Ruphert tanto per avere l’ultima parola. La ragazza con la coda di cavallo sorrise sotto la sua sciarpa bianca. «Ragazzi muovetevi!» strepitò la bruna. «Ok Emily, il capo sei tu» si arrese alla fine il rosso aprendo la portiera. «Andiamo Rose» disse rivolto all’altra ragazza. Rose si affrettò a prendere la borsa a tracolla con il computer portatile dal quale non si separava mai e si preparò ad affrontare il gelo.

L’interno della tavola calda era decisamente più… caldo. Rose si godette il tepore sinceramente gratificata da quel piccolo regalo, Emily spezzò subito quell’attimo di relax. «Accidenti allo sbalzo termico, non lo sopporto» sbottò togliendosi il paraorecchie, i guanti e il morbido cappotto di camoscio restando con uno splendido maglione a collo alto color salmone. Anche Ruphert si tolse il giaccone rivelando una sformatissima felpa blu e azzurra a tema militare ma non tolse il cappello di lana dal quale non si separava mai. Rose invece non si tolse la giacca color panna ma solo la sciarpa, i guanti e il cappello in tinta, il freddo le era entrato nelle ossa. Emily si avvicinò agli agenti che stavano riposando seduti al bancone. Appena la videro i tre uomini saltarono su come delle molle, ormai conoscevano troppo bene il loro principale. «Buonasera commissario Jefferson». «Ciao ragazzi» salutò Emily appoggiando le sue mani affilate e curatissime sul bancone. «Ciao Ruphert, buonasera principessa» salutarono gli agenti diretti ai due ispettori. Rose arrossì fino alla radice dei capelli, detestava essere chiamata “principessa”. «Allora, cosa abbiamo?» chiese pratica Emily. «Omicidio volontario, il decesso è probabilmente avvenuto per dissanguamento, il colpevole era seduto a quel tavolo dove però non abbiamo trovato effetti personali oltre a questo libro». Per accompagnare quest’ultima affermazione l’agente sbatté sul bancone un libro dalla copertina nera. Rose lo afferrò incuriosita. «La tempesta, di Wiliam Shakespear». «Non è esattamente una lettura da omicida» pensò ad alta voce Ruphert. «Il delitto è avvenuto in bagno, il cadavere è stato scoperto da un altro cliente. Sembra che l’assassino non si sia preoccupato di nascondere le sue tracce, abbiamo anche rinvenuto l’arma del delitto». Detto questo sollevò una busta trasparente contenente un coltello macchiato di sangue. «La scientifica ha già fatto i rilievi necessari e noi stavamo aspettando voi per portare via il cadavere». «Avete interrogato la cameriera?» chiese Emily tamburellando spazientita sul bancone con le lunghe unghie laccate di rosso. «Certo, ci fornirà un identikit dell’assassino ma per il resto non sa niente, né la vittima né l’assassino sono clienti abituali». «Come si chiama la vittima?» chiese Rose improvvisamente. L’agente la guardò a lungo prima di risponderle «Jhon Robert Senior». Rose ringraziò e segnò il nome sul taccuino azzurro che aveva estratto dalla borsetta. Emily si lasciò scappare un tenero sorriso, conosceva il significato di quel gesto. Rose aveva comprato quel quaderno bianco il suo primo giorno di servizio, tre anni prima, e segnava tutti i cadaveri su cui indagava. “Così mi ricordo i nomi di quelli per cui devo pregare la sera” le aveva spiegato una volta. Emily era rimasta molto perplessa, lei non credeva in Dio. Ma d’altra parte sapeva che la fede era una cosa che Rose usava come una stampella per la sua straordinaria sensibilità.  «Bene» esordì finalmente il commissario «Ruphert, Rose… voi due andate a conoscere questo cadavere, io faccio un sopralluogo sul retro».

Il corpo era disteso in mezzo al bagno in una posizione scomposta. Un lungo brivido mi corse lungo la schiena osservando gli occhi marroni ancora aperti. «Rosie! Guarda qui!» mi chiamò Ruphert eccitato. Mi sforzai di togliere lo sguardo da quel corpo. E mi avvicinai al mio amico. «Guarda, c’è del sangue in questo separé» osservò il rosso. Mi chinai per osservare meglio, era vero. Nel terzo separé da destra c’era del sangue. «Deve esserci stata una colluttazione» dedusse il ragazzo. Scossi la testa «Non ha alcun senso che la vittima fosse nel separé». «Allora cosa ci fa del sangue qua?». Sospirai lievemente sfregandomi le mani. «Non lo so». «Va bene, torniamo nella sala che qui si muore di congelamento». «Congelati, oppure si muore di freddo se preferisci» lo corressi automaticamente, poi un lampo di consapevolezza mi schiarì la mente. «Ruphert… qui si muore di freddo!» esclamai come se stessi rivelando la soluzione a tutti i problemi del mondo. Il rosso mi squadrò spaesato. «Perché qui c’è freddo?». «Bhè… la finestra è aperta» osservò lui con semplicità. Mi alzai e guardai la finestra osservando bene l’altezza e l’ampiezza del passaggio. «So da dove è scappato l’assassino».

“Avrei dovuto prendere la giacca” pensai maledicendomi per l’ennesima volta. Mi sistemai una ciocca di capelli sfuggita alla crocchia e mi sfregai le mani laccate di rosso. Mi voltai verso la porta ma mi accorsi con orrore che si poteva aprire solo dall’interno. “Emily sei un’idiota” mi maledissi un’ultima volta. Ma ormai ero lì quindi… Mi avvicinai ancheggiando all’accattone appoggiato al muro. «Buonasera» dissi con voce suadente, sapevo che mi avrebbe dato risposte solo se avessi giocato bene le mie carte, e la migliore del mazzo era il mio essere donna. «Ciao dolcezza!» esclamò il barbone con occhi avidi soffermandosi sul mio seno abbondante. Quella situazione mi disgustava ma dovevo continuare a recitare. «Come te la passi?». «Per ora sono vivo, e forse anche domani» rispose il senzatetto ironico. «Senti amico, mi servirebbe un favore» dissi con voce suadente «Stasera in questo locale è stato commesso un omicidio, tu non hai visto nessuno?». Immediatamente il barbone cambiò atteggiamento e mi fissò per la prima volta negli occhi marroni. «Sei uno sbirro?» chiese in un soffio. Leggevo una certa paura nei suoi occhi grigi. Sospirai, mentire era inutile. «Si, sono il commissario Emily Jefferson». Il barbone abbassò lo sguardo. «Io non ho visto nessuno, nessuno». Sospirai, avevo perso. Mi alzai infastidita e mi allontanai. «Ho visto qualcosa» mi fermò un’ultima volta il barbone. Girai la testa con studiata lentezza. «Era un essere alto, indossava un mantello che lo rendeva praticamente invisibile con un cappuccio calato in testa». Subito sentii una morsa allo stomaco. «Però gli ho visto gli occhi, aveva due occhi rossi come due tizzoni ardenti e lo sguardo cattivo». Un’immotivata paura mi afferrò alle viscere impedendomi di respirare. Corsi via dal vicolo accompagnata dalla sinistra risata del vecchio.

Matt Collins si svegliò e si mise a sedere con uno scatto. Gettò uno sguardo preoccupato alla sveglia, quel catorcio non aveva funzionato. Il ragazzo si alzò stordito e si accorse di avere ancora addosso i jeans neri e la maglietta bianca a maniche lunghe. Cos’era successo l’altra sera? I ricordi tornarono tutti insieme e lo schiacciarono con il loro peso. Aveva ucciso un uomo. Gli avambracci erano ancora macchiati di sangue. I ricordi erano confusi e rimbalzavano da un lato all’altro della testa. Ricordava la tavola calda, poi l’omicidio commesso. Ma era stato davvero lui? Matt ricordava distintamente un uomo alto con indosso un coloratissimo vestito fatto di piume e pelli che compiva l’omicidio. Ma la mano che stringeva il coltello era la sua. Le maniche della maglietta erano macchiate di sangue, Matt le scostò e dovette trattenere un conato di vomito. Si era inciso un curioso simbolo sugli avambracci: un serpente a due teste. “Cosa vuol dire questo simbolo? E cosa è successo ieri sera?”. In quel preciso momento il telefono squillò. Matt si affrettò ad andare nel salotto per rispondere. La casa era incredibilmente vuota da quando Viki, la sua ex era andata a vivere da sola, due mesi prima. Il telefono cordless era appoggiato sul tavolo e continuava a squillare. Matt stava per premere il pulsante ma esitò, non aveva voglia di parlare. Lasciò scattare la segreteria. «Matt? Ci sei? Mi chiedevo se volessi venire oggi pomeriggio a trovare mamma e papà al cimitero». Il ragazzo non ebbe più dubbi, era suo fratello maggiore Marcus. «Marcus? Sei tu?». «Matt! Perché non rispondevi?». Il ragazzo lo interruppe subito «Marcus, ho bisogno di parlarti, possiamo incontrarci subito dopo pranzo?». L’uomo dall’altra parte della linea era un po’ spiazzato. «Matt? Tutto bene?». «Possiamo incontrarci dopo pranzo?» ripeté Matt aggressivo. «Bhè… certo, ma stai bene?» chiese esitante Marcus. «Perfetto» disse Matt riagganciando. Dopo quella telefonata si sentiva molto più tranquillo, se c’era una persona che lo poteva aiutare quello era Marcus. Mancava meno di un’ora all’una, avrebbe approfittato del tempo rimasto per lavare i vestiti e le lenzuola sporche di sangue.

Emily camminava veloce nelle sue scarpe da ginnastica diretta al suo ufficio. Tutti gli agenti scattavano in piedi e la salutavano ossequiosi al suo passaggio. La donna si godette quel sottile piacere che provava nel comandare gli altri. Davanti alla porta dell’ufficio trovò Rose che parlava con Jeffrey, un’agente senza infamia e senza lode. «Non è possibile! Sono già passati sei mesi!» stava sbraitando l’uomo davanti ad un’imbarazzatissima Rose. «Cosa succede qui?» intervenne Emily brusca. «Buongiorno Commissario» la salutò l’uomo «Stavo chiedendo al tenente Callhagan se poteva ricordare al vostro collega che mi deve cento dollari». «Non è un nostro problema» disse pratica Emily entrando nell’ufficio e trascinandosi dietro la sua collega. «Ma Commissario! Sono già passati sei mesi! Non potrebbe esortarlo?». «Perché non lo fai tu? Sta arrivando proprio adesso» lo rimbeccò la donna chiudendo la porta.

Jeffrey si voltò famelico verso Ruphert che effettivamente stava arrivando proprio in quel momento salutando e scherzando. Appena il rosso vide Jeffrey impallidì e si voltò tornando sui suoi passi. «No Ruphert! Adesso tu vieni qui e mi restituisci i miei soldi!». Il ragazzo si fermò elaborando una scappatoia. Quando ne trovò una abbastanza divertente si voltò e cominciò a parlare con fare teatrale. «Jeffrey… tu credi in nostro signore Gesù Cristo? Tu credi che a nostro signore Gesù Cristo importi qualcosa del vile denaro? NO! A nostro signore Gesù Cristo importa una cosa sola… è L’AMORE!». Jeffrey lo guardava spaesato. «Quindi Jeffrey… mia piccola pecorella smarrita… smetti di pensare al vile denaro e AMA!». Detto questo Ruphert si affrettò ad entrare nello studio prima che Jeffrey protestasse lasciando il collega con un palmo di naso.

«Finalmente sei arrivato!» sbottò Emily appena mi vide. Appesi il giaccone e mi scusai. Rose sorrise timida. Era bellissima. Quasi quanto Samantha, la mia ragazza. Improvvisamente mi accorsi che l’ufficiale scientifico, Garrett, occupava il mio posto. «Ciao amico, cosa ci fai qui?». «Garrett è venuto ad aggiornarci sul caso della tavola calda». «Bene» esclamai sedendomi su una delle sedie che Emily usava per ricevere le persone. «Da dove vuoi che cominci?» chiese Garrett. «Com’è morto?». «L’assassino ha dato tre coltellate molto precise che hanno reciso le arterie polmonari… è stata una morte lunga». Un freddo brivido scorse lungo schiena di tutti. «L’assassino potrebbe avere qualche conoscenza di anatomia?» chiese Rose. «Molto probabile» rispose Garrett «C’è una piccola possibilità di colpire quelle arterie, ma è molto più credibile che sia stato fatto di proposito». Emily stava pensando «Parlami del sangue trovato da Rose nel separé». «L’ho trovato io!» protestai. Garrett mi ignorò «Il sangue è dell’assassino, lo abbiamo trovato anche sulla lama del coltello e sul davanzale della finestra». «Abbiamo le impronte digitali?» chiese Rose. «Certo, erano sulle posate, sul libro e naturalmente sul coltello». Rispose Garrett. «Quindi l’assassino si è ferito prima di compiere il delitto» dedussi io. Garrett annuì «Crediamo sia così». «Ma perché?» intervenne Rose sconcertata. «Bhè… ogni professione ha i suoi tipi strani… perché non “gli assassini”». «Abbastanza debole come motivazione» commentò scettica il commissario. «A ciascuno il suo Emily, io mi occupo di rilievi e tu di motivazioni» si giustificò Garrett serafico. La donna annuì stancamente, «C’è altro?». «Si, abbiamo l’identikit fornitoci dalla cameriera e questo foglietto». Emily e Rose presero il disegno ma io fui attratto dal pezzo di carta. «L’assassino lo usava come segnalibro» spiegò Garett. Il foglio  era un triangolino di carta palesemente staccato da un foglio più grande. Sopra c’era un elenco di cifre incomprensibili. «Chissà cos’è?» osservai pensieroso. Rose me lo tolse di mano e lo scrutò attentamente. «Posso provare a fare una ricerca in rete». «Bene» acconsentì Emily. Io mi documenterò sulla vittima. Poi la donna si rivolse verso di me. «E voglio che tu restituisca i cento dollari a Jeffrey, non ne posso più di lui». «Cosa?».

I fiocchi di neve vorticavano nell’aria gelida posandosi sulle lapidi di marmo. Amavo il cimitero. Non per un macabro senso dell’ironia, ma per l’atmosfera calma e sospesa che regnava eterna in quel posto. La tomba dei miei genitori era parzialmente coperta di neve e mi chinai a pulirla accarezzando a lungo la foto nella cornice ovale. Bruce e Lois Collins erano morti insieme, in un incidente d’auto. All’epoca io avevo sedici anni e mio fratello solo dieci.

“Marcus… dove sono mamma e papà?”.

 “Sono partiti”.

 “Davvero? E per dove? Perché ci hanno lasciato qui? Perché non ci hanno salutato?”.

Perché. Perché. Perché. Tutti quei punti interrogativi alla quale non era mai riuscito a trovare una risposta. Quando avevo preso i voti, io e Matt ci eravamo allontanati.

“Tutto questo è successo per quella tua stupida partita di calcio! Volevi che mamma e papà venissero a guardarti a tutti i costi e loro ti hanno accontentato! È colpa tua!”.

Le parole di mio fratello mi risuonavano in testa tutti i giorni. Guardai un’altra volta l’orologio, era in ritardo. Finalmente vidi la sagoma di mio fratello Matt delinearsi nella neve. Il ragazzo mi si affiancò e depose un piccolo papavero sulla pietra. «Ciao mamma, ciao papà» salutò Matt. Solo allora si degnò di guardarmi. «Ciao Marcus». Lo guardai bene, mi sembrava un rifugiato. «Ciao Matt» lo salutai abbracciandolo.  «Come stai? Di cosa mi devi parlare?» indagai preoccupato. «Ho ucciso un uomo».

“Hai ucciso un uomo?”.

 “Certo, più di uno, è la guerra”.

 “E come fai a dormire la notte papà?”.

 “Sono abituato”.

«Cosa?». Matt si prese la testa tra le mani. «Ti prego non farmelo ripetere». «Come è successo?» annaspai cercando di capire cosa stesse succedendo al mondo. Matt mi riassunse la storia, continuavo a non capire. «Marcus, non sono stato io, devi credermi!». Continuai a guardarlo come se fosse un alieno. «Non sono stato io». Nella sua voce leggevo una lieve incrinatura ma risultava comunque decisa e determinata. «Matt… io credo… io credo che dovresti… ecco insomma… costituirti». Matt alzò le braccia al cielo «Accidenti a te Marcus, non posso costituirmi, devo capire cosa mi è successo!». « Non potresti allora andare da uno psichiatra?» tentai di nuovo.  «Non sono pazzo Marcus, non sono pazzo». Respirai a pieni polmoni tentando di mantenere la calma. «Avevo bisogno di parlarne con qualcuno ma evidentemente ho sbagliato persona» sbraitò Matt arrabbiato. Mio fratello si girò e fece per andarsene «Spero che almeno potrò contare sul tuo silenzio». «Aspetta».

“Dio… dov’era il tuo Dio quando mamma e papà sono morti?”.

“Matt, non è giusto che tu disprezzi così la mia fede”.

“No Marcus, non hai capito niente, io non disprezzo la tua fede… io disprezzo te!”.

“È così? Allora vattene!”

«Aspetta». Mio fratello si girò lentamente. «Io ti credo Matt, sono solo confuso e spaventato». Matt si avvicinò sospettoso. «Forse ho un’idea!». Estrassi dalla tasca il mio taccuino nero su cui segnavo sempre tutto per evitare di dimenticarmi alcunché. Sfogliai rapidamente le pagine trovando finalmente l’appunto che cercavo.  «Ecco qui» dissi strappando la pagina e dandola a mio fratello. «È l’indirizzo di una medium, io non credo in queste cose ma potrebbe essere un buon punto di partenza». Matt mi studiò attentamente, come un animale selvatico scruta attentamente chi gli dà il cibo prima di accettarlo, ma alla fine prese il foglio. «Grazie» mormorò prima di sparire nella neve. “Sto proteggendo un assassino” pensai mentre il ragazzo si allontanava. Mi inginocchiai sulla tomba incurante della neve e pregai.

Mi legai i capelli color miele con un elastico e mi misi al lavoro. Scrutai attentamente il triangolino di carta e segnai su un foglio di word le cifre che riuscivo a leggere. Sembravano numeri senza senso ma doveva esserci una logica. “Forse è un codice cifrato” pensai inserendo i numeri nel decrittatore. Il risultato fu negativo. Tentai di farlo combaciare con centinaia di tabulati: orari di voli, tabulati telefonici, conti, bollette, spese municipali e qualsiasi altro elenco di cifre. Dopo due ore ero ancora davanti al computer, ormai stava calando la sera. Sbadigliai rumorosamente pronta a gettare la spugna, volevo solo andare a letto. Spensi il computer e mi misi la giacca. Attraversai la sala vuota piena di scrivanie quando una luce attirò la mia attenzione: Qualcuno aveva lasciato il computer acceso. Sorrisi stancamente e andai a spegnerlo, ma quando stavo per premere il pulsante un’idea mi balzò in testa. Troppo curiosa per rinunciare corsi indietro alla scrivania per recuperare il foglio di carta e inserii la sequenza numerica in una normale ricerca di Google. Ovviamente la cosa più semplice si rivelava la più efficace.

Ero nella vasca da bagno quando il telefonino cominciò a suonare. La mia suoneria, la canzone “All Star” dei Smash Mouth, risuonò nella casa vuota. Allungai la mano e risposi alla chiamata. «Azioni!» urlò Rose dall’altro capo del telefono. Restai un attimo scombussolata, cosa intendeva dire? «Rose? Ti senti bene?». La mia amica era eccitatissima «Si Emily, certo, ho capito cosa c’è scritto sul foglio che l’assassino usava come segnalibro». Immediatamente prestai più attenzione. «Sono azioni bancarie, l’assassino lavora in banca!». Capii perché Rose era così agitata, era semplicemente ansiosa di sentire i miei complimenti. «Grandiosa Rose, sei stata mitica!». Immediatamente il respiro affannoso della ragazza si calmò un poco. «Ho scoperto ancora una cosa». «Sono tutta orecchie». «Come di certo saprai la carta delle banche è filigranata, c’è impresso il codice di identificazione, e sono già risalita alla banca di provenienza». Annuii impressionata, in poche ore Rose aveva trovato più indizi di me. Uno strano sentimento mi prese al ventre. «Perfetto» dissi sempre meno convinta. «E già che c’ero ho trovato un elenco degli impiegati e ho confrontato le foto con l’identikit e, tieniti forte, c’è una corrispondenza!». «Cosa?» saltai su sollevando acqua e schiuma e sporcando le piastrelle rosa del bagno. Rose non aveva semplicemente scoperto qualcosa… aveva proprio risolto il caso! «Allora Emily… cosa ne pensi?». Cosa ne pensavo? La mia collega era stata semplicemente fantastica, aveva risolto il giallo in poche ore. Aveva proposto lei cosa fare, trovato la soluzione e identificato il killer. Da sola. Senza l’aiuto di nessuno. Senza il mio aiuto. Cosa ne pensavo? «Non c’è male… chiamo subito gli agenti di pattuglia che vadano ad arrestarlo. Dammi nome e indirizzo». Rose me li disse. Fissai a lungo il telefonino prima di decidermi a chiamare gli agenti, alla fine premetti il tasto giusto.  «Pronto?» mi rispose una voce assonnata dall’altro capo. «Sono il Commissario Jefferson». «Commissario!» esclamò l’altro visibilmente più attento. Esitai ancora un istante,uno solo. «Ho risolto il caso della tavola calda, potete andare ad arrestare il colpevole, adesso vi do nome e indirizzo».

Note dell’autore: Buongiorno. Scusate la mia assenza nelle altre due long-fic a cui sto lavorando ma mi hanno assegnato un compito a scuola: scrivere un racconto giallo, questo racconto. Ho deciso di pubblicarlo in tre parti, non dovrete attendere troppo visto che la seconda parte è già completa. Vi prego commentate, anche perché mi fido molto più del vostro giudizio rispetto a quello della mia prof… Al prossimo capitolo.
  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Giallo / Vai alla pagina dell'autore: Kronos333