I
DUE VOLTI DEL SERPENTE
La
neve cadeva
dolcemente su New York, la città eterna. I fiocchi bianchi
oscuravano la
visuale e la temperatura costantemente in calo costringevano le persone
ad
infagottarsi con diversi strati di maglie, maglioni, sciarpe, cappelli,
paraorecchie, guanti e cappotti. Un corvo nero, talmente maestoso che
sembrava
uscito da una poesia di Edgar Allan Poe, si alzò da un ramo
parzialmente
coperto di neve lasciando qualche piuma sparsa sul terreno. Nero su
bianco. I
colori complementari si mescolarono quando altri fiocchi di neve
coprirono le
piume dell’uccello trasformando il contrasto in un disgustoso
grigio sporco. Il
corvo sorvolò Manatthan agitando velocemente le ali nel
tentativo, vano, di
riscaldarsi. Il maestoso uccello fu attratto dall’insegna
luminosa di un
locale, un gigantesco panino e una bibita lampeggiavano ripetutamente
sopra il
nome della tavola calda, “Da Joe”. Subito quel
macabro sesto senso posseduto
solo dagli uccelli portatori di sventura si attivò
nell’animale. Il corvo fece
un mezzo giro del locale e arrivò sul vicolo nel retro. Dei
bidoni
dell’immondizia, una accattone… e una finestrella.
Il maestoso animale si
appollaiò proprio sul davanzale di quest’ultima e
si pregustò la scena.
La
minuscola
finestra dava sul bagno del ristorante. Era questi una stanza piccola e
sporca,
con un grande specchio opaco davanti ai due lavandini, di cui uno
guasto. Le
mattonelle del pavimento erano verde acceso. In fondo alla stanza
c’erano tre
piccoli separé, e in uno di questi separé era
seduto un ragazzo esile. Doveva
avere circa vent’anni ma non ne dimostrava più di
quindici. I capelli corvini
gli cadevano in un buffo ciuffo davanti agli occhi e il suo viso non
aveva
ancora perso i tratti infantili tipici dell’adolescenza.
Indossava dei jeans
neri, un orrendo maglione sformato beje che però dava
l’impressione di essere
incredibilmente caldo e comodo e una giacca di pelle nera. Il ragazzo
non stava
bene. Aveva gli occhi rovesciati all’indietro e i muscoli si
contraevano
rapidamente provocandogli numerose convulsioni. Nonostante questo si
stava
incidendo gli avambracci con notevole precisione con un coltello da
carne.
Improvvisamente la porta del bagno si spalancò e ne
entrò un signore di
mezz’età. I capelli grigi e i vestiti curati del
nuovo arrivato stonavano con
lo squallore del bagno. L’uomo non si accorse di quello che
stava succedendo
nel separé e prese a lavarsi meticolosamente le mani. Il
ragazzo si alzò come
in trance e barcollando usci dal separé con il coltello in
mano. L’uomo
nonostante avesse davanti a se l’enorme specchio e potesse
controllare tutta la
sala non si accorse del ragazzo che gli stava arrivando alle spalle
perché con
la sua figura copriva perfettamente quella dell’altro. Quando
si accorse
dell’estraneo fu troppo tardi. Con un colpo preciso il
ragazzo in trance incise
la gola dell’uomo per impedirgli di gridare ma senza
procurare altri danni.
L’uomo cadde a terra stordito e il ragazzo salì su
di lui. La lama del
coltello, già sporca del sangue della vittima e
dell’assassino brillò un’ultima
volta nella debole luce della lampada prima di penetrare in
profondità nel
petto dell’uomo una, due, tre volte. Il sangue si sparse sul
pavimento. Rosso
su verde.
La
macchina, un
utilitaria di colore giallo acceso, si fermò sul
marciapiede. «Non lo sopporto»
si stava lamentando a gran voce il guidatore.
«Perché tutti gli squinternati
della città devono mettersi ad ammazzarsi tra loro proprio
quando in servizio
ci sono io, è slealistico!».
«Sleale» lo corresse a bassa voce una ragazza dai
lunghi capelli color miele legati in una frettolosa coda che occupava
il posto
di dietro. «Quello che è» la
liquidò infastidito l’autista, un ragazzone
pallido con una spettinatissima zazzera rossa che spuntava da sotto il
cappello
di lana. «Ruphert, ci sono omicidi tutti i giorni a New
York» commentò
stancamente la donna bruna accanto al ragazzo scendendo dalla macchina.
«Ma di
più quando in servizio ci sono io»
protestò Ruphert tanto per avere l’ultima
parola. La ragazza con la coda di cavallo sorrise sotto la sua sciarpa
bianca.
«Ragazzi muovetevi!» strepitò la bruna.
«Ok Emily, il capo sei tu» si arrese
alla fine il rosso aprendo la portiera. «Andiamo
Rose» disse rivolto all’altra
ragazza. Rose si affrettò a prendere la borsa a tracolla con
il computer
portatile dal quale non si separava mai e si preparò ad
affrontare il gelo.
L’interno
della
tavola calda era decisamente più… caldo. Rose si
godette il tepore sinceramente
gratificata da quel piccolo regalo, Emily spezzò subito
quell’attimo di relax.
«Accidenti allo sbalzo termico, non lo sopporto»
sbottò togliendosi il
paraorecchie, i guanti e il morbido cappotto di camoscio restando con
uno
splendido maglione a collo alto color salmone. Anche Ruphert si tolse
il
giaccone rivelando una sformatissima felpa blu e azzurra a tema
militare ma non
tolse il cappello di lana dal quale non si separava mai. Rose invece
non si
tolse la giacca color panna ma solo la sciarpa, i guanti e il cappello
in
tinta, il freddo le era entrato nelle ossa. Emily si
avvicinò agli agenti che
stavano riposando seduti al bancone. Appena la videro i tre uomini
saltarono su
come delle molle, ormai conoscevano troppo bene il loro principale.
«Buonasera
commissario Jefferson». «Ciao ragazzi»
salutò Emily appoggiando le sue mani affilate
e curatissime sul bancone. «Ciao Ruphert, buonasera
principessa» salutarono gli
agenti diretti ai due ispettori. Rose arrossì fino alla
radice dei capelli,
detestava essere chiamata “principessa”.
«Allora, cosa abbiamo?» chiese pratica
Emily. «Omicidio volontario, il decesso è
probabilmente avvenuto per
dissanguamento, il colpevole era seduto a quel tavolo dove
però non abbiamo
trovato effetti personali oltre a questo libro». Per
accompagnare quest’ultima
affermazione l’agente sbatté sul bancone un libro
dalla copertina nera. Rose lo
afferrò incuriosita. «La tempesta, di Wiliam
Shakespear». «Non è esattamente
una lettura da omicida» pensò ad alta voce
Ruphert. «Il delitto è avvenuto in
bagno, il cadavere è stato scoperto da un altro cliente.
Sembra che l’assassino
non si sia preoccupato di nascondere le sue tracce, abbiamo anche
rinvenuto
l’arma del delitto». Detto questo
sollevò una busta trasparente contenente un
coltello macchiato di sangue. «La scientifica ha
già fatto i rilievi necessari
e noi stavamo aspettando voi per portare via il cadavere».
«Avete interrogato
la cameriera?» chiese Emily tamburellando spazientita sul
bancone con le lunghe
unghie laccate di rosso. «Certo, ci fornirà un
identikit dell’assassino ma per
il resto non sa niente, né la vittima né
l’assassino sono clienti abituali».
«Come si chiama la vittima?» chiese Rose
improvvisamente. L’agente la guardò a
lungo prima di risponderle «Jhon Robert Senior».
Rose ringraziò e segnò il nome
sul taccuino azzurro che aveva estratto dalla borsetta. Emily si
lasciò
scappare un tenero sorriso, conosceva il significato di quel gesto.
Rose aveva
comprato quel quaderno bianco il suo primo giorno di servizio, tre anni
prima,
e segnava tutti i cadaveri su cui indagava. “Così
mi ricordo i nomi di quelli
per cui devo pregare la sera” le aveva spiegato
una volta. Emily era
rimasta molto perplessa, lei non credeva in Dio. Ma d’altra
parte sapeva che la
fede era una cosa che Rose usava come una stampella per la sua
straordinaria
sensibilità. «Bene»
esordì finalmente
il commissario «Ruphert, Rose… voi due andate a
conoscere questo cadavere, io
faccio un sopralluogo sul retro».
Il
corpo era
disteso in mezzo al bagno in una posizione scomposta. Un lungo brivido
mi corse
lungo la schiena osservando gli occhi marroni ancora aperti.
«Rosie! Guarda
qui!» mi chiamò Ruphert eccitato. Mi sforzai di
togliere lo sguardo da quel
corpo. E mi avvicinai al mio amico. «Guarda,
c’è del sangue in questo
separé»
osservò il rosso. Mi chinai per osservare meglio, era vero.
Nel terzo separé da
destra c’era del sangue. «Deve esserci stata una
colluttazione» dedusse il
ragazzo. Scossi la testa «Non ha alcun senso che la vittima
fosse nel separé».
«Allora cosa ci fa del sangue qua?». Sospirai
lievemente sfregandomi le mani.
«Non lo so». «Va bene, torniamo nella
sala che qui si muore di congelamento».
«Congelati, oppure si muore di freddo se
preferisci» lo corressi
automaticamente, poi un lampo di consapevolezza mi schiarì
la mente. «Ruphert…
qui si muore di freddo!» esclamai come se stessi rivelando la
soluzione a tutti
i problemi del mondo. Il rosso mi squadrò spaesato.
«Perché qui c’è
freddo?».
«Bhè… la finestra è
aperta» osservò lui con semplicità. Mi
alzai e guardai la
finestra osservando bene l’altezza e l’ampiezza del
passaggio. «So da dove è
scappato l’assassino».
“Avrei
dovuto
prendere la giacca” pensai maledicendomi per
l’ennesima volta. Mi sistemai una
ciocca di capelli sfuggita alla crocchia e mi sfregai le mani laccate
di rosso.
Mi voltai verso la porta ma mi accorsi con orrore che si poteva aprire
solo
dall’interno. “Emily sei
un’idiota” mi maledissi un’ultima volta.
Ma ormai ero
lì quindi… Mi avvicinai ancheggiando
all’accattone appoggiato al muro.
«Buonasera» dissi con voce suadente, sapevo che mi
avrebbe dato risposte solo
se avessi giocato bene le mie carte, e la migliore del mazzo era il mio
essere
donna. «Ciao dolcezza!» esclamò il
barbone con occhi avidi soffermandosi sul
mio seno abbondante. Quella situazione mi disgustava ma dovevo
continuare a
recitare. «Come te la passi?». «Per ora
sono vivo, e forse anche domani»
rispose il senzatetto ironico. «Senti amico, mi servirebbe un
favore» dissi con
voce suadente «Stasera in questo locale è stato
commesso un omicidio, tu non
hai visto nessuno?». Immediatamente il barbone
cambiò atteggiamento e mi fissò
per la prima volta negli occhi marroni. «Sei uno
sbirro?» chiese in un soffio.
Leggevo una certa paura nei suoi occhi grigi. Sospirai, mentire era
inutile.
«Si, sono il commissario Emily Jefferson». Il
barbone abbassò lo sguardo. «Io
non ho visto nessuno, nessuno». Sospirai, avevo perso. Mi
alzai infastidita e
mi allontanai. «Ho visto qualcosa» mi
fermò un’ultima volta il barbone. Girai
la testa con studiata lentezza. «Era un essere alto,
indossava un mantello che
lo rendeva praticamente invisibile con un cappuccio calato in
testa». Subito
sentii una morsa allo stomaco. «Però gli ho visto
gli occhi, aveva due occhi
rossi come due tizzoni ardenti e lo sguardo cattivo».
Un’immotivata paura mi
afferrò alle viscere impedendomi di respirare. Corsi via dal
vicolo
accompagnata dalla sinistra risata del vecchio.
Matt
Collins si
svegliò e si mise a sedere con uno scatto. Gettò
uno sguardo preoccupato alla
sveglia, quel catorcio non aveva funzionato. Il ragazzo si
alzò stordito e si
accorse di avere ancora addosso i jeans neri e la maglietta bianca a
maniche
lunghe. Cos’era successo l’altra sera? I ricordi
tornarono tutti insieme e lo
schiacciarono con il loro peso. Aveva ucciso un uomo. Gli avambracci
erano
ancora macchiati di sangue. I ricordi erano confusi e rimbalzavano da
un lato
all’altro della testa. Ricordava la tavola calda, poi
l’omicidio commesso. Ma
era stato davvero lui? Matt ricordava distintamente un uomo alto con
indosso un
coloratissimo vestito fatto di piume e pelli che compiva
l’omicidio. Ma la mano
che stringeva il coltello era la sua. Le maniche della maglietta erano
macchiate di sangue, Matt le scostò e dovette trattenere un
conato di vomito.
Si era inciso un curioso simbolo sugli avambracci: un serpente a due
teste. “Cosa
vuol dire questo simbolo? E cosa è successo ieri
sera?”. In quel preciso
momento il telefono squillò. Matt si affrettò ad
andare nel salotto per
rispondere. La casa era incredibilmente vuota da quando Viki, la sua ex
era
andata a vivere da sola, due mesi prima. Il telefono cordless era
appoggiato
sul tavolo e continuava a squillare. Matt stava per premere il pulsante
ma
esitò, non aveva voglia di parlare. Lasciò
scattare la segreteria. «Matt? Ci
sei? Mi chiedevo se volessi venire oggi pomeriggio a trovare mamma e
papà al
cimitero». Il ragazzo non ebbe più dubbi, era suo
fratello maggiore Marcus.
«Marcus? Sei tu?». «Matt!
Perché non rispondevi?». Il ragazzo lo interruppe
subito «Marcus, ho bisogno di parlarti, possiamo incontrarci
subito dopo
pranzo?». L’uomo dall’altra parte della
linea era un po’ spiazzato. «Matt?
Tutto bene?». «Possiamo incontrarci dopo
pranzo?» ripeté Matt aggressivo.
«Bhè…
certo, ma stai bene?» chiese esitante Marcus.
«Perfetto» disse Matt
riagganciando. Dopo quella telefonata si sentiva molto più
tranquillo, se c’era
una persona che lo poteva aiutare quello era Marcus. Mancava meno di
un’ora
all’una, avrebbe approfittato del tempo rimasto per lavare i
vestiti e le
lenzuola sporche di sangue.
Emily
camminava
veloce nelle sue scarpe da ginnastica diretta al suo ufficio. Tutti gli
agenti
scattavano in piedi e la salutavano ossequiosi al suo passaggio. La
donna si
godette quel sottile piacere che provava nel comandare gli altri.
Davanti alla
porta dell’ufficio trovò Rose che parlava con
Jeffrey, un’agente senza infamia
e senza lode. «Non è possibile! Sono
già passati sei mesi!» stava sbraitando
l’uomo davanti ad un’imbarazzatissima Rose.
«Cosa succede qui?» intervenne
Emily brusca. «Buongiorno Commissario» la
salutò l’uomo «Stavo chiedendo al
tenente Callhagan se poteva ricordare al vostro collega che mi deve
cento
dollari». «Non è un nostro
problema» disse pratica Emily entrando nell’ufficio
e trascinandosi dietro la sua collega. «Ma Commissario! Sono
già passati sei
mesi! Non potrebbe esortarlo?». «Perché
non lo fai tu? Sta arrivando proprio
adesso» lo rimbeccò la donna chiudendo la porta.
Jeffrey
si
voltò
famelico verso Ruphert che effettivamente stava arrivando proprio in
quel
momento salutando e scherzando. Appena il rosso vide Jeffrey
impallidì e si
voltò tornando sui suoi passi. «No Ruphert! Adesso
tu vieni qui e mi
restituisci i miei soldi!». Il ragazzo si fermò
elaborando una scappatoia.
Quando ne trovò una abbastanza divertente si
voltò e cominciò a parlare con
fare teatrale. «Jeffrey… tu credi in nostro
signore Gesù Cristo? Tu credi che a
nostro signore Gesù Cristo importi qualcosa del vile denaro?
NO! A nostro
signore Gesù Cristo importa una cosa sola…
è L’AMORE!». Jeffrey lo guardava
spaesato. «Quindi Jeffrey… mia piccola pecorella
smarrita… smetti di pensare al
vile denaro e AMA!». Detto questo Ruphert si
affrettò ad entrare nello studio
prima che Jeffrey protestasse lasciando il collega con un palmo di naso.
«Finalmente
sei
arrivato!» sbottò Emily appena mi vide. Appesi il
giaccone e mi scusai. Rose
sorrise timida. Era bellissima. Quasi quanto Samantha, la mia ragazza.
Improvvisamente mi accorsi che l’ufficiale scientifico,
Garrett, occupava il
mio posto. «Ciao amico, cosa ci fai qui?».
«Garrett è venuto ad aggiornarci sul
caso della tavola calda». «Bene» esclamai
sedendomi su una delle sedie che
Emily usava per ricevere le persone. «Da dove vuoi che
cominci?» chiese
Garrett. «Com’è morto?».
«L’assassino ha dato tre coltellate molto precise
che
hanno reciso le arterie polmonari… è stata una
morte lunga». Un freddo brivido
scorse lungo schiena di tutti. «L’assassino
potrebbe avere qualche conoscenza
di anatomia?» chiese Rose. «Molto
probabile» rispose Garrett
«C’è una piccola
possibilità di colpire quelle arterie, ma è molto
più credibile che sia stato
fatto di proposito». Emily stava pensando «Parlami
del sangue trovato da Rose
nel separé». «L’ho trovato
io!» protestai. Garrett mi ignorò «Il
sangue è
dell’assassino, lo abbiamo trovato anche sulla lama del
coltello e sul
davanzale della finestra». «Abbiamo le impronte
digitali?» chiese Rose. «Certo,
erano sulle posate, sul libro e naturalmente sul coltello».
Rispose Garrett.
«Quindi l’assassino si è ferito prima di
compiere il delitto» dedussi io.
Garrett annuì «Crediamo sia
così». «Ma perché?»
intervenne Rose sconcertata.
«Bhè… ogni professione ha i suoi tipi
strani… perché non “gli
assassini”».
«Abbastanza debole come motivazione»
commentò scettica il commissario. «A
ciascuno il suo Emily, io mi occupo di rilievi e tu di
motivazioni» si
giustificò Garrett serafico. La donna annuì
stancamente, «C’è altro?».
«Si,
abbiamo l’identikit fornitoci dalla cameriera e questo
foglietto». Emily e Rose
presero il disegno ma io fui attratto dal pezzo di carta.
«L’assassino lo usava
come segnalibro» spiegò Garett. Il foglio
era un triangolino di carta palesemente staccato da un
foglio più
grande. Sopra c’era un elenco di cifre incomprensibili.
«Chissà cos’è?»
osservai pensieroso. Rose me lo tolse di mano e lo scrutò
attentamente. «Posso
provare a fare una ricerca in rete».
«Bene» acconsentì Emily. Io mi
documenterò
sulla vittima. Poi la donna si rivolse verso di me. «E voglio
che tu
restituisca i cento dollari a Jeffrey, non ne posso più di
lui». «Cosa?».
I
fiocchi di neve
vorticavano nell’aria gelida posandosi sulle lapidi di marmo.
Amavo il
cimitero. Non per un macabro senso dell’ironia, ma per
l’atmosfera calma e
sospesa che regnava eterna in quel posto. La tomba dei miei genitori
era
parzialmente coperta di neve e mi chinai a pulirla accarezzando a lungo
la foto
nella cornice ovale. Bruce e Lois Collins erano morti insieme, in un
incidente
d’auto. All’epoca io avevo sedici anni e mio
fratello solo dieci.
“Marcus…
dove
sono mamma e papà?”.
“Sono
partiti”.
“Davvero?
E per dove? Perché ci hanno lasciato
qui? Perché non ci hanno salutato?”.
Perché.
Perché.
Perché. Tutti quei punti interrogativi alla quale non era
mai riuscito a
trovare una risposta. Quando avevo preso i voti, io e Matt ci eravamo
allontanati.
“Tutto questo
è
successo per quella tua stupida partita di calcio! Volevi che mamma e
papà
venissero a guardarti a tutti i costi e loro ti hanno accontentato!
È colpa
tua!”.
Le
parole di mio
fratello mi risuonavano in testa tutti i giorni. Guardai
un’altra volta
l’orologio, era in ritardo. Finalmente vidi la sagoma di mio
fratello Matt
delinearsi nella neve. Il ragazzo mi si affiancò e depose un
piccolo papavero
sulla pietra. «Ciao mamma, ciao papà»
salutò Matt. Solo allora si degnò di
guardarmi. «Ciao Marcus». Lo guardai bene, mi
sembrava un rifugiato. «Ciao
Matt» lo salutai abbracciandolo.
«Come
stai? Di cosa mi devi parlare?» indagai preoccupato.
«Ho ucciso un uomo».
“Hai ucciso
un
uomo?”.
“Certo,
più di uno, è la guerra”.
“E
come fai a dormire la notte papà?”.
“Sono
abituato”.
«Cosa?».
Matt si
prese la testa tra le mani. «Ti prego non farmelo
ripetere». «Come è successo?»
annaspai cercando di capire cosa stesse succedendo al mondo. Matt mi
riassunse
la storia, continuavo a non capire. «Marcus, non sono stato
io, devi
credermi!». Continuai a guardarlo come se fosse un alieno.
«Non sono stato io».
Nella sua voce leggevo una lieve incrinatura ma risultava comunque
decisa e
determinata. «Matt… io credo… io credo
che dovresti… ecco insomma…
costituirti». Matt alzò le braccia al cielo
«Accidenti a te Marcus, non posso
costituirmi, devo capire cosa mi è successo!».
« Non potresti allora andare da
uno psichiatra?» tentai di nuovo.
«Non
sono pazzo Marcus, non sono pazzo». Respirai a pieni polmoni
tentando di
mantenere la calma. «Avevo bisogno di parlarne con qualcuno
ma evidentemente ho
sbagliato persona» sbraitò Matt arrabbiato. Mio
fratello si girò e fece per
andarsene «Spero che almeno potrò contare sul tuo
silenzio». «Aspetta».
“Dio…
dov’era il
tuo Dio quando mamma e papà sono morti?”.
“Matt, non
è
giusto che tu disprezzi così la mia fede”.
“No Marcus,
non
hai capito niente, io non disprezzo la tua fede… io
disprezzo te!”.
“È
così? Allora
vattene!”
«Aspetta».
Mio
fratello si girò lentamente. «Io ti credo Matt,
sono solo confuso e
spaventato». Matt si avvicinò sospettoso.
«Forse ho un’idea!». Estrassi dalla
tasca il mio taccuino nero su cui segnavo sempre tutto per evitare di
dimenticarmi alcunché. Sfogliai rapidamente le pagine
trovando finalmente
l’appunto che cercavo. «Ecco
qui» dissi
strappando la pagina e dandola a mio fratello. «È
l’indirizzo di una medium, io
non credo in queste cose ma potrebbe essere un buon punto di
partenza». Matt mi
studiò attentamente, come un animale selvatico scruta
attentamente chi gli dà
il cibo prima di accettarlo, ma alla fine prese il foglio.
«Grazie» mormorò
prima di sparire nella neve. “Sto proteggendo un
assassino” pensai mentre il
ragazzo si allontanava. Mi inginocchiai sulla tomba incurante della
neve e
pregai.
Mi
legai i capelli
color miele con un elastico e mi misi al lavoro. Scrutai attentamente
il
triangolino di carta e segnai su un foglio di word le cifre che
riuscivo a
leggere. Sembravano numeri senza senso ma doveva esserci una logica.
“Forse è
un codice cifrato” pensai inserendo i numeri nel
decrittatore. Il risultato fu
negativo. Tentai di farlo combaciare con centinaia di tabulati: orari
di voli,
tabulati telefonici, conti, bollette, spese municipali e qualsiasi
altro elenco
di cifre. Dopo due ore ero ancora davanti al computer, ormai stava
calando la
sera. Sbadigliai rumorosamente pronta a gettare la spugna, volevo solo
andare a
letto. Spensi il computer e mi misi la giacca. Attraversai la sala
vuota piena
di scrivanie quando una luce attirò la mia attenzione:
Qualcuno aveva lasciato
il computer acceso. Sorrisi stancamente e andai a spegnerlo, ma quando
stavo
per premere il pulsante un’idea mi balzò in testa.
Troppo curiosa per
rinunciare corsi indietro alla scrivania per recuperare il foglio di
carta e
inserii la sequenza numerica in una normale ricerca di Google.
Ovviamente la
cosa più semplice si rivelava la più efficace.
Note dell’autore: Buongiorno. Scusate la mia assenza nelle altre due long-fic a cui sto lavorando ma mi hanno assegnato un compito a scuola: scrivere un racconto giallo, questo racconto. Ho deciso di pubblicarlo in tre parti, non dovrete attendere troppo visto che la seconda parte è già completa. Vi prego commentate, anche perché mi fido molto più del vostro giudizio rispetto a quello della mia prof… Al prossimo capitolo.