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Autore: fallapart_    17/11/2009    4 recensioni
Sembrava che avesse trovato una ragione di vita, una luce, in quel che stava cercando di raggiungere per sfogare la sua curiosità: sembrava un bambino sveglio la mattina di Natale, davanti al regalo che la madre gli ha nascosto sopra la mensola più alta del soggiorno, illudendosi così di celarglielo.
Quando un vestito non è solo un oggetto, né uno stupido capriccio.
Genere: Fluff, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Brian Molko, Stefan Osdal
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DISCLAIMER: sfortunatamente nessuno dei personaggi mi appartiene, né sono mai venuta in contatto con loro. La caratterizzazione dei personaggi e i fatti narrati sono frutto della mia immaginazione e assolutamente non reali. Non intendo offendere nessuno e non traggo alcun guadagno dalla stesura di questo racconto.

Brian Molko/Stefan Olsdal, non esplicitamente amore, anche perché credo che nel loro rapporto ci sia qualcosa di ben più profondo. Vorrei ringraziare Giada, che mi ha ispirata con un suo disegno totalmente fuori di testa, e ovviamente la mia Mary che sopporta il mio stile tremendo ed è ufficialmente la mia beta-reader di fiducia (senza contare che mi ha praticamente costretta a pubblicare su EFP). Buona lettura!

Il titolo è ispirato allomonima canzone “If Only Tonight We Could Sleep” dei Cure.

 

*

 

Il bottone lucido guizzò fuori dall’asola, quasi fosse coperto d’olio, e rimbalzò contro il muro con un rumore secco, simile a uno scoppio. Le dita di Brian rimasero sospese a mezz’aria, come indecise sul da farsi, mentre un gruzzolo di filo scuro penzolava da un buco minuscolo, proprio lì, vicino alla cucitura, creando un’insopportabile visione complessiva di disordine, di imperfezione, che la sua immagine, riflessa nello specchio, aveva accolto con gli occhi spalancati e la bocca semiaperta, in segno di enorme disappunto.
«Cazzo!» le sue corde vocali stridettero quasi in automatico, anche se decisamente in ritardo, mentre si slacciava in fretta anche gli altri bottoni, e tastava la stoffa nera del gilet nel punto incriminato.
«Stef!» chiamò, senza pensarci due volte, camminando a passo spedito mentre si sfilava rabbiosamente il capo rovinato e se lo portava davanti con le braccia tese, quasi con disprezzo, fino a trovarsi davanti a una porta, che aprì, senza minimamente preoccuparsi di quanto fosse conforme ai principi delle buone maniere. «Stef, cazzo, guarda!» continuò, davanti a una figura alta, sottile, che al contrario di quanto si aspettava gli stava rivolgendo la schiena scoperta, chino su un cassetto. Era una bellissima schiena, bianca, segnata dalle curve giuste, e anche se Brian non glie l’aveva mai detto – o almeno, non nelle condizioni di ricordarselo – accoglieva sempre volentieri quella visione.
Stefan si voltò lentamente, inarcando le sopracciglia oltre la ciocca di capelli castani che gli copriva una buona metà del viso; finse stupore, come se non si aspettasse quell’irruzione. Lo faceva ogni volta, anche se ormai si era abituato a prepararsi con netto anticipo all’ingresso dell’altro da quella porta, tanto era certo che sarebbe successo, come ogni singola sera.
«Cosa dia... Brian?» la sua intonazione si fece più calma, appena si accorse di come l’amico lo guardava, reggendo tra le mani l’indumento con le mani sudate contratte in uno scatto nervoso, e che, appena furono liberate da quel fardello, prese a contorcere l’una nell’altra.
«Brian.» ripeté, rigirandoselo tra le dita, mentre osservava quegli occhietti limpidi volti verso l’alto, tersi come un cielo estivo, che apparivano e scomparivano sotto le palpebre solcate dal trucco. Le ciglia di Brian sbattevano in relazione al suo nervosismo: quando era teso, era solito aprire e chiudere gli occhi con una frequenza disumana, che lentamente si trasformava in uno strizzare isterico.
Stefan posò una mano sulla spalla dell’altro, finché con delicatezza non riuscì a volgerlo verso la parete opposta, su cui troneggiavano due enormi ante di ciliegio. Con un gesto meccanico, che riuscì però a far sembrare improvvisato, le spalancò. Un profumo di pino invase la stanza, e sentì il suo esile compagno inspirarlo a fondo, per poi tremare, contrariato.
«Chi ha cambiato il pout pourri? Mi sembrava di aver detto che...»
«Come vedi» lo interruppe subito, quasi ignorando la sua inutile protesta, ma mantenne il solito tono materno, indicando l’enorme macchia nera che riempiva il vano «Non hai che da prenderne un altro.»
«Ma io non ne voglio gli altri. Voglio il mio.» fece, arricciando le labbra con il suo solito fare da bambino capriccioso, che però riusciva in qualche modo a rendere sempre raffinato. Forse era il tono di voce fermo, mellifluo con cui esprimeva i suoi desideri, unito a quello sguardo infantile, che il sudore sulla fronte e la cornice di capelli mossi contribuivano a rendere ancora più patetico di quanto già fosse. Brian Molko era effettivamente patetico, ma sapeva fare anche questo con un’ineccepibile classe.
«Brian, abbi pazienza» Stefan cominciava a cedere al desiderio di infilarsi sotto la doccia. «È mezzanotte, il concerto è finito, accontentati di un... gilet di rimpiazzo, e vedrai che domani lo ricuciamo.»
Il cantante alzò ancor di più il mento, e non mancò di inclinare anche la testa su un lato, stringendosi nelle spalle esili che quella ridicola camicia cercava di rendere più larghe con un turbinio di pieghe.
«Promesso?» cinguettò, prendendo tra le mani il suo indumento preferito. Erano mesi che lo indossava a ogni concerto, ormai era diventato una sorta di rito, rinunciare al quale avrebbe presagito per lo show del giorno una disfatta totale.
«Promesso» lo assicurò l’altro. «Ora andiamo a dormire, su...»
«Ehi, aspetta, aspetta un minuto» Brian spalancò gli occhi, e anche le sue pupille si dilatarono, mentre tornava con lo sguardo all’armadio aperto e un dito tremante si alzava, lasciando cadere il pezzo di stoffa per cui tanto si era dannato e andando a indicare un punto sempre più alto. «Quello che cos’è?» esalò d’un fiato. Un luccichio si nascondeva tra i panni opachi; tante piccole stelline argentee, che si muovevano appena lui spostava la testa anche di un solo millimetro. Continuò a fissare lo sguardo su quella misteriosa apparizione, scorrendo con la mente tutti i metodi, tutte le soluzioni che avrebbe potuto adottare per raggiungere quell’altezza e capire di cosa si trattasse.
Spostò lo sguardo sull’altro uomo, scorrendo con occhi estasiati tutta la sua altezza. «Stef, posso salirti sulle spalle?» sussurrò, e lui non poté fare a meno di soffocare lo stupore e annuire, disarmato dalla passione che sembrava aver illuminato quei piccoli occhi, troppo spesso spenti. Sembrava che avesse trovato una ragione di vita, una luce, in quel che stava cercando di raggiungere per sfogare la sua curiosità: sembrava un bambino sveglio la mattina di Natale, davanti al regalo che la madre gli ha nascosto sopra la mensola più alta del soggiorno, illudendosi così di celarglielo.
Si chinò piano, quel che bastava perché l’altro gli salisse sulla schiena, per poi mettersi a cavalcioni del suo collo. Non era eccessivamente faticoso per il suo fisico, e ormai l’aveva fatto così tante volte che neppure ci fece caso.
Quando Brian giunse al massimo della sua altezza, i piedi che gli ciondolavano impercettibilmente nel vuoto, gli sembrò di poter dominare il mondo. L’adrenalina gli saliva in petto, mentre tendeva una mano verso la stoffa scura e sfavillante. Finalmente si fece tangibile, ed ebbe l’istinto di strattonarla con violenza per farla sua nel minor tempo possibile; ma toccare improvvisamente quella distesa stellata, e la paura di rovinarla, o peggio farle del male, avevano fatto sì che le sue dita scivolassero con placidità sull’appendiabiti, per sfilare le spalline con la massima delicatezza, sebbene fremesse dal desiderio di stringere quell’oggetto tra le sue braccia.
Quando i suoi piedi toccarono di nuovo terra, non aveva smesso di fissarlo. Pareva che uno sciame di astri lucenti fosse atterrato su quel pezzo di seta, per quanto scintillava: prese a scuoterlo con dolcezza, facendo tintinnare le minuscole stelline di luce.
«È... un vestito» disse, e sulle prime sembrò perplesso. Era tanto che non ne indossava uno simile e, a dire il vero, le poche immagini che quell’abito riusciva a evocare non riuscivano che a fargli del male. Aveva giurato che non ne avrebbe mai più messo uno. In effetti, da quando Cody esisteva, non faceva che preoccuparsi di cosa avrebbe pensato di lui, una volta abbastanza grande da informarsi e scoprire che quella puttana impertinente era solo una delle mille facce di suo padre. Incredibile come quell’esserino aveva cambiato la sua vita, e un po’ aveva cambiato anche lui, dato per certo che non si era mai preoccupato del suo modo di porsi, per tutti i trent’anni precedenti alla sua nascita.
Restava in silenzio, non dava segni di cedimento, eppure il bassista sapeva che prima o poi avrebbe desistito; non c’erano mai state barriere fisiche fra di loro, e certamente, se avesse davvero voluto svestirsi, si sarebbe anche dimenticato della sua presenza. E così, quello si sfilò in fretta i pantaloni, sbottonò con un gesto fluido i bottoni della camicia, e lasciò che quel tessuto così cedevole gli scivolasse lungo i fianchi.
Si volse verso lo specchio, e sembrava felice; si rimirava come se al mondo non esistesse più nessun altro, passandosi una mano nei capelli d’ebano, che andarono a scivolargli dietro le orecchie. Stefan lo guardava, e non poté fare a meno di lasciarsi scappare un sorriso. Era bello, quando si ravviava i capelli in quel modo: sembrava vulnerabile. Il Molko che non mancava mai di mostrare il medio o esprimere con schiettezza la sua opinione, che tirava costantemente la sua sigaretta e sorseggiava birra in ogni attimo libero, che colpiva ogni sera la chitarra con impeto urlando inconsolabile la sua disperazione, che trovava sempre l’affermazione più irriverente su cui far discutere i giornali, era solo una maschera? Il vero Brian era lui, la fragilità di quella pelle diafana che scintillava sotto un abito da donna, abbastanza corto da scoprire le ginocchia gracili di chi non si è mai sentito abbastanza forte da proteggersi da sé?
Comunque andassero davvero le cose, la seconda versione era maledettamente bella, e per un attimo Stefan pensò che sarebbe stato uno strazio lasciare semplicemente che il giorno sorgesse: perché allora, tutto sarebbe tornato come prima. Ci sarebbero stati di nuovo un gilet e una camicia, un bicchiere di birra e qualche affermazione sfrontata sbattuta davanti a una telecamera.
Gli cinse la vita, chinandosi eccessivamente per posare la testa sulla sua spalla, e indugiò sull’immagine di entrambi riflessa nello specchio. Senza dubbio, tutto sarebbe tornato come prima. Ma fino ad allora, ci sarebbero stati soltanto una fragile principessa e il suo principe, che non vorrebbe mai lasciarla andare via.

  
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