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Autore: Willow Gawain    19/11/2009    6 recensioni
Hidel, contea di Northumberland, Inghilterra - 1852.
Quel villaggio era perennemente bagnato dalla neve, perennemente avvolto dal freddo, dal vento, dalle nubi. Non compariva sulle carte, ma la sua figura tanto piccola quanto antica era sempre lì, ad aspettare pazientemente. Come un mostro in agguato, come un fantasma dagli occhi spietati. Una volta entrati a Hidel, la legge del villaggio proibiva tassativamente di abbandonarlo. Una maledizione, un sortilegio, una stregoneria lanciata tempo addietro da Satana camuffato da vecchia strega.
Forse, però, c’era ancora una speranza per Hidel. E quando il primo degli Angeli, il Supervisore, varcò la soglia di quel villaggio costruito in modo perfettamente circolare, come un cerchio magico, il conto alla rovescia per l’Apocalisse di Hidel ebbe inizio.
«Ora aggrappati al mio braccio. Tieniti forte. Visiteremo luoghi oscuri, ma io credo di sapere la strada. Tu bada solo a non lasciarmi il braccio. E se dovessi baciarti nel buio, non sarà niente di grave: è solo perché tu sei il mio amore.» [Cit. S.King]
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- 01

What colour is the snow?

- Prologo -

Hidel, villaggio di mercanti; Northumberland, Inghilterra - 07 Dicembre 1852.

La luce della luna illuminava l’intero villaggio; i suoi raggi, timidi ed incerti, sembravano accarezzare dolcemente i tetti delle case, rendendo il paesaggio più morbido e ingentilendone i tratti forti. Hidel, un minuscolo paesino sperduto tra le fredde montagne della Gran Bretagna, sognava i suoi sogni più tranquilli. Lì, all’estremo nord del mondo, niente e nessuno sembrava costituire una minaccia abbastanza grande da impedire ai paesani di dormire sonni sereni.

Quel piccolo angolo di mondo era coperto dalla neve tutto l’anno e durante la stagione dei raccolti la temperatura sfiorava i dieci gradi; in tutto, meno di ottanta famiglie lo abitavano, che si aiutavano a vicenda, sostenendosi le une con le altre per sopportare la dura vita di ogni giorno.

Attorno al villaggio non vi erano altro che radure e foreste, che si alternavano per chilometri e chilometri fino a raggiungere Terren, una delle principali città della regione, luogo di pellegrinaggio per gli abitanti del paese, essendo questi in prevalenza mercanti di stoffe ed altri prodotti artigianali.

Così come le lande che facevano da sfondo al villaggio, nemmeno la foresta aveva un nome. Né di giorno né di notte i raggi luminosi riuscivano a penetrare la barriera di tronchi e rami, conferendo così alla selva un qualcosa di crudele e al contempo mistico. Appariva come un luogo vietato ai comuni mortali, e così era. Chiunque si addentrava in essa correva enormi rischi: tra le sue cortecce, infatti, si annidavano esseri di diverso tipo, ma tutti ugualmente pericolosi per un essere umano.

Anche quella notte la foresta era in attesa di qualche stolto villico che, per diletto o per chissà quale motivo, vi si addentrasse; ma come ogni sera sarebbe stata un’attesa vana. Infatti gli abitanti di Hidel non erano stupidi e si erano attrezzati per attraversare la boscaglia: una lunghissima via, chiamata “Via della luce”, la attraversava da parte a parte. Il nome era stato scelto con accuratezza: simboleggiava la sicurezza di quella strada che, perennemente illuminata, non permetteva attacchi a sorpresa da parte di animali o briganti. Ovviamente non veniva mai attraversata da una persona da sola, difatti tutti i mercanti del villaggio si mobilitavano in massa durante determinati periodi dell’anno per raggiungere Terren, dove avrebbero venduto i loro prodotti nelle grandissime fiere che si tenevano durante l’anno.

“Un posto davvero carino.”

Una figura si muoveva con agilità ed eleganza tra le ombre della foresta, tra i rami caduti e i cumuli di neve fresca. Muoveva passi serpentini e fermi, di chi sa quello che vuole fare. Si avvicinò velocemente alla piccola cittadina con passo leggero, sembrava quasi che stesse fluttuando. La luce osò avventurarsi sul suo mantello bianco mentre egli si faceva più avanti, volendo osservare più da vicino il luogo. Il suo viso venne illuminato, rischiarato per un attimo; in esso si notava una bellezza molto particolare.

«Hidel…» mormorò con voce profonda, fredda e tagliente, dal tono virile. Scoccò un’ultima occhiata in direzione della cittadina, mentre il suo chiaro volto veniva illuminato ancora, non dalla luce, bensì da un sorriso divertito.

«E’ tempo.»

Poi, com’era apparso, scomparve nel nulla.

 

 

- Capitolo 01: La città della neve -

 

La debole luce del sole faticava ad attraversare la finestra. La piccola stanza era quasi completamente al buio, nessun rumore sembrava in grado di spezzare il meraviglioso silenzio istauratosi la sera prima. Pochi metri di stanza per un’adolescente che ora giaceva sotto le coperte, annidata nel suo letto di calda paglia, sotto la piccola finestra. Respirava molto profondamente, stava ancora dormendo. Immersa nei suoi sogni inaccessibili, ignorava completamente il fatto di essere in tremendo ritardo.

Il silenzio quasi sacro fu interrotto da un bussare impaziente alla porta da parte di un ragazzo, che fece poi irruzione premurandosi di fare quanto più rumore possibile.

«Ann, svegliati! Sei in ritardo!» avvertì il giovane dai begli occhi azzurro scuro, fermandosi sulla porta ad aspettare che la sorella finalmente desse segni di vita «Datti una mossa, topo!» la spronò, rassegnato all’evidenza: ogni mattina era quasi impossibile svegliare la giovane contadinella.

«Uhm…» da sotto le coperte venne un debole mugolio, accompagnato dallo spostarsi di una folta chioma corvina; la ragazza si era finalmente svegliata.

«Gabriel… ancora un minuto…» pregò una vocina scocciata e assonnata, interrotta però da un sospiro desolato da parte del fratello.

«Sbrigati, ti aspettiamo di sotto per fare colazione.» la avvertì, quindi fece un passo all’indietro uscendo dalla stanza. Si premurò di chiudersi la porta alle spalle con forza, così da dare un maggiore incentivo alla sorella, anche se sapeva bene che non sarebbe servito a granché.

 

Maledetto Gabriel e maledetta porta! Spostai piano le coperte, scoprendo il corpo, avvertendo immediatamente il freddo pungente attraversarmi la schiena, brividi che correvano veloci. Mi stiracchiai alzando le braccia, svegliando i muscoli ancora intorpiditi dal sonno; strofinai gli occhi ancora impastati di sonnolenza, alzando poi lo sguardo per guardarmi attorno. Niente da fare, la mia piccola e anonima stanzetta non aveva proprio nulla a vedere con le meravigliose stanze dei castelli dei miei sogni. Era così… vuota, fredda, quasi quanto la temperatura fuori dalla casa. Ma dopotutto, noi Nevue eravamo una famiglia un po’ povera, come tutti a Hidel, e non avrei mai osato chiedere ai miei genitori un inutile spreco di soldi per me. Mi accontentavo del mio minuscolo spazio in quella casa, per quanto vuoto fosse.

Poggiai i piedi sul freddo pavimento di legno, avvertendo una nuova  scossa di brividi. Dannazione, che sonno…

Rivolsi un ultimo sguardo nostalgico al mio caldo letto, rimpiangendo il momento in cui avevo annunciato a mio padre che ero pronta a mettermi sotto anch’io, lavorando per la famiglia. Mi avvicinai all’unico mobile della cameretta: una cesta di legno in cui tenevo i vestiti; sfilai la camicia da notte vecchia e logora dalla testa, rimanendo sotterrata da quella massa di capelli neri che era la mia maledizione. Tirai un lungo sospiro di sollievo quando riuscii a dar loro una sistemata, afferrando poi una veste a caso. Infilai la lunga gonna blu, richiudendo quindi i bottoni della maglia di lana bianca. L’unico sfizio che mi concedevo sempre era una fascia per capelli nera con merletti bianchi, confezionata da mia madre. Diedi un’occhiata fugace al frammento di specchio poggiato sulla cesta, adocchiando il mio aspetto: come sempre orrendo. Cioè, tutti mi dicevano che ero una ragazza carina, ma io ero troppo abituata alle bellissime principesse dai lunghi capelli biondi delle fiabe, per giudicarmi “carina”. Sarà una cosa normale tra noi giovani adulti, no?

Forse era quel mio essere continuamente la stessa, monotona, noiosa Ann. Portavo sempre i capelli sciolti, sin da quando ero bambina. Erano neri, molto lunghi, un vero inferno da pettinare. Come ogni membro della mia famiglia avevo grandi occhi blu mare. Accidenti, non credo di poter fare questo paragone: io non ho mai visto il mare; Hidel si trova in una parte abbastanza interna della regione, e la costa è molto lontana. Infine, come ogni abitante delle mie terre, la pelle chiara, tipica di chi vive tutto l’anno in un luogo dove il sole batte poco o niente. Ma altre cose odiavo nel mio aspetto: innanzitutto la mia altezza, infatti sfioravo il metro e sessanta scarso, e per questo mi ero meritata il soprannome di “nana”, “topo” per gli amici. Infine… beh, lasciamo perdere.

Mi diressi a grandi falcate verso la finestra, aprii piano il vetro lasciando entrare uno spiffero d’aria ghiacciata. Con un movimento lento, ancora intontito dal sonno, portai dietro l’orecchio una ciocca di capelli, sbadigliando svogliatamente.

«Annlisette! Vuoi darti una mossa o no?!»

Ecco, quando mio padre comincia a urlare non è un buon segno.

«Arrivo!» gridai a mia volta, sperando che la mia vocina giungesse al piano di sotto. Lasciai malvolentieri la mia camera a grande velocità, uscendo dalla porta e scaraventandomi giù dalle scale con un rumore tonante. Quando Annlisette Nevue scendeva le scale la mattina, tutti nella casa lo sapevano.

Finalmente giunsi in cucina, cercando di riprendermi dal fiatone – saltare tre gradini alla volta non è salutare -, quindi sorrisi al resto della famiglia. Mia madre serviva del pane a tavola, sistemando la brocca d’acqua al centro del tavolo un po’ malconcio.

«Buongiorno!» salutai allegramente, sedendomi poi accanto a mio fratello.

«Buongiorno, Annlisette.» mi sorrise la mamma, sedendosi anch’ella proprio davanti a me. Come ogni mattina, era bella come il sole. Ammiravo immensamente la mia dolce mamma, era il mio modello: dolce, buona, bellissima, niente la scoraggiava mai. Era sempre felice, pronta a donare il suo immenso amore e ad aiutare il prossimo.

«Meglio tardi che mai.» mio padre era tutto il contrario di lei. Come sempre, il simpaticone non mancò di mettere il dito nella piaga. Se sbagliavi te lo faceva pesare per giorni. E considerando che io ero in ritardo ogni mattina… beh, ripeto: lasciamo perdere.

La colazione fu piuttosto sbrigativa e noiosa, come ogni monotono giorno in quel monotono villaggio in cui si consumava la mia monotona vita. Uscii di casa molto presto: quella mattina dovevo far visita al negozio del macellaio e a quello della sarta.

Presto sarebbe stato il mio compleanno – presto… in realtà mancavano ancora venti giorni, ma a Hidel fanno le cose in grande in queste occasioni! -, e mamma e papà volevano far festa. Ovviamente una festa che rientrasse nelle nostre già precarie condizioni economiche.

Aprii la porta, avvertendo il solito vento gelato entrare in casa, uscii poi, meravigliandomi: la nevicata notturna era stata peggiore del solito, e ancora non accennava a fermarsi. Piccoli e bianchi fiocchi di neve scivolavano dalle nuvole, poggiandosi delicatamente su ogni cosa. Ne spostai malamente uno che aveva scelto un luogo molto brutto per atterrare: il mio naso. Scossi la testa, sentendo qualche brivido. Nemmeno quell’estate era stata calda come la famosa estate del 1840, quando, secondo i racconti di papà, si era toccata la meravigliosa temperatura di diciotto gradi. Doveva essere stato davvero caldissimo. Lì ad Hidel eravamo abituati al clima letteralmente ghiacciato; la neve spadroneggiava sulle nostre lande per buona parte dell’anno, senza darci possibilità di scampo. Il mio sogno proibito era quello di viaggiare e trovarmi in un luogo più caldo di quello sperduto villaggio in cui vivevo da sedici anni. Ma si sa… i sogni son sogni…

«Buongiorno, Annlisette.»

Di tutte le voci che avrei voluto sentire, quella di Doralice Clokie era decisamente l’ultima, e, ovviamente, se mi trovavo alle spalle l’oca più oca del villaggio poteva significare solo due cose. Uno: oltre ad ella c’era il gruppo delle cosiddette “represse”, che da circa tre anni si divertivano a tormentarmi; due: erano lì per tormentarmi. Mi voltai mostrando una faccia poco amichevole, già pronta a inventarmi qualche velenosa risposta.

«Buongiorno a voi.» sorrisi beffarda. Come si dice: far buon viso a cattivo gioco.

«Dove vai?»

Doralice era ritenuta la ragazza più bella del paese: lunghi riccioli biondi terminanti in boccoli da principessa, occhi verde smeraldo, alta, formosa. Odiavo quel maledetto neo sotto l’occhio di cui si vantava dalla mattina alla sera.

Era convinta che chiunque le rivolgesse la parola avesse una cotta per lei. Dunque circa tre quarti di villaggio – a detta sua - erano pazzi di lei. In una parola: oca.

«Compro alcune cose.» risposi lapidaria, come mio solito. Non riuscivo mai ad essere gentile con lei, lo ammettevo. Ma come darmi torto?

«E’ vero, tra poco fai gli anni… ehm, quindici?» un coro di stupide risate si alzò alle sue spalle. L’incredibile simpatia di Doralice era talmente tanto sottile che io, povera contadinella, non riuscivo a coglierla.

«No, Doralice. Sono più grande di te, ricordi?» era vero; avevamo la stessa età, c’era solo una piccola differenza di qualche mese, ma sapevo come colpire nel segno – non sopportava di essere più piccola di me - e gustai appieno le facce sconvolte delle oche mentre offendevo a morte il loro capo. Sorrisi di rimando all’occhiata rancorosa che mi venne rivolta, orgogliosa di me stessa. Dopotutto, avevo un po’ pena di quelle povere sceme che non riuscivano a imporsi e dovevano nascondersi sempre dietro l’altra povera scema che si credeva il loro “capo”. Girai i tacchi, decisa ad andarmene. In fondo quelle erano solo stupide ragazzine di cui non ci si doveva spaventare. Quelli di cui bisognava aver timore erano altri, ovvero i tre bulli del villaggio, e chiunque avesse meno di diciotto anni aveva paura di loro. Avevano diciannove anni, esempio di persone irrecuperabili.

Il freddo si stava intensificando, mi facevano un po’ male le ossa… E’ possibile avere i reumatismi a soli sedici anni? Sbraitai, voltandomi poi ad osservare il sentiero che stavo percorrendo. Fortunatamente quelle oche noiose non mi avevano seguita.

Entrare nel negozio del macellaio era come addentrarsi nelle zone artiche della nazione.

«F… Fred… do…» battevo i denti come sempre, sentendo quella morsa ghiacciata tipica del negozio di Guy prendermi il corpo. Lui, il macellaio del paese, sosteneva che più la carne veniva conservata al freddo più era buona. Ma là dentro la situazione era tremenda! E, sinceramente, non potevo fare a meno di chiedermi se il padrone del negozio fosse ancora vivo o si fosse congelato assieme alla sua amata carne. Avanzai pian piano tremando come una foglia.

 Tenevo le braccia attorno al corpo, cercando invano di riscaldarmi.

«G… G-g-guy…!» mi sforzai di chiamarlo.

«Oh!» il vocione del macellaio mi fece letteralmente sobbalzare per lo spavento. Tentai di fare un sorriso di circostanza, alzando una mano per salutarlo.

«La piccola Ann! Anche se ormai dovrei dire grande!» mi sorrise l’omaccione. A prima vista poteva incutere timore, con quel suo viso canuto e cadaverico e la stazza enorme. Era alto quasi due metri ma la cosa più inquietante di lui era che – nonostante  fosse una persona di tutto rispetto - se ne andava sempre in giro con uno dei suoi coltellacci enormi e perennemente sporchi di sangue animale.

«B-b-buongiorno!» esclamai con fare allegro, anche se faticavo a parlare. Come accidenti faceva il macellaio a passare tutte le sue giornate chiuso in quella stanza congelata? Come sempre mi sarei limitata a dire il necessario, era meglio uscire il più in fretta possibile da quel posto «Sono q-qui per la carne che i-ieri papà ti aveva c-chiesto.»

«Ah sì, aspetta un attimo.» rispose l’omone, per poi addentrarsi nel negozio.

Oh no, pensai, quando si cacciava là dietro perdeva un sacco di tempo. Il suo concetto di “attimo” non era esattamente uguale a quello del resto dell’umanità! Sarei morta surgelata. Sicuro. Ma, incredibilmente, per una volta Guy non impiegò i soliti venti minuti. Dopo cinque minuti buoni tornò portando in mano un bel po’ di carne di non so quali animali. Rimasi sbigottita: da quando avevamo i soldi per permetterci quella gran quantità di cibo?

«Guy… sicuro che non ci sia q-qualche errore?» domandai, inclinando il capo e alzando un sopracciglio.

«Sicurissimo. Diciassette anni sono importantissimi, Ann. Per una ragazza segnano il passaggio all’età matura, e tuo padre intende fare le cose in grande.»  mi sorrise lui.

Lo fissai torva.

«Ma così rischiamo di i-indebitarci! O, peggio ancora, di sprecare tutto il ricavato dell’ultima stagione!» esclamai, stringendo i pugni.

Guy mi fissò come un padre fa con la figlia, con un sorriso troppo dolce, che non si addiceva per niente alla sua stazza.

«Ann, tuo padre ha solo due figli: te e Gabriel. Tuo fratello ormai è cresciuto e presto lascerà il nido, mentre tu… tu sei ancora la bimba di casa.» al solo sentire la parola “bimba” gli scoccai un’occhiataccia «Credimi, è normale che tuo padre voglia far entrare in grande stile la sua piccola nel mondo degli adulti. Ho sentito che vuole organizzare una cena per tutto il villaggio.»

La sola prospettiva mi fece rabbrividire. Odiavo essere al centro dell’attenzione, papà lo sapeva. E lui e la mamma volevano comunque organizzare una serata tutta per me? Certo il loro era un pensiero dolce, ma non volevo che si indebitassero solo per questo. Abbassai lo sguardo.

«E comunque…» riprese il macellaio «il vecchio Lazarus ha ordinato solo questo» sorrise disinvolto, dividendo poi la carne in due mucchietti. Quello più piccolo sarebbe bastato a far mangiare una decina di persone. A Hidel eravamo una cinquantina di famiglie.

Il mucchio più grande, decisamente meglio assortito… Solo allora capii, e scossi la testa «No, Guy. Se mio padre v-viene a sapere che ci regali del cibo mi ammazza. Sai che o-odia l’elemosina!»

«Elemosina?» rise fragorosamente il macellaio. Avevo paura che il locale cominciasse a tremare, tanto era forte la sua voce «Cara piccola Annlisette Nevue, prendilo come il mio regalo di compleanno!» rise, e a me si strinse il cuore. Non potei fare a meno di sorridergli. Era davvero un uomo dal cuore grande e caldo – che ironia -.

Sospirando, e tremando ancora per il freddo, annuii, prendendo la carne e lasciando delle monete sul tavolo, quelle che papà mi aveva dato. Intanto il macellaio imbustava la carne «Serve aiuto per portarla a casa?» mi domandò.

«No, tranquillo. Ce la faccio, al limite faccio chiamare Gabriel.» sorrisi. Dunque, facendomi carico di quel peso – e accidenti quanto pesava! - feci per uscire.

«Guy!» lo chiamai, poco prima di lasciare il negozio «Grazie.»

«Buona giornata, piccola Ann.» mi sorrise lui, quindi tornò al suo lavoro. Ed io al mio.

 

Una volta uscita dal negozio, la piccola Ann, carica di pacchi, si sentì ristorata. Hidel era un paese quasi perennemente coperto dal manto nevoso, ed ogni volta che usciva dal negozio del macellaio Guy era come se fosse passata da un ghiacciaio a una spiaggia tropicale. Tuttavia, quel mattino faceva più freddo del solito, e la ragazzina fu costretta a coprire per bene anche la bocca con la sciarpa confezionatale dalla madre, per evitare che le si formassero piccoli ghiaccioli sotto il naso. Il paesino, di solito placido, sembrava per una volta animato e vivace, come in attesa di qualcosa. Quelle poche persone che c'erano in giro correvano a destra e manca, chi col fiatone, chi nervoso, chi eccitato. La giovane, un po’ innervosita da quell’atteggiamento così strano, passò oltre, dirigendosi verso la seconda tappa del suo “viaggio”. La madre le aveva chiesto di passare dalla sarta per comperare alcune spagnolette. Chissà, magari sarebbe anche avanzato qualcosa e avrebbe potuto comprare un rocchetto in più di quel colore blu oltremare che tanto le piaceva. Così, con semplici pensieri in mente, si era allontanata dal centro del paese.

«Ann! Ann!»

Sentendosi chiamare, la ragazza si voltò. Aveva riconosciuto la voce di Krissy, una delle poche persone che considerava sue amiche al villaggio. Era una ragazzina dai capelli color rosso chiaro, così minuta da ispirare tenerezza. Poteva sembrare insignificante, in realtà era molto affascinante, forse per quella vena di purezza che le scintillava negli occhi verde intenso. La dolce ragazza le stava correndo incontro agitando le braccia.

«Ciao, Krissy.» la salutò, sorridendole «Come mai così di corsa?»

«Cosa?!» Krissy parve quasi offesa da quella domanda. Tenendo le mani davanti alla bocca, esclamò a gran voce «Che domande! Sto andando a vederlo, no?»

«Vedere cosa?» continuò Ann alzando un sopracciglio, senza capire.

La rossa sbuffò «Come sempre non sei informata, Ann!» per poi colpirla con un leggero pugno sulla testa, in risposta al quale la ragazzina mora cacciò fuori un “ahia!”. Krissy la ignorò e riprese «Lo straniero! E’ arrivato uno straniero!»

«E solo per questo mi hai dato un pugno in testa, razza di incosciente?!» Ann sembrava sul punto di voler picchiare la rossa, ma venne interrotta dall’amica, che riprese il suo discorso.

«E’ giunto stamane a dorso di un cavallo bianco. Dicono che sia davvero affascinante!» con aria sognante, quasi già immaginasse il suo matrimonio con “lo straniero”, continuò la sua spiegazione «Mi hanno detto anche che ha la pelle bianchissima e che probabilmente viene da un nord ancora più a nord di Hidel»

«Esiste un nord ancora più a nord di Hidel?» la vena scettica di Ann non demordeva. Che accidenti avevano messo in testa a Krissy? Hidel si trovava nella parte più settentrionale delle Nameless, in assoluto la parte più settentrionale della nazione. Non esisteva un nord più a nord di Hidel. Beh, almeno questo dicevano nei libri…

«Altrimenti come ti spiegheresti quella carnagione così chiara? Dicono che sia ancora più chiaro di te!»

«Non so, mica l’ho visto io, questo straniero…» rispose la mora «Forse si è lavato con la spazzola dei cavalli?»

Le due ragazze risero, immaginandosi la scena.

Ma la parola venne subito ripresa dalla rossa «Sul serio, Ann! Vieni anche tu. Ti aiuto a portare la carne a casa e poi andiamo.»

«No, Krissy, non posso.» rifiutò Ann «Devo ancora passare dalla sarta.»

«Ci passeremo dopo! Sai che sono timida.» la implorò l’amica «Senza di te mi sento persa, per favore!»

Ann non voleva arrendersi, ma Krissy sapeva cosa fare per convincerla. Quelle parole erano infatti come un colpo al cuore per la contadina, che sospirò annuendo «Va bene, va bene. Ma non perdiamo troppo tempo.»

«Evviva!» esclamò allegra Krissy «Stai tranquilla, e ora andiamo!» si fece carico di due buste, cominciando a camminare velocemente verso casa Nevue.

Durante il tragitto Ann provò a immaginare il nuovo arrivato. A dorso di un cavallo bianco… con la pelle chiarissima… Sembrava il principe azzurro.

«Che altro ti hanno detto di questo tipo?» domandò a un certo punto alla compagna.

«Biondo, alto e ben impostato. Insomma sembra un gran bell’uomo, anzi ragazzo!» si voltò a sorridere all’amica «Mary Blake sostiene che abbia tra i venti e i trent’anni, a giudicare dall’aspetto.» il suo sorriso divenne sognante «E infine… mi ha detto che ha gli occhi così blu da far girare la testa. Il principe azzurro!»

«Uhm…» Ann non parve molto entusiasta all’idea. Lei non era il tipo che passava le sue giornate a immaginare il principe azzurro. Era troppo realista e rifiutava parole come “principe azzurro”. Principesse, principi e magia erano favole, e come tali dovevano rimanere chiusi nei suoi sogni.

«Incredibile…» disse con falso entusiasmo, alzando gli occhi al cielo.

«Uffa, Ann!» la rimproverò Krissy «Datti una mossa, sei già in età da marito! Se non ti sbrighi resterai zitella!» dunque corse via.

Stava fremendo per andare a conoscere quel benedetto straniero. La mora, con un sospiro, la seguì accelerando.

 

«La casa della signora Dalia?!» l’esclamazione sorpresa e improvvisa fece spaventare un povero gatto che stava placidamente appollaiato sui gradini di una casa. Infastidito, se ne tornò dentro.

«Sì, sembra che i figli gli abbiano dato il permesso.»

Ann guardava Krissy contrariata. La vecchia signora Dalia era morta da qualche anno, e la sua casa non era stata toccata. Si trattava di una piccola catapecchia – come tutte quelle di Hidel -, ancora in buone condizioni. Un po’ piccola forse. A quanto pareva sarebbe stata la residenza dello straniero per un po’. A Hidel non c’erano locande che offrivano vitto e alloggio, c’era una sola taverna che ogni sera ospitava gran parte degli uomini del paese. Era strano che i figli della signora Dalia avessero accettato di prestare la casa a un totale sconosciuto.

Giunsero presso l’abitazione. Stava quasi per cadere a pezzi, probabilmente ci sarebbe stato da restaurare. Era abbastanza vicina alla grande foresta, in una zona isolata di Hidel dove l’unica padrona era la neve. Neve ovunque: sul letto, sulla ringhiera in legno, sulle scale che permettevano di raggiungere la porta, sui rami del grande e spoglio albero che distava dalla casa sì e no dieci metri, sul sentiero ormai invisibile che congiungeva la casa al resto del villaggio poco lontano. Insomma, un posticino alquanto desolato. Non si sarebbe offeso, quello straniero?

«Krissy, scusa la domanda ovvia, ma come faremo a parlare con questo tizio? Hai già in mente una scusa per attaccare bottone?» domandò Ann, ancora scettica riguardo il “piano” dell’amica.

Confermando i suoi sospetti, la rossa rispose «In realtà no…»

«Mi sembrava ovvio…» il morale già basso della giovane ora rasentava terra. Perché aveva accettato di seguire l’amica? Forse perché era l’unica ragazza in tutto quel paesino che teneva davvero a lei, ma in fondo… Cioè, cosa diavolo ci facevano loro due fuori da quell’abitazione? Avevano entrambe moltissime cose da fare, e non potevano permettersi di perdere tempo con un tizio qualsiasi. Possibilmente le dicerie sulla bellezza dello straniero erano bugie, e si sarebbero trovate davanti a un montanaro rozzo e antipatico.

«Io me ne torno a casa.» decretò  Ann.

«No!» esclamò l’altra, tentando di fermarla. La prese per un braccio «Non abbiamo fatto questo viaggio per fermarci a un passo dall’obiettivo! Ti prego!» tentò ancora di convincere l’amica. Con tutta la forza di cui era dotata cercò di tirarla indietro, ma Ann, ragazza fortissima di natura nonostante l’esile corporatura, avanzava senza problemi, trascinando dietro di sé la povera disperata.

«Me l’hai promesso!»

«Non ti ho promesso nulla, e la sarta mi sta aspettando.»

Annlisette non era certo il tipo che demordeva una volta deciso qualcosa e non sarebbe stata Krissy a farle cambiare idea, non quando già sapeva che una volta tornata a casa avrebbe ricevuto una bella lavata di capo per il ritardo. Continuò a strascicare la piccola e debole amica, sbuffando.

«Aaaaaaann  provò infine la rossa, disperando di ricevere un po’ di attenzione dall’altra. Rassegnata, cercò di strattonarsi dalla presa di ferro che inizialmente doveva essere lei a fare su Ann, ma che alla fine era stata Ann a fare a lei. Si tirò indietro, maledicendo la sua debolezza, mentre sul suo viso compariva un’espressione affaticata. L’altra, intanto, ridacchiava, fiera di essere riuscita a far cambiare idea a Krissy. Era un’inutile perdita di tempo, nient’altro.

Con somma sorpresa della mora però, la rossa riuscì a strattonarsi con un’improvvisa potenza che le fece perdere l’equilibrio; per un attimo si ritrovò dondolante su un piede solo, scivolando poi rovinosamente. Chiuse gli occhi aspettando di sentire il solito dolore che si prova quando si cade sulla neve dura e fredda. Ma questo non arrivò.

«Attenzione, mademoiselle

«Uh?» rendendosi conto di essere stata presa al volo da qualcuno, Ann aprì piano gli occhi. Sentiva freddo sì, ma probabilmente le era trasmesso dai vestiti della persona che l’aveva sorretta. Infatti la prima cosa che vide rimettendo a fuoco il mondo fu la veste nera sulla quale era atterrata, una specie di mantello. Alzando lo sguardo quasi le venne un colpo. Incontrò due sconosciuti occhi di un celeste simile a quello del cielo, tanto era chiaro. Ann sbatté le palpebre due volte per assicurarsi di vederci bene. Un giovane uomo che mai aveva visto la teneva per le spalle,  gli era caduta addosso. Lui, da sotto un ribelle ciuffo biondo, le sorrise tranquillamente «Tutto bene, milady?»

Ann attese qualche secondo per riprendersi del tutto da quel momento di disorientamento, quindi, senza nemmeno pensare, chiese «E tu chi diavolo sei?»

Probabilmente, il primo pensiero che attraversò la mente dello sconosciuto fu che fosse una maleducata. Ma non lo diede a vedere. Il sorriso tranquillo non abbandonò il suo viso, anche se alzò un sopracciglio guardandola un po’ interdetto «Direi che state bene.» scherzò. La rimise in piedi, e Annlisette si ritrovò accanto a Krissy, la quale continuava a far scorrere lo sguardo veloce, guardando prima l’amica e poi il biondino, imbarazzata.

Solo allora Ann realizzò che si trattava del famoso straniero. Si pentì per un attimo di avergli rivolto quelle parole davvero poco gentili, ma fu solo un attimo, lo stesso attimo che le servì per notare il sorriso beffardo che esibiva.

«Cos’è? Ironia?» lo attaccò, squadrandolo da capo a piedi. Non poteva negare che non fosse un bell’uomo, anche se si portava molto male. Notava le occhiaie abbastanza marcate di chi passa le notti sveglio, il viso un po’ scavato, i capelli molto disordinati. Non doveva passarsela tanto bene, eppure aveva un’aria intellettuale, forse un po’ misteriosa a causa di quella cappa nera svolazzante così in contrasto con la neve chiarissima. Peccato per quella risatina canzonatoria.

Voleva forse prenderla in giro?

«E’ maleducazione non rispondere alle domande.»

Lo straniero rise mettendo le mani in tasca. Era davvero molto alto. Un metro e ottanta – forse addirittura di più - contro il metro e sessanta di Ann «Potrei rispondervi la stessa cosa, milady.» la riprese serenamente, inchiodandola con le parole «Soggiungendo che è buona educazione dare del Lei alle persone più anziane» non sembrava stargli particolarmente simpatica «ma non lo farò.» affermò infine, avvicinandosi alle due ragazze minute.

Piegò il busto in un inchino prendendo con delicatezza prima la mano di Ann e baciandone il dorso, quindi fece lo stesso con quella di Krissy, ancora frastornata. Quindi si rialzò «Perdonate la scortesia. Il mio nome è Nathan Metherlance, incantato.»

«Kris…» Krissy faceva persino fatica a parlare. Lo straniero doveva averla messa in fortissima soggezione. Non che fosse una grande impresa.

«Krissy Scottfish.» disse, per poi nascondersi dietro Ann, troppo timida per aggiungere altro.

Il biondino la guardò di sbieco, sembrava chiedersi se avesse sbagliato qualcosa. Dunque tornò ad osservare Ann, che nel frattempo si era abbassata prendendo i lembi della gonna con le mani, improvvisando un formale inchino che le riuscì abbastanza male.

«Annlisette Nevue, perdonate la maleducazione, messer Metherlance, mi avete colta di sorpresa. Vi ringrazio della gentilezza nell’evitarmi una brutta caduta.» sembrava completamente diversa dalla Ann schietta e quasi irriverente di poco prima. Ma lei era fatta così, quando la situazione lo richiedeva sapeva mettere da parte la sua franchezza quasi aggressiva.

«Non scusatevi, milady Nevue. Piuttosto… avete bisogno di aiuto?» chiese allora gentilmente Nathan, muovendo un passo in avanti «Sono nuovo, sì, ma mi sembra che qui tutti si diano una mano, e non voglio essere da meno.» mise una mano dietro la testa «Il problema è che non so da dove cominciare…»

«Ehm…» Ann cercò un qualche modo per togliersi dai piedi quel tipo che le stava già abbastanza antipatico. La cosa assolutamente da non fare era parlare della sarta…

«Beh, dovremmo passare dalla sarta…»

L’occhiata carica di stizza che la mora lanciò all’amica fece raggelare quest’ultima, la quale si nascose ancor più dietro di lei.

«Credi che non sappia portare un po’ di stoffa da sola?» chiese con tono offeso.

«Ma… ma…. Ecco, io…» provò a scusarsi l’altra, ma infine, capendo che era meglio tacere, sospirò dopo aver mosso un passo indietro.

Davanti a loro intanto, quasi avesse capito il problema, messere Metherlance si tirò indietro annuendo «Lady Nevue sembra una persona molto forte. Ma se doveste avere bisogno di aiuto sapete dove trovarmi.»

Infine sorrise loro «Ora vogliate perdonarmi, sono arrivato stamane e ho ancora molte cose da sbrigare.»

«Non ne dubito.» riprese Ann con nonchalance, distogliendo da lui lo sguardo «Immagino che ci vedremo stasera a cena.»

«Di grazia?» lui parve un po’ confuso da quell’affermazione.

«Qui a Hidel…» spiegò placidamente la mora «abbiamo l’usanza di cenare tutti insieme nella sala maestra, una sala molto grande che viene usata anche per le riunioni cittadine.» tornò a guardare il biondino, sorridendo di sottecchi «Immagino che il capo villaggio organizzerà qualcosa in vostro onore, messere. Lo fa sempre.»

«Capisco.» Nathan mise una mano sotto il mento, riflettendo su ciò che gli era appena stato detto. Infine tornò a sorridere alle due «Allora ci vedremo stasera. Spero di non perdermi.» scherzò, suscitando una risatina appena accennata nelle ragazze «A stasera.» chinò il capo in segno di saluto, quindi si allontanò.

Quando scomparve dentro casa, Ann guardò Krissy di sbieco «Sei soddisfatta, ora?»

«Sìiiiii!» esclamò allegra la rossa, saltando fuori dal suo nascondiglio. Prese le mani dell’amica «Prova a dirmi che non è un…»

«Saccente, elegantone, montato e antipatico?» la interruppe Ann «Sì, lo è.» quindi prese a camminare in direzione del negozio della sarta. Era in ritardo. Krissy la seguì protestando contro le accuse della mora, e in breve sparirono tra il bianco della neve e le figure delle  case.

Fu proprio allora che, fissando con insistenza il punto in cui la coltre bianca aveva inghiottito le due giovani amiche, l’uomo tornò sui suoi passi.

Nel bianco della neve, il suo mantello nero svolazzava freneticamente, portato in volo dalla brezza invernale.

Il sorriso tranquillo e pacifico di messere Metherlance non sembrava voler abbandonare il suo volto, e lo stesso messere Metherlance non sembrava voler abbandonare Hidel. Si sarebbe trovato bene lì. Lo sapeva.

Lo sentiva. 

 

Note dell’Autrice:

Un calorosissimo benvenuto a tutti i lettori! Alcuni – pochi – già conoscono Ann e Nathan, ma alla maggior parte di voi sono nuovi personaggi, magari molto strambi o curiosi. E io? Mi presento. Sono Sely, e Snow è il mio secondo racconto lungo, ma il primo che pubblico in questa sezione.

Un paio di informazioni su questa storia.

What colour is the snow?” nasce dall’esigenza della sottoscritta di dare voce a un background di un personaggio di GdR by forum, per l’appunto Ann. Nathan, che inizialmente era solo un’ombra del passato di Ann, ha prepotentemente assunto non solo il posto di co-protagonista, ma anche un’altezza notevolissima nella scala dei miei pg. Ci sarà da ridere, sì. Ma non partite dal presupposto che vi trovate davanti a una coppia di Mary e Gary Sue, le apparenze ingannano, e andando avanti nella storia la vera, crudissima faccia dei nostri protagonisti verrà fuori.

What colour is the snow?” è continuamente soggetto ad aggiornamenti – lenti, lentissimi – e modifiche che, me ne rendo conto, possono urtare un lettore. Ciò che vi chiedo, se siete così volenterosi da buttarvi nella lettura della storia, è tanta pazienza e buona volontà. In cambio mi impegnerò per rendere questa storia accattivante! :)

La storia è betata da Kikyo-sama, che mi dà sempre ottimi consigli riguardo la trama, e da VeganWanderingWolf, gentilissimo e simpaticissimo – oltre che fantastico scrittore *invidiosa* - collega.

Dopo innumerevoli betaggi  - betaggi? Esisterà? -, il primo capitolo di Snow va finalmente online in versione – si spera – definitiva.

 

Non ho altro da dire, se non… benvenuti a Hidel. E attenti ai fantasmi.

Sely.

 

  
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