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Autore: loveless_fairy    16/06/2005    4 recensioni
Aiko era distesa accanto a me sul gran letto matrimoniale e masticava un bastoncino di liquirizia. Era la prima volta che mi parlava apertamente di qualcosa che riguardava il suo passato...
Genere: Romantico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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AIKO

Autrice: Soffio d’argento

Serie: nessuna, è un original.

Rating: non saprei... sono proprio una frana ^^.

Capitolo: primo o forse unico.

Declaimers: i pg sono miei e solo miei *_*! Naturalmente non ci guadagnano -///-.

Note: è la mia prima yuri in assoluto. Non so perché l’abbia iniziata, so solo che ho seguito la scia di un pensiero e l’ho immaginata passeggiando.

Note di versione: capitolo betato! Ringrazio la mia carissima beta-rider e le porgo il mio più caro benvenuto nel mio piccolo mondo!

Dediche: alla sis, sperando che abbia il coraggio di leggerla ^^.

Dedica personale: alla mia beta Shotokan. Grazie di tutto!

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<< Sai cosa significa il mio nome nella mia lingua? >>

Alzai lo sguardo dalla rivista che stavo leggendo distrattamente e la guardai perplessa. Aiko stava ancora leggendo un manga in lingua originale. Era distesa accanto a me sul gran letto matrimoniale e masticava un bastoncino di liquirizia.

Era la prima volta che mi parlava apertamente di qualcosa che riguardava il suo passato.

Senza attendere una risposta e senza neppure sollevare lo sguardo dal manga, mi disse:

<< Frutto dell’amore. Non credi che sia un bel nome? >>

Mi sollevai sui gomiti per guardarla meglio. Indossava degli short gialli, di quel giallo che nella luce abbagliante del sole diventa quasi bianco, e una camicia di lino. Era supina e le gambe, piegate sulle ginocchia, ciondolavano avanti e indietro come il collo di un serpente.

<< E questo da dove ti esce? >>

<< L’ho letto su questo manga e mi è venuto in mente. La protagonista si chiama come me. >>

Tornai a guardare la rivista che avevo tra le mani. L’articolo che, svogliatamente, facevo finta di leggere, parlava delle relazioni omosessuali. Soffocai uno sbadiglio con la mano destra, mentre con la sinistra continuavo a sfogliare il giornale.

<< Non capisco perché compri questi giornali se poi non ti piacciono. >>

<< Non ho detto che non mi piacciono, è solo che mi annoiano dopo un po’. >>

<< Cioè dopo averli aperti. Ti va del tè? >>

Quando conobbi Aiko, lei lavorava in un bar con sala pub nelle ore notturne. Ero andata lì per festeggiare il mio compleanno con alcuni amici e la notai subito. Sembrava piccolissima dietro il bancone del bar. Agitava con estrema leggerezza lo shaker e pareva avesse un discreto successo con i ragazzi che frequentavano abitualmente quel locale. Vestiva una camicia bianca e dei pantaloni neri. Niente d’eccezionale quindi, ma indosso a lei sembravano d’oro.

La musica di sottofondo era molto bassa e a volte veniva sovrastata dal vociare sommesso dei tavoli vicini. Non so perché, ma in un primo tempo non riuscii a toglierle gli occhi di dosso.

Mi chiedo, adesso, se già non fossi caduta nella ragnatela del fascino che riusciva ad emanare.

Aveva i capelli rossi, così accesi da sembrare fuoco vivo, e un trucco forse un po’ troppo pesante, ma che le conferiva l’aria di una bambola di porcellana. Quando, forse richiamata dal mio sguardo incessante, sollevò gli occhi verso di me, per un attimo mi sentii persa. Era come fossi stata attraversata da una leggera ma costante scarica elettrica. Mi chiesi se fosse quello ciò che si provava ad innamorarsi di una persona.

Quasi avesse capito il mio smarrimento, mi sorrise come a volermi dire: non preoccuparti, non è successo nulla. Eppure qualcosa era accaduto.

Quella sera bevvi davvero molto. Ero così brilla da non capire chi fossi e dove mi trovassi. I miei compagni ridevano di me, ma di questo ben poco m’importava. Era la prima sbronza della mia vita e il mal di testa che ne sarebbe seguito lo avrei ricordato ogni volta che avessi cercato di bere qualcosa d’alcolico.

Quella sera uscimmo dal locale che era quasi mattino. Girovagammo in cerca d’aria per un’oretta, poi, quasi fossi stata richiamata da qualcosa, mi ritrovai davanti al pub.

In quel momento uscì lei, di corsa, e mi venne vicino. Mi spostò con la sua mano sinuosa una ciocca di capelli che mi ricadeva sul viso e mi sorrise. Disse solo che sapeva che sarei tornata lì, per lei. Mi prese per mano e mi accompagnò a casa. Le auto che, facendo rumore, ci passarono accanto nel silenzio della notte, sembrarono lucciole ai margini del bosco.

<< Il tè è pronto. Ti ho portato pure dei cioccolatini. >>

Aiko aveva, a mio avviso, un fascino innato. Apparteneva a quella categoria di persone che possedevano dentro di sé un po’ di magia. Non aveva il potere della telecinesi, non si spostava da un luogo all’altro fluttuando nell’aria, ma ogni suoi gesto sembrava far brillare mille luci colorate. Mi ricordava quei personaggi dei cartoni animati che vedevo da bambina, dagli occhioni grandi e dalla vita incredibile.

Aveva un viso piccolo, ma con lineamenti aggraziati e la sua pelle era così liscia che avrebbe benissimo potuto fare la modella per una marca di cosmetici, invece di lavorare in quel bar.

<< Stavi pensando a quel giorno, vero? Al giorno in cui ci siamo incontrate. >>

Questo è ciò che io definisco magia.

Sapeva leggere nel mio pensiero in qualsiasi momento della giornata, persino durante la notte.

A volte capitava facessi degli strani sogni che mi mettevano dentro un angoscia così grande da forzarmi a svegliarmi. Allora mi alzavo silenziosamente dal letto e aprivo la finestra lasciando che il rumore della città assonnata entrasse prepotentemente nella piccola stanza. I pensieri delle persone che dormivano nel nostro stesso palazzo fluttuavano come fantasmi fra le strade e mi pareva di scorgere, in ogni sogno che assaporavo, una nota lontana di malinconica tristezza.

In quelle notti rimanevo sveglia fino all’alba, perché il riaddormentarsi risultava impossibile. La finestra aperta lasciava entrare i pensieri di chi viveva o passava nelle vicinanze e questi si intrufolavano nei miei, prendendone possesso. Così mi capitava di pensare a cose stupide, come, per esempio, sarebbe stato il tempo il giorno dopo, oppure se nel cioccolato mettessero davvero quelle sostanze pericolose, gli OGM. Tutti pensieri a me estranei ma che, in quel momento, sembravano appartenermi più del colore dei miei capelli.

Dopo aver lasciato che la mia mente avesse assorbito tutta l’oscurità della notte, provavo ad alzarmi e la osservavo. Aveva gli occhi aperti e mi guardava con dolcezza. Il chiarore del lampione all’angolo le illuminava i fianchi avvolti dal lenzuolo e il suo sorriso brillava come quello delle bambole di porcellana. Allora mi allungavo verso di lei e mi sdraiavo di fronte. E restavamo così. A guardarci. Tutta la notte. Finché i nostri occhi si chiudevano e ci riaddormentavamo, con le mani strette.

Dormire assieme a lei mi riempiva di serenità.

Era un’altra delle sue magie, l’infondere serenità.

Era una sensazione talmente forte da legarti a lei con un solo sguardo.

Amavo percepire il suo respiro che si mescolava al mio, il profumo dei suoi capelli morbidi, le sue dita piccole e affusolate che stringevano le mie, le sue labbra che sapevano di fragola.

Mi piaceva tutto di lei. E questo mi terrorizzava.

Ne ero quasi ossessionata, come non potessi farne a meno. Non avevo mai provato stati di dipendenza in passato, non avevo mai fumato, né fatto uso di droghe di alcun tipo, eppure provavo qualcosa di simile quando stavamo insieme.

Dipendevo da lei quasi a livello maniacale.

Mi capitava spesso di pensare ad Aiko, anche quando lei era con me.

Chissà se le piacerà… chissà cosa direbbe Aiko… chissà come le starebbe…. Aiko… Aiko… Aiko.

A volte la odiavo, tanto n’ero presa. La odiavo perché mi faceva stare così, sospesa fra mondo reale e sogno. Incerta, debole, vulnerabile. Tutte sensazioni che, fino ad allora, non avevo provato, o almeno non nello stesso momento.

Era come un tifone che spazzava via ogni mia certezza. Come un uragano che faceva strage di me e dei miei sentimenti. E come il sole, che tornava dopo la tempesta delle mie emozioni. Come il sole che splendeva e mi riscaldava. Il punto fermo attorno al quale ruotava tutta la mia vita.

Aiko….

Quando era lei a pronunciarlo assumeva un suono particolare, come il rumore di un campanellino.

Aiko…. Amore…. Due parole che, inevitabilmente, mi riportavano alla stessa persona.

Un suono, tre sillabe, un universo intero. Pieno di stelle e pianeti, luci e oscurità.

Aiko non mi parlava mai del suo passato. Non sapevo cosa ci facesse qui, né chi fossero i suoi genitori. Sapevo che ogni volta che provavo a farle qualche domanda, si mordeva le labbra e capivo che non era ancora il momento. Lei allora si alzava e andava ad accendere la tv. Sapevo che non guardava nulla, ma che, in quel momento, cercava di respingere una parte di se stessa che avrebbe voluto dimenticare, una parte del suo passato che avrebbe voluto cancellare. E io mi sentivo colpevole, perché nonostante la sua sofferenza mi procurasse dolore, avrei voluto scoprire di più, avrei voluto farle domande su domande. Avrei voluto scavare in quel pozzo profondo nascosto dietro il suo sguardo sfuggente.

In quei momenti non sapevo che fare.

A volte mi sedevo accanto a lei, semplicemente, e la guardavo cambiare canale in continuazione.

Altre volte mi alzavo ed uscivo e il rumore della città attutiva quello della mia coscienza. Dimenticavo le domande che volevo farle e mi sentivo meglio.

Altre, invece, restavo a guardarla.

Mi sentivo incapace di agire.

Avrei voluto che vi fosse un manuale in proposito. Avrei voluto sapere cosa fare, cosa dire, ma finivo sempre per agire nella maniera sbagliata.

Avrei voluto che fosse solo mia, con ogni suo pensiero ed ogni tassello del suo passato. Ma mi accorgevo che non si può possedere una persona. La si può amare, le si può stare vicino nei momenti di sconforto, si può ridere con lei, ma non si può possederla. Per quanta sincerità possa esserci in un legame, la persona che ami non si concederà mai del tutto a te. Terrà sempre, in un luogo segreto, una parte di lei che non vuole farti conoscere.

E Aiko mi nascondeva il suo passato.

Ogni giorno mi imponevo di aspettare, di darle il tempo. Ma il tempo per cosa? Cosa nascondeva? Da cosa voleva tenermi lontana?

Aiko aveva conosciuto i miei genitori l’estate prima, per caso.

Non mi aveva mai chiesto di conoscerli, né mai io ne avevo sentito l’urgenza. Volevo che accadesse spontaneamente.

Un giorno eravamo andate al mare, sugli scogli.

Ricordo che, quel pomeriggio, il cielo era grigio e non prometteva nulla di buono. Un temporale estivo, probabilmente, ma la pioggia mi mette di cattivo umore e di uscire non avevo proprio voglia. Lei aveva insistito così tanto che temevo si sarebbe messa presto a piangere. Aiko non chiedeva mai nulla per sé, quindi le rare volte che accadeva, e con tanta insistenza, non potevo che assecondare ogni suo capriccio.

Avevo preso le chiavi della macchina e c’eravamo allontanate dalla città.

C’è un luogo, distante qualche chilometro dalla periferia cittadina, che lei amava in maniera particolare. In primavera ci andavamo spesso e anche in estate, quando il sole non picchiava troppo forte. È un angolo di mare facilmente raggiungibile tramite un viottolo scavato fra faraglioni.

La marea è sempre alta e gran parte degli scogli è, spesso, immersa. In quei casi scendevamo finché era possibile e restavamo a guardare il mare, forse un po’ deluse. Ma a volte capitava che la marea si abbassasse e allora potevamo percorrere quella parte di viottolo che prima le acque ostruivano, e ci allontanavamo dalla scogliera. Per quanto fosse pericoloso, ci sedevamo sui massi prospicienti il mare e lasciavamo che le sue acque, nella lenta carezza del vento, arrivassero a lambirci le caviglie. Allora Aiko cantava una canzone che non capivo ma che mi metteva dentro una tristezza sconosciuta.

Cantava nella sua lingua, sempre la stessa canzone.

“E’ il mare” mi diceva sempre sorridendo.

Il mare, allora sussurravo, ma poco importava. In quei momenti mi veniva da piangere.

Non le ho mai chiesto il significato di quella canzone. Forse se lo avessi fatto mi avrebbe risposto, ma il terrore che reagisse come sempre mi faceva desistere.

Sono i momenti in cui la mia incapacità di apparire una persona vera, mi fanno credere di essere inutile, e forse lo sono davvero.

In fondo che cosa ero? Che cosa avevo? Un lavoro che mi soddisfava poco, una famiglia che credeva fossi del tutto impazzita, un pesce rosso che diventava più chiaro ogni giorno che passava.

A pensarci bene, l’unica cosa importante della mia vita era lei. Era l’equilibrio, la colla che teneva unite tutte le mie stesse che, altrimenti, sarebbero fuggite lontano, lasciandomi nell’oblio. Era il filo che non si spezzava, la sanità nella mia pazzia di vivere.

Quel pomeriggio di metà estate incontrai i miei genitori.

Eravamo appena tornate dalla scogliera e stavamo cercando un parcheggio vicino al ristorante indiano in cui andavamo spesso. Avevo appena finito di parcheggiare, quando vidi mia madre venirmi incontro. Indossava un vestito di lino bianco, di quelli che avevo sempre odiato e che la facevano assomigliare più ad una lampada che ad altro. Indossava anche quel cappellino rosso che le avevo regalato l’estate prima e dei sandali dello stesso colore.

Con lei, c’era mio padre.

È stato un momento strano.

Al principio non ci siamo neppure parlati, limitandoci a guardarci.

Mio padre fissava ostinatamente il suo sguardo su di me, con quel cipiglio severo che mi aveva sempre mostrato da bambina, anche se adesso non lo ero più. Mi osservava e io lo sapevo, potevo leggerglielo negli occhi, mi rimproverava. Ero la vergogna della famiglia, lo sbaglio incomprensibile. Anche Ai lo aveva letto, mi aveva preso la mano e l’aveva stretta forte.

Mia madre aveva gli occhi rossi.

Non li vedevo da quando, un sabato mattina, durante la colazione, avevo rivelato alla mia famiglia che sarei andata a vivere con Aiko, la mia compagna.

Quanto tempo era passato?

Mia madre mi aveva gettato le braccia al collo e mi aveva abbracciata, senza dire nulla.

L’avvertivo piangere sommessamente, non so se per gioia o per dolore, e avevo sentito mio padre chiamarla con stupore. Io l’avevo abbracciata di rimando con la mano libera, senza lasciare quella di Aiko. Poi l’avevo trascinata in una stradina secondaria e lei si era staccata.

“Mi dispiace” aveva detto: “Sono proprio una scocciatura le vecchie madri, eh?”

“Non sei poi così vecchia, ma una scocciatura sì.”

E lei aveva riso e io avevo sentito il mio cuore sciogliersi.

Perché eravamo arrivati a questo punto? Sapevo e conoscevo la causa scatenante, ma perché era accaduto, perché c’eravamo allontanati, perché i miei fratelli e le mie sorelle rifiutassero anche solo di rivolgermi la parola, per me restava ancora un mistero.

Un anno. Era trascorso un anno da quella mattina in cui tutto il mio mondo fino a quel momento conosciuto era andato in pezzi. Cinque minuti solamente.

“Lei è…?” mi aveva chiesto mia madre imbarazzata, come se si fosse accorta solo in quel momento della sua presenza.

Lo sai, mi dissi, sai chi è. Perché fingi di non capire?

“E’ Aiko” risposi comunque.

Lei le sorrise e le porse la mano. Mia madre l’accolse fra le sue, ma mio padre si rifiutò di accettare persino il significato di quel gesto.

Del resto della conversazione ricordo ogni singolo movimento, ogni parola e ogni espressione.

I miei fratelli e le mie sorelle non mi parlano ancora. Anche loro, come nostro padre, si voltano dal lato opposto, quando mi incontrano per strada.

Mia madre, invece, venne a trovarci, qualche mese dopo. Fece un giro della casa, parlò con Aiko di arredamento e si accomodò a prendere il tè.

Ai quel giorno aveva comprato dei pasticcini deliziosi.

Ogni tanto mi telefonava e lo stesso facevo io, al cellulare. Le prime volte si imbarazzava a parlare con Aiko e, quando a casa trovava solo lei, le conversazioni si chiudevano in breve. Poi invece mi capitò sempre più spesso di sentirle parlare al telefono del tempo, della giornata trascorsa. E questo mi rese felice. Sapere che almeno mia madre mi sosteneva, anche se non mi capiva, mi faceva sentire meno triste.

Avevo Aiko, è vero, ma avevo avuto anche loro e la consapevolezza di non poterli avere più lasciava, dentro, un vuoto incolmabile.

Delle volte mi capitava di sognarli e incontrarli il giorno dopo. Quando li vedevo irrigidirsi e voltarsi indignati dal lato opposto, non potevo fare a meno di pensare… è davvero con loro che ho condiviso gran parte della mia vita? Sono stati loro il mio fulcro?

Non mi pensano? Non mi hanno sognato mai neppure una volta?

Si può smettere di amare una sorella?

Quel giorno lasciammo i miei genitori presto. Sentivo l’impazienza di mio padre premere fra di noi e soffocarmi. Sentivo l’imbarazzo di Aiko. E non potevo non ascoltarli.

Al ritorno dal ristorante Aiko si andò a sdraiare sul letto.

“Hai una bella famiglia”

“Avevo.”

“La famiglia resta. Nel bene o nel male è l’unico legame che non puoi scegliere e non puoi cancellare. Un giorno capiranno e se non lo faranno ci sarò sempre io con te.”

“Sempre?”

“Sempre.”

“E’ una promessa?”

“E’ una promessa.”

Le sue dita affusolate disegnarono cerchi immaginari sulla mia schiena. Nella camera in penombra, illuminata solo dalle luci esterne, Aiko mi parve come un’apparizione, un sogno. Chiusi gli occhi cullata dalle sue carezze e mi addormentai.

L’ultima cosa che ricordo è il suo respiro sul mio collo e il suo corpo caldo accanto al mio.

“Dove ti ha portato la tua mente? Lontano da me?” mi chiese sorseggiando il tè.

“Pensavo” le dissi allacciando le sue dita alle mie.

“Quando pensi ti allontani e mi lasci sola.”

“Sei la solita sciocca, Aiko.”

Lei mi sorrise, di un sorriso triste, malinconico.

“Finché sarai con me, io sarò felice.” mi disse appoggiando la testa sulla mia spalla: “Non lasciarmi andare. Non gettarmi via.”

“Perché dovrei?”

“Ho sempre paura che tu possa stancarti di me e…”

“Finché sarai con me non avrò bisogno di nulla. Sei tu tutto ciò che cercavo.”

“Starai con me sempre?”

“Sempre.”

“E’ una promessa?”

“E’ una promessa.”

Le passai una mano fra i capelli, nel gesto che riusciva sempre a rilassarla. La sentii tremare un attimo e poi respirare profondamente.

Aiko era come me e come me lei aveva paura. Paura di restare sola, paura di perdere tutto… paura di perdere me, come io lei.

Il futuro… per quanto ci pensassi costantemente mi limitavo a vivere il presente, eppure se chiudevo gli occhi e cercavo di immaginarlo, nel buio totale della mia mente, solo una figura brillava chiara, ed era Aiko.

Fine

Note finali: questa storia è nata un anno fa, mentre passeggiavo per le vie di Siracusa, riscaldata dai raggi del sole. Era primavera, credo, ma non ne sono sicura, la mia memoria è come una barca che affonda. Solo adesso sono riuscita a completarla, ma anche questo motivo mi è oscuro.

L’avevo pensata come una piccola serie, ma non sono brava con le yuri, in effetti questa è la mia prima (e forse ultima?), quindi non so che fare. Merita un continuo o pensate sia meglio troncarla qui? Voi che ne dite?

  
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