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Autore: memi    26/11/2009    6 recensioni
[I one-shot]
Un ragazzo...
C’era un ragazzo.
A passi misurati, stanchi, camminava solitario nella tempesta, i capelli d’oro colato mossi da gelide folate di vento. Indossava un cappotto, ma non sembrava avere freddo, né avvertire in alcun modo i colpi di frusta gettati con forza dalla tormenta. E il suo viso era quanto di più bello avesse mai potuto vedere, eppure...
Sembrava triste, abbacchiato...depresso.
{Jasper e Alice. Quello che erano, quello che sono. Vari missing moment.}
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alice Cullen, Jasper Hale
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Step by Step

I ~ Risveglio

 

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Spalancò le palpebre in un unico movimento, fulmineo ed impercettibile come il fiato del vento che bruciava sulla sua pelle fredda, ed era bianco, tutto ciò che riusciva a percepire era solo bianco, tanto bianco. Provò a muoversi, ma si accorse di non sentire più il proprio corpo, come se qualcosa l’avesse tenuta ferma talmente a lungo da impedirle i movimenti. Eppure non avvertiva niente accanto a sé, non udiva suoni, non percepiva profumi, e nessun tipo di rumore riusciva ad arrivarle in quel posto lattescente.

Si sentiva intorpidita...

Forse aveva dormito troppo... Da quanto tempo dormiva? Non se lo ricordava...avrebbe dovuto ricordarlo? Si sforzò di farlo, di trovare notizie in quell’ampio spazio che era la sua mente – era sempre stata così? – o almeno un frammento di qualcosa, ma era come combattere una causa già persa in partenza contro se stessa.

Se stessa...

Chi era ‘se stessa’? Chi era...lei? Saggiò la sua memoria alla ricerca di qualche indicazione, ma non c’era niente da scavare, niente da dissipare, da scoprire. Era come se la sua vita fosse iniziata nel preciso istante in cui avesse aperto gli occhi e lei – lei che era nessuno – avesse appena iniziato a funzionare. Era rotta? Forse. Come si faceva a sapere se era rotta?

Tentò di muovere una mano e, con un certo stupore, si accorse di poter alzare le punta delle dita, il che significava di stare acquisendo una certa padronanza del suo corpo.

Aveva bisogno di risposte, di capire, di sapere, tuttavia era impossibile farlo quando tutto ciò che i suoi occhi vigili riuscivano a catturare era solo un solido bianco. Era strano. Riusciva a distinguere i colori, a conoscere cosa fossero i colori, eppure se provava a cercare un nome, o un volto, o una qualsiasi parola in grado di ridonarle un briciolo di se stessa, non riusciva a trovare altro che quel bianco, quello che le stava dinanzi.

Forse la sua vita era davvero appena iniziata...forse.

Diede fondo a tutta la forza che il suo corpo anchilosato riuscì a procurarle e, così come prima aveva mosso le dita delle mani, batté quelle dei piedi, poi alzò un braccio, lo riabbassò, fece lo stesso con l’altro, poi con la gamba, con l’altra e infine in un ultimo scatto di reni, sollevò il torso e si mise in posizione eretta con la schiena. C’era ancora bianco dinanzi a lei e continuava ad essere l’unico colore sia alla sua destra che alla sua sinistra. Scrutò gli spigoli con attenzione, soffermandosi su ogni crepa del muro, contandole ad una ad una con cura maniacale, senza tuttavia riuscire a trovare bizzarro il modo in cui i suoi occhi arrivavano a captare e a scavare anche le più minuscole, insignificanti sfumature.

Una leggera spinta con le mani e si ritrovò con i piedi sul pavimento liscio, ma non freddo come avrebbe creduto. E si stupì di scoprire un eccellente equilibrio, in netta opposizione con il torpore di qualche attimo – perché si era trattato di quello, giusto? Solo di pochi istanti, no? Non lo sapeva. Non aveva idea né del tempo, né dello spazio in cui lei, che non era nessuno, si trovava – prima. Allungò una gamba, seguita subito dall’altra, e di nuovo ripeté l’esperimento, con maggiore facilità stavolta, mentre una parte staccata del suo cervello notava obiettivamente che i piedi si limitavano a sfiorare il pavimento piuttosto che calpestarlo, quasi danzassero.

Misurò il muro che le era dinanzi, sfiorò le pareti con una mano sottile, perlustrò con minuzia lo spigolo prima di passare alla parete contigua. E c’era bianco, solo bianco, un’infinita distesa di bianco. Le sarebbe esploso in mano tutto quel bianco...

E poi la vide. Discreta, incassata nell’unica parete delle quattro che non aveva avuto modo di adocchiare prima. C’era una porta, chiusa, ma c’era e lei lo sapeva che era la sua direzione, quella. Perciò la intraprese, muovendosi a piccoli passi, oscillando sulle mattonelle fredde senza davvero avvertirne la consistenza, gli occhi puntati su quell’unico spiraglio di vita.

Avrebbe trovato qualcosa lì fuori? Dei rumori? Dei volti magari?

Se ne sentì eccitata, e più si avvicinava alla porta, più la frenesia di affrontare l’esterno aumentava. Avrebbe trovato altro bianco? Avrebbe trovato se stessa oltre quella porta?

Agguantò la maniglia e si preparò ad abbassarla, eppure, proprio mentre la serratura scattava in un clang arrugginito, non poté fare a meno di gettare un’ultima occhiata al posto con le pareti bianche che aveva accolto il suo risveglio. Non c’era niente, niente che potesse dirle qualcosa, che potesse farle ricordare alcunché, a parte un enorme letto posto nel mezzo, senza apparente scopo se non quello di accogliere il suo sonno. Aveva davvero dormito, comunque? Non lo sapeva. Non sapeva niente di quello che era stato prima di aver aperto gli occhi.

Voltò la testa verso la porta e, in un disperato tentativo di mettere a tacere ogni pensiero, fece leva sulla maniglia ed aprì.

Un ragazzo...

C’era un ragazzo.

A passi misurati, stanchi, camminava solitario nella tempesta, i capelli d’oro colato mossi da gelide folate di vento. Indossava un cappotto, ma non sembrava avere freddo, né avvertire in alcun modo i colpi di frusta gettati con forza dalla tormenta. E il suo viso era quanto di più bello avesse mai potuto vedere, eppure...

Sembrava triste, abbacchiato...depresso.

Un viso così bello non avrebbe dovuto essere depresso, non era giusto.

Lo vide entrare in una locanda, ne memorizzò il nome, prima che uno scintillio di luce illuminasse i suoi occhi, più neri di una notte senza fondo.

Ha bisogno di me.

Poi l’immagine sparì, la locanda si dissolse, il ragazzo svanì e una catena stretta di alberi ne prese il posto, riscuotendola. Cos’era stato? Una specie di sogno ad occhi aperti...o no. E quel ragazzo...chi era? Provò a concentrarsi, ma come prima nessuna risposta le salì alla mente. Eppure sapeva, sapeva che lui aveva bisogno di lei. Glielo aveva letto negli occhi, nello sguardo, nel viso contratto in una smorfia di dolore...

Doveva trovarlo.

Lui aveva bisogno di lei.

Uscì dalla stanza carica di una nuova forza, ma mentre si incamminava verso una direzione a caso, qualcosa attirò la sua attenzione, di nuovo.

Un profumo, una fragranza lontana ma ben definita al suo olfatto, che le fece ricordare ad un tratto di avere fame. Non ci aveva fatto caso prima, eppure adesso si accorgeva di avere la gola granitica tanto le doleva. Fame fame fame. Non riusciva a pensare ad altro, a concentrarsi su altro. E quel profumo era così dolce...così invitante... Ne seguì la scia prima ancora di accorgersene, danzando sull’erbetta come se librasse. Bere. Si accorse di voler bere. La sua era una sete disperata, avvilente, destabilizzante. Non c’era verso di non pensarci, doveva bere così come doveva trovare quel ragazzo. E la scia da seguire era semplice, banale quasi, e i suoi piedi non avevano difficoltà a schivare le radici sporgenti degli alberi, anche senza prestarvi alcuna attenzione, gli occhi puntati sul duetto di persone che vedeva spuntare a diversi metri di distanza.

Sangue. È sangue. Voglio del sangue...

Ma poi l’immagine cambiò, ancora, ma stavolta non c’era il ragazzo di prima a riempirle gli occhi. O meglio, c’erano ancora delle persone, ma erano persone diverse. E tra queste, prese a rincorrersi in una foresta che non aveva mai visto prima, un uomo dall’aria compassata aveva appena atterrato un cervo e, accovacciato sul suo collo, si stava cibando della sua linfa vitale. Gli occhi di un’ambra tersa, sempre più chiari man mano che si cibava di quel sangue animale.

Poi l’immagine sfocò di nuovo e si ritrovò nella foresta di prima, immobile come una statua perfetta di marmo. L’odore del sangue le pungeva ancora il naso, ma adesso era strano pensare di seguirne ancora le tracce. Di seguire le tracce di quelle persone, almeno, non dopo aver visto l’immagine rassicurante di quell’uomo chino su un animale, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo...la più umana da fare...

Voleva provare. L’attrazione verso il sangue di quelle persone era ancora un invito fortissimo, ma lei, lei che un nome non l’aveva, voleva sapere cosa si provava a sovvertire quel bisogno, ad eluderlo in altre maniere. Vedere quell’uomo chinato su quel cervo le aveva fatto sentire che era giusto...la cosa più giusta da fare.

Si voltò e, volteggiando tra la fitta boscaglia, si allontanò quanto più possibile dalla traccia ammaliante del sangue di quelle persone. Avrebbe trovato un cervo, sì, e poi sarebbe andata a cercare quel ragazzo, perché lui aveva bisogno di lei e lei voleva farsi trovare lì, pronta. Forse lui avrebbe potuto aiutarla a ricordare chi fosse, forse lui...

Philadelphia.

Si arrestò così, in precario equilibrio su un ramo sottile che, tuttavia, non parve preoccuparsi del suo peso discreto.

Philadelphia...l’aveva letto da qualche parte, mentre seguiva quel ragazzo dentro la locanda.

Philadelphia...lì si sarebbe diretta.

Sorrise e si preparò a spiccare un balzo, ma qualcosa attirò la sua attenzione, prima, qualcosa legata al suo polso. Alzò il braccio e si stupì di notare un braccialetto di gomma stretto attorno ad esso. Lo tirò via, senza avvertire alcun dolore, e se lo rigirò tra le mani, perplessa. Da dove veniva? Ce l’aveva sempre avuto?

“Alice...”

C’era scritto davanti, sul dorso, in stampatello grezzo.

Alice...sembrava un nome. Era un nome. No – scosse il capo, sorrise – non era solo un nome...era il suo nome, di lei che era stata nessuno ma che forse qualcuno poteva esserlo ancora.

 

 

 

 

 

A/N

Non so come mi sia venuta l’idea, ma sta di fatto che ultimamente sono totalmente in fissa con Alice e Jasper, e in New Moon non è che compaiano poi questo granché. E poi c’era questa voglia matta di provare a cimentarmi su di loro, sui quei brandelli di notizie che si possono ricavare dai libri. Il risultato è questo collage disparato di momenti, di attimi, non necessariamente legati cronologicamente da loro, ma più una raccolta, ecco, anche se non so di preciso quando lunga potrebbe essere (a tal proposito sapere se vi è piaciuta o meno sarebbe un bello stimolo per continuarla o meno, davvero *-* ).

Ho voluto iniziare con Alice e con il momento del suo risveglio perché praticamente mi sta ossessionando da giorni.

A mio avviso, quello di Alice è il risveglio post-trasformazione più difficile dell’intera saga, visto che lei non ricorda nulla della sua vita da umana. Ho provato a descrivere il momento in cui ha aperto gli occhi, le sue possibili sensazioni, il non sapere assolutamente niente... E poi c’era questa visione di Jasper, che secondo me è stata la sua prima visione in assoluto, seguita poi da quella dei Cullen... Non so, ditemi voi, ne sarei davvero parecchio, tantissimo onorata.

Come avrete capito, dei Cullen è Carlisle quello che si sta cibando del sangue di cervo nella sua visione. Penso che Carlisle sia la persona migliore in quella scena. Lui è un po’ l’emblema dei Cullen e della loro dieta “vegetariana”, perciò ho pensato che nessuno meglio di lui poteva adattarsi alla visione.

Bene, credo mi convenga levare le tende prima di iniziare uno dei miei soliti sproloqui su questa splendida, fantastica coppia.

Per favore, mi lasciate un commentino? È anche la mia prima esperienza su Twilight, perciò... Vi preeego! XP

Baci.

memi

 

 

 

  
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