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Autore: Naco    02/12/2009    2 recensioni
"Come aveva anche solo potuto propormi di andare con lei in vacanza, a casa dei suoi amici, a poco più di un mese dall’esame più importante della mia vita, per il quale non avevo potuto aprire libro per tutta l’estate, perché lei aveva avuto la brillante idea di rompersi una gamba proprio a luglio, quando la mamma era da nostra zia in Olanda e non c’era nessun altro che potesse occuparsi di lei, a parte la sottoscritta?"
Genere: Romantico, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia non è altro che un sogno. Un sogno fatto in una notte come tante altre, che però mi è rimasto impresso nella mente. E, visto che non voleva andarsene, ho deciso di metterlo per iscritto. Ovviamente, da cosa poi nasce sempre cosa, da sogno nasce altro sogno e da personaggio nasce altro personaggio; quindi, del sogno, in realtà, è rimasto ben poco. Crediti (perché, se il sogno c’è stato, inconsciamente qualcuno l’ha causato, no? XD) e spiegazioni, alla fine.

A simple summer story


“Non ci posso credere! Io non ci posso davvero credere!”
“Serena, calmati!”
“Calmarmi? Calmarmi?! Hai idea di quello che mi stai proponendo?!”
Mia sorella era, ed è, una persona fondamentalmente buona. Una di quelle ragazze che trovi subito tenere, dolci, gentili e simpatiche, per cui daresti tutto, perché sai che lei sarebbe la prima a farsi in quattro per te. Ed è per questo che io le ho sempre voluto bene. Certo, non posso dire che ogni tanto non ci sia mai capitato di litigare, soprattutto da quando vivevamo da sole, ma fondamentalmente è una delle poche persone di cui riesco a tollerare la presenza per più di dieci minuti.
Solo che quella volta, non riuscii a non mettermi ad urlare. Come, ripeto, come aveva anche solo potuto pensare di fare questo a sua sorella? Come aveva anche solo potuto propormi di andare con lei in vacanza, a casa dei suoi amici, a poco più di un mese dall’esame più importante della mia vita, per il quale non avevo potuto aprire libro per tutta l’estate, perché lei aveva avuto la brillante idea di rompersi una gamba proprio a luglio, quando la mamma era da nostra zia in Olanda e non c’era nessun altro che potesse occuparsi di lei, a parte la sottoscritta?
E quando finalmente le tolsero il gesso e finalmente poté andarsene dove le pareva con chi diavolo voleva, ecco che mi si sedette davanti e con l’aria più felice del mondo mi propose di passare tre giorni nella residenza estiva della sua amica Susanna,
“Andiamo, Serena! Sono solo tre giorni, anzi, due giorni e mezzo! Cosa vuoi che siano?”
“No.” Ribattei, decisa a non cedere.
Il punto non era solo lo studio, solo che a lei non potevo dirlo. Perché Susanna non era una ragazza come tutte le altre. No. Lei era la figlia di uno degli avvocati più importanti della zona, talmente noto da essere apparso persino in TV per alcuni processi piuttosto importanti. Ma c’era di più: Susanna non solo era praticamente milionaria, aveva una Porsche tutta per sé e vestiva Armani e Dolce&Gabbana persino quando doveva andare in università, ma era anche dannatamente bella – tanto, troppo, infinitamente, sconfinatamente, incommensurabilmente bella. Il tipo di ragazza a cui tutti vanno dietro, insomma. Anche mia sorella, con tutto che lei non è e non è mai stata lesbica e ragazzi ne aveva avuti. Anzi, era stato proprio il suo ultimo fidanzato a presentarle, un giorno, visto che lui e Susanna erano colleghi di università e uscivano spesso insieme in comitiva; solo che poi il tizio era scomparso dalla vita di mia sorella, lei no.
“Ma che ci trovi in lei?” le avevo chiesto una volta. Da quel che avevo notato in quell’unica occasione in cui l’avevo incontrata, era solo una stupida oca, ricca e viziata, che riusciva ad andare avanti solo perché suo padre aveva le chiavi giuste per farla arrivare dove voleva lui.
“Ma no, è una brava ragazza.” Aveva commentato, e io non avevo ribattuto: lei era libera di scegliere le amicizie che più preferiva, come io detestavo che lei si immischiasse nelle mie.
Del resto, io sono una persona che crede fermamente nel motto “non mi rompere le palle e io non le romperò a te”; perciò, finché non mi avesse immischiata nelle sue faccende, la sua amicizia con Susanna non rientrava nelle questioni che mi riguardavano.
Quella volta, però, mi riguardava, eccome.
“E dai, Serena!”
“Ma puoi andarci benissimo da sola!”
Non era la prima volta che Martina andava in vacanza con i suoi amici senza la sottoscritta, e non sarebbe stata certamente l’ultima, perciò mi chiesi perché ci tenesse così tanto alla mia presenza proprio in quei giorni. Non è che le avevo fatto qualcosa di male e voleva vendicarsi boicottando il mio esame per il dottorato, vero?
“Questo lo so anche da me!” ribatté piccata “Solo che…” La voce le si incrinò un po’ e capii avevo visto giusto: doveva esserci qualcosa sotto.
“Solo che?”
“No, va beh, dai, lascia perdere. Scusa per averti distolto dallo studio.”
Perché aveva quello sguardo così triste? E perché mi sentivo così dannatamente colpevole?
“Marti, dai…” la raggiunsi in cucina, dove lei nel frattempo aveva acceso la TV e si era messa a guardare l’ennesima replica di Carabinieri. “Mi dici che problema c’è se non vengo con te?” le chiesi, accucciandomi davanti a lei.
“Nessuno. Però, visto che per colpa mia quest’estate non sei stata in vacanza neanche un giorno, avevo pensato che era un modo carino per ringraziarti. Ma forse hai ragione tu, non è il momento giusto.” Mi spiegò e, esaurito quello che aveva da dirmi, tornò a fissare il televisore, decisa a ignorarmi.
Sospirai: perché mia sorella era così sensibile? E perché diavolo non le diceva subito le cose?
“E… ehm… chi sarebbero gli invitati?” domandai cauta.
Lei mi lanciò un’occhiata ancora poco convinta, ma in cui si intravedeva un barlume di speranza. “Beh, noi. Cioè, gli amici di sempre. Io, Susanna, Jessica e Ornella. Le altre sono già lì. E poi dovrebbe unirsi a noi Gabriele, il fratello di Susanna.”
Oddio. Conoscendo la sorella, potevo benissimo immaginare che razza di personaggio potesse essere il fratello. Rabbrividii: ero davvero tentata di rifiutare ancora una volta, ma mi bastò incrociare lo sguardo di Martina, ormai sicura di avermi convinta ad accettare, per rendermi conto che ci ero cascata con tutte le scarpe.
“E dove sarebbe questa casa?” mi informai, ormai sconfitta.


La casa, come l’aveva definita mia sorella, era in realtà una villa enorme, con tanto di piscina e spiaggia privata e, ne ero sicura, anche se non avevo ancora visto l’interno e il retro, un campo da tennis, uno da golf, un giardino immenso e una libreria personale che conteneva più volumi di quelli che c’erano nella biblioteca comunale del mio paese d’origine.
La mia sicurezza, che già aveva iniziato ad arretrare quando ero salita in auto con mia sorella, aveva fatto ancora un passo indietro non appena avevo visto in che razza di posto avrei trascorso i tre giorni successivi della mia vita e, quando poi la proprietaria si era avvicinata a noi, in minigonna bianca e i capelli lisci e biondi lasciati liberi al vento, aveva deciso di lanciarsi direttamente da qualche scogliera nei paraggi.
“Martina! Finalmente siete arrivate!” Susanna schioccò due baci sulle guance di mia sorella; poi si voltò raggiante verso di me. “Sono contenta che tu sia venuta alla fine.”
Era davvero così dolce e cortese come sembrava di primo acchito, o la sua era solo ipocrisia? Mi trovai a chiedermi, mentre stringevo la mano che mi stava ponendo.
“Grazie a te per avermi invitata.”
“Su, venite!” ci precedette in un giardinetto che dava direttamente sul mare. “Vi conoscete, vero?”
Abbracciai i presenti con un’occhiata e annuii: sì, li conoscevo tutti anche io. Erano amici di mia sorella, il gruppo con cui usciva, insomma; gente che come lei frequentava il campus o al massimo giurisprudenza, come la proprietaria della casa in cui ci trovavamo, con cui avevo scambiato sì e no due parole, quando mi capitava di unirmi a loro o di incrociarli per strada.
“Uh, bene! Allora venite dentro, che vi faccio vedere la vostra stanza!”
Il fatto che io e mia sorella avessimo una camera tutta per noi mi portò a chiedermi quante ce ne fossero in quella casa. Perché, se noi due potevamo disporre di una stanza, significava che, oltre alle tre, appartenenti ai proprietari e ai due figli, ce ne doveva essere almeno un’altra; altre due, secondo i miei calcoli, per Ornella e Jessica. Per non parlare poi di quelle per la servitù: da qualche parte dovevano pur dormire, quei poveretti, - perché, che ci fossero, era un dato di fatto: come avrebbero potuto tenere in ordine un’abitazione di tali dimensioni?
In che razza di posto ero capitata? Non potei fare a meno di chiedermi.
Mentre ero ancora persa in questi calcoli matematici, Susanna ci stava indicando i vari ambienti che componevano il primo piano dell’abitazione: la sala da pranzo, con annessa cucina – e io avrei giurato di aver visto una donna, in camice bianco, con un cappello da cuoco in testa che si muoveva con qualche mestolo in mano! -, il soggiorno, lo studio - che probabilmente era solo un eufemismo per indicare la biblioteca di famiglia, mi dissi - e un bagno; il piano superiore, invece, era composto da due bagni più grandi di quello che c’erano giù e una serie di stanze con porte tutte uguali.
“Sono le camere da letto.” Commentò “Nostre e degli ospiti.”
Le contai e mi sorpresi che fossero solo cinque.
“Solo?” chiesi titubante.
Mia sorella e Susanna si voltarono nella mia direzione, visibilmente sconvolte.
“E’ solo che... pensavo aveste della servitù.” Spiegai.
“Ah, sì. Abbiamo una donna, che si occupa della cucina e delle pulizie, e un giardiniere, che viene una volta a settimana. Ma non vivono con noi, vengono qui ogni giorno dal paese.”
“Ah, capisco. E Jessica e Ornella dove dormono?” non riuscii a non informarmi.
“Nella mia stanza. Mi sarebbe piaciuto che dormissimo tutte insieme, però lo spazio non era sufficiente. E poi, ho pensato che ti saresti sentita a disagio con noi, quindi ho optato per questa soluzione. Spero vi piaccia!”
Annuii. Forse era meglio che la smettessi di farmi tutte quelle paranoie, su quella casa e i suoi abitanti, altrimenti avrei rischiato di fare qualche figuraccia prima o poi.
Susanna ci lasciò, dicendoci che, se avessimo voluto, avremmo potuto comunque raggiungerle in giardino; Martina annuii entusiasta; io, invece, mi ritrovai a sospirare, desiderando soltanto che quei giorni terminassero il più in fretta possibile.
“E’ una bella casa, vero?” commentò lei guardandosi intorno.
Aveva ragione: la stanza a noi riservata non era particolarmente spaziosa o elegante, eppure la luce che entrava dalla grande finestra che dava direttamente sul mare rendeva l’ambiente particolarmente luminoso e spazioso. Uscii all’esterno e notai che tutti gli ambienti comunicavano attraverso un terrazzino piccolo, ma ben curato.
Mi affacciai, curiosa: le altre erano proprio sotto la nostra finestra e stavano chiacchierando allegramente, di cosa, però, non riuscivo a capire. Pur essendo ancora agosto, soffiava un leggero venticello fresco, che increspava leggermente la superficie del mare; in lontananza si intravedeva la sagoma di una persona che passeggiava solitaria sul bagno-asciuga, incurante dell’acqua che le lambiva i piedi. Intorno a noi, solo il vento rompeva quel silenzio così profondo e io istintivamente chiusi gli occhi per assaporare meglio quella sensazione di calma e completezza; le voci delle altre arrivavano lontane, come bisbigli portati dal vento.
“Io scendo dalle ragazze. Tu che fai?” mi chiese Martina, riportandomi all’improvviso alla realtà.
“Sì, arrivo.” le risposi di malavoglia.
Forse, pensai, non era stata era stata un’idea tanto pessima accettare quell’invito.

*

Nonostante il mare fosse a pochi passi, quando scendemmo, scoprimmo, con un certo disappunto, che non avevano alcuna intenzione di seguirci in spiaggia, ma che preferivano un bagno in piscina.
“Il sale fa male alla pelle”, sentenziò Jessica.
“Io invece non so nuotare e ho paura del mare.” Spiegò invece Ornella.
“Perché, c’è qualche problema?” s’informò Susanna, che probabilmente aveva intuito che c’era qualcosa che non andava.
Che fare? Dirlo o non dirlo? Mi chiesi. Non mi piacevano tutti quegli occhi fissi su di me, come, lo sapevo, non avrei gradito la loro espressione corrucciata di quando avrebbero saputo la verità. Però non avevo nessuna voglia di inventare la classica scusa che solo una donna può usare per non doversi tuffare in acqua, soprattutto perché io, la sensazione dell’acqua sulla pelle, la desideravo ardentemente.
“Beh, per me non c’è problema. Però…” Martina mi lanciò una veloce occhiata e capii che aveva deciso lei per me “Mia sorella è allergica al cloro.”
Quell’ “oh” generale fu accompagnato, come avevo immaginato, da una serie di occhiate a metà tra il dispiaciuto e il perplesso.
“Beh, non c’è problema”cercai di minimizzare “Vado a farmi una nuotata in mare e torno!”
“Ma scherzi?” Susanna mi prese per un braccio “Ti faccio compagnia io. Nuotare in compagnia è più divertente, no? Non vi dispiace, ragazze, vero?” chiese, trascinandomi verso al spiaggia con sé.
“Non era necessario che mi accompagnassi.” Commentai, imbarazzata, una volta in acqua: non sapevo che cosa dirle, visto che non mi era mai capitato di restare da sola con lei per più di cinque secondi.
“Ma no, figurati. E’ stato un piacere. Sai, ti capisco: a me piace moltissimo nuotare, ma nella mia famiglia siamo molto diversi tra noi, quindi spesso mi ritrovo a venire qui al mare da sola.”
“Davvero?”
“Sì. Papà, anche quando è in vacanza, passa tutto il tempo nello studio a lavorare, mentre mia madre non c’è giornata in cui non sia impegnata in qualche attività al club con le sue amiche.”
“Ma se no ho capito male, hai un fratello, giusto?”
Lei rise; aveva un che di amaro, la sua risata, che mi fece male al cuore.
“Gabriele? E’ come se non ci fosse. Passa le sue giornate con i suoi amici, o in solitudine. Non l’ho mai veramente capito, quel ragazzo.”
“Capisco.”
“Per questo… vi invidio un po’, sai? Tu e Martina, intendo. Quando mi ha chiesto se potevo invitare anche te, visto che per colpa sua non ti eri goduta le vacanze e io le ho detto di sì, era così felice… si vede che ti vuole molto bene.”
Non seppi cosa risponderle. Anche se io e mia sorella vivevamo lontane da casa e nostro padre era morto quando noi eravamo molto piccole, noi eravamo sempre stati molto unite, forse proprio perché avevamo sempre cercato di superare insieme le difficoltà che la prematura scomparsa di nostro padre aveva inevitabilmente portato con sé.
Fino a poche ore prima, mi ero trovata quasi inconsciamente ad invidiare quella ragazza che aveva tutto quello che poteva desiderare; adesso, invece, non avrei dato neanche un centesimo in cambio di una vita così triste.
“Martina mi ha detto che stai studiando per il dottorato.” Mi chiese lei, dopo un attimo di silenzio.
Annuii. “Sì. Ho l’esame i primi di ottobre.”
“Davvero? E in cosa, se posso chiedere?”
“Paleografia.”
Susanna mi fissò un attimo, interdetta. “Scritture antiche.” Spiegai.
“Fantastico! Quindi ti piacciono i libri antichi!”
“Beh, sì!”
“Uh, allora nel pomeriggio ti mostrerò lo studio di mio padre: ha addirittura alcuni testi dell’Ottocento! Sono sicura che ti potrebbero piacere!”
Ringraziai con un sorriso: il concetto di antico era davvero molto relativo, pensai, andando con la mente ai manoscritti del Mille che mi attendevano.
”Immagino che tu abbia un sacco di cose da studiare.”
“Beh, sì. Però Martina ha insistito così tanto… e poi un po’ di vacanza non fa certo male, prima di buttarsi sui libri!”
“Sì, hai ragione. Anche io da lunedì riprendo a studiare.”
“Anche se ammetto che qualcosina me la sono portata, senza che Martina se ne accorgesse.” Le rivelai.
Susanna scoppiò a ridere.”Allora, sai che ti dico? Se ti fa piacere, usa pure lo studio di mio padre. Adesso che lui non c’è, non lo usa nessuno, e potrai studiare in tutta calma.”
“Ma… non so se…” arrossii, vergognandomi profondamente per tutto quello che avevo pensato su quella ragazza fino a poche ore prima: aveva davvero ragione Martina nel dire che Susanna era una ragazza simpatica e affabile.

*

‘Metabolé’. * Che diavolo voleva dire ‘metabolé’? Mi ritrovai a chiedermi all’improvviso, fissando come in trance la pagina del libro che mi trovavo davanti. Maledizione ai professori universitari e al fatto che adorassero rovinare la vita degli studenti non mettendo mai una traduzione delle citazioni che inserivano nel testo! Imprecai fra me e me, lanciando un’occhiata veloce alla distesa marina dinnanzi a me.
Era pomeriggio e le altre avevano deciso di andare a fare un giro sulla spiaggia; Martina si era ritirata per il suo classico riposino pomeridiano – possibile che a ventitré anni continuasse a dormire di pomeriggio, come quando era piccola? la prendevo in giro – e io avevo deciso che quello era un buon momento per studiare un po’. Per questo motivo, mi ero posizionata in giardino, all’ombra di un pino per stare più fresca.
“Metabolé”, ripetei ancora una volta a me stessa, sperando, in quel modo, che il significato di quel termine mi venisse alla mente. Perché, cavolo, io quella parola la conoscevo e l’avevo trovata milioni di volte nei testi che avevo studiato e nelle versioni che avevo tradotto al liceo. E perché diavolo, proprio in quel momento che non avevo un dizionario, non riuscivo a ricordarla? Mi pentii immediatamente di non aver portato con me il vocabolario di greco. Eppure, se lo avessi fatto, avrei dovuto sorbirmi un sermone di mia sorella su quanto fossi secchiona e che in vacanza i libri erano assolutamente un tabù.
Non che Martina avesse torto: sapevo anche io di essere troppo fissata con lo studio; e lo dimostrava il fatto che, pur potendo benissimo saltare quella citazione e tornarci su una volta a casa, perché sicuramente tutto il resto si sarebbe capito benissimo ugualmente, io mi sarei intestardita su quel punto, finché non avessi risolto la questione.
E l’unico modo per farlo era trovare un dannato dizionario di greco.
Improvvisamente, mi tornò alla mente l’invito di Susanna di disporre della libreria nello studio di suo padre, idea che avevo subito accantonato – ci mancherebbe altro che mi mettevo a disturbare in quel modo! –, ma che in quell’occasione non mi sembrava tanto malvagia. Voglio dire.. avrei dovuto solo verificare se ci fosse un vocabolario di greco e, nel caso l’avessi trovato, cercare una sola parola. Quanto tempo ci avrei messo? Dieci minuti, non di più. E poi, avevo il permesso della proprietaria…

Quando Susanna ci aveva mostrato la porta dello studio senza aprirla, io mi ero immaginata quella stanza come la biblioteca de La bella e la bestia: montagne, mari, fiumi, foreste di libri, talmente tanti che il mio occhio non avrebbe saputo dove posarsi prima per non perdere neanche un tomo di quella preziosa collezione. Quando invece entrai nello studio della famiglia Molisari, capii subito che, anche in quel caso, la mia immaginazione aveva corso troppo: la stanza aveva le stesse dimensioni di quella che condividevo con mia sorella, solo che tutte e quattro le pareti erano ricoperte di libri; di fronte alla finestra, che, probabilmente, come quelle al secondo piano, dava su un terrazzo comune, vi era una scrivania in noce perfettamente ordinata.
Beh, non era la biblioteca dei desideri di Belle, ma non era neanche da buttar via.
Mi guardi intorno, indugiando sulle costine di alcuni testi riccamente decorati. Certo, non erano codici antichi come quelli che studiavo io, ma Susanna aveva tutto il diritto di considerarli dei libri magnifici. Una parte del mio cervello, da qualche parte, ricordava vagamente che mi ero recata lì solo per cercare un dizionario di greco; un’altra, la più curiosa e amante dei libri, non riusciva a staccarsi da quella stanza e così mi ritrovai a leggere a mezza voce i tioli dei ripiani alla mia altezza: erano per lo più testi di architettura, alcuni in italiano, altri in inglese. L’occhio mi cadde su una costina diversa, un po’ più malandata, probabilmente più vecchia e, istintivamente, allungai la mano per estrarre il volume.
“Che cosa stai facendo?”
Sobbalzai e mi voltai verso l’entrata spaventata: appoggiato allo stipite, c’era un ragazzo, lo stesso che avevo intravisto camminare sulla spiaggia quella mattina, notai in un attimo di lucidità, che mi fissava con un’espressione tutt’altro che amichevole.
“Io… Susanna mi aveva detto che potevo…”
“Che cosa stai facendo?” ripeté avvicinandosi.
Quando fu ormai a pochi metri da me, potei finalmente vedere meglio il suo volto. Questo dovrebbe essere Gabriele, il fratello di Susanna, pensai, notando immediatamente la somiglianza tra i due, nonostante lui avesse i capelli più scuri e gli occhi blu.
Non azzurri. Blu.
Quel blu profondo del mare in tempesta, quando le onde sono così forti che persino una nave ne viene sballottata; quello stesso mare in cui stavo annegando anche io, mentre continuavo a fissare i suoi occhi, quasi rapita.
“Io… cercavo solo un dizionario di greco…”
“Qui non ci sono vocabolari di greco. E comunque, non sarebbe in questa sezione.” Aggiunse, appoggiando la mano sul tomo che avevo notato io, quasi volesse nasconderlo dalla mia vista.
“Io… scusami.” Fu tutto quello che riuscii a dire, prima di fuggir via da quella stanza, il cuore che continuava a battermi con violenza nel petto.

Cretina cretina cretina. Sei una dannata cretina. Che diavolo ti è preso? Perché sei scappata via in quel modo? Il mio cervello continuava a farmi quella domanda, senza che io riuscissi a pensare ad una risposta decente da dargli.
Non ero tipo da scappare di fronte alle avversità, io. Mai. Avevo imparato a mie spese che, se volevo diventare qualcuno, dovevo battermi con le unghie e con denti, per far valere i miei diritti sugli altri. Era questo l’insegnamento più grande che mi aveva lasciato mio padre. Non scappare mai di fronte a nessuno, piccola. Nessuno è così forte da poterti sopraffare, se tu non vuoi.
E invece io ero corsa via, per colpa di quel ragazzo – di quel maleducato! – ed ero stata trattata malissimo, senza che, tra l’altro, avessi fatto niente di male A quanto pare, non mi ero sbagliata di molto: Susanna poteva anche essere una ragazza dolce e gentile, ma suo fratello era esattamente l’opposto.
“Adesso capisco perché non vanno d’accordo.” Mi trovai a commentare a me stessa, mentre, per la rabbia, stringevo il bordo del lavandino del bagno, il primo luogo in cui ero riuscita a rifugiarmi. Perché, sì, ero arrabbiata. Non tanto verso lui – non gli avrei dato tutta questa soddisfazione, tsè! – quanto verso me stessa, per aver lasciato che mi trattasse in quel modo.
Cretina cretina cretina!
Il malumore non si placò neanche dopo essermi sciacquata la faccia più volte e, ovviamente, mi passarono anche tutta la voglia e la concentrazione necessarie per mettermi a studiare. Decisi quindi di farmi una passeggiata sulla spiaggia, per sfogarmi almeno in quel modo; peccato non avessi il costume addosso, altrimenti non avrei disdegnato un altro bagno; tuttavia, tornare in camera e disturbare mia sorella era l’ultimo dei miei pensieri.
Dovevano essere le quattro, a giudicare dall’altezza del sole rispetto all’orizzonte. Faceva caldo, ma la brezza marina per fortuna non si era attenuata, così da rendere piacevole passeggiare sulla sabbia, nonostante l’orario.
Decisi di non guardare in direzione del mare, proprio per evitare di pensare ancora a quegli occhi dello stesso colore, e iniziai a fissare i miei piedi che affondavano nella sabbia, mentre cercavo di metterli uno davanti all’altro, come se stessi camminando su un filo invisibile. Era un gioco stupido, quello, lo sapevo; eppure, riusciva a tranquillizzarmi e a permettermi di non pensare a niente.
Fu questo probabilmente il motivo per cui mi accorsi che avevo raggiunto le altre solo quando le sentii chiamare a gran voce il mio nome. Alzai la testa e mi sorpresi a sorridere, mente loro agitavano la mano e mi facevano segno di raggiungerle.
“Finito di studiare?” mi chiese Susanna.
Annuii, incerta se raccontarle l’accaduto o meno; alla fine decisi che era meglio evitare, visto che tra i due fratelli i rapporti erano già complicati. “Sì, ho deciso di fare una pausa. Voi? Già di ritorno?”
“Mentre camminavano, ci è venuto in mente che potremmo fare un salto in città a fare un giro. Che ne dici? O siete ancora stanche per il viaggio?” propose Ornella.
“Io no e Martina penso proprio che stia recuperando anche troppo…”
Le altre risero. “Sta ancora dormendo?!”
Alzai le spalle: “Quando sono andata via, sì.”
“Allora mi sa che faremmo meglio ad andare a svegliarla noi!”
Jessica e Ornella si lanciarono un’occhiata eloquente e io decisi che non volevo assolutamente sapere in che modo la pennichella di mia sorella sarebbe finita.

*

In realtà il paese non è che fosse chissà quanto grande: includendo nella superficie totale anche le campagne circostanti, la villa di Susanna poteva raggiungere le stesse dimensioni, o addirittura superarle; nonostante questo, però, la cittadina non era affatto male, dal punto di vista artistico e architettonico, e sembrava anche parecchio popolata.
“Ma dove vive tutta questa gente?” non riuscii a trattenermi dal chiedere; per tutta risposta, Susanna rise.
“Beh, se vieni d’inverno qui è un mortorio. Ci vivono sì e no mille persone; d’estate invece gli alberghi si riempiono: il mare è pulito e ci sono un sacco di posti da vedere nelle vicinanze.”
Aveva ragione, pensai entrando nella chiesa di San Lorenzo, l’unica del centro, se si escludeva qualche cappelletta privata: in stile romanico, la costruzione era tenuta egregiamente e non aveva subito poi molti restauri nel tempo.
“Qualche chilometro più in là c’è anche un castello” continuò a spiegarmi Susanna “Solo che adesso è in fase di restauro e non è visitabile. Comunque, nella zona c’è molto da vedere. La prossima volta che venite, ci organizziamo meglio e vi porto a vedere qualcos’altro” promise e io pensai che non mi sarebbe affatto dispiaciuto.
Siccome c’erano un sacco di locali molto carini, decidemmo di trascorrere lì la serata: se all’inizio la maggior parte dei passanti era composta da genitori e bambini, a questi, con il passare delle ore se ne erano aggiunti altri, di qualsiasi età.
Ad un certo punto Martina ci indicò una specie di mercatino, così decidemmo di farci un giro prima di andare a mangiare. In realtà non c’era niente di particolarmente interessante, ma ci divertimmo a curiosare fra gli oggetti in vendita e a provare gioielli di bigiotteria e occhiali da sole che non avremmo mai comprato; c’era anche una bancarella che vendeva libri, così lasciai un attimo le altre, decisa a dare un’occhiata.
C’era tanta gente anche lì, soprattutto ragazzini che correvano da una parte all’altra con monopattini e rincorrendosi tra loro. Sbuffai: ma i genitori di quei teppistelli dov’erano? mi chiesi: se io alla loro età mi fossi comportata in quel modo, mia madre mi avrebbe rinchiuso in casa per almeno un mese…
Ero ancora persa in queste riflessioni circa l’educazione dei bambini, quando uno di questi, appunto, per evitare un altro bambino, sterzò bruscamente il suo monopattino, finendo praticamente sul mio piede; l’imprevisto ostacolo fece perdere l’equilibrio al piccolo che si aggrappò a me per non cadere; tuttavia io non ebbi il tempismo di salvare sia me che lui da una caduta, visto che l’impatto con il monopattino mi aveva sorpresa, così barcollai all’indietro, cercando di recuperare l’equilibrio; tuttavia, non ero mai stata brava in educazione fisica, così finii rovinosamente per scontrarmi contro qualche ignaro passante, il ragazzino ancora attaccato a me.
“Tutto bene?” chiese una voce alle mie spalle.
Voltai la testa per ringraziare lo sconosciuto e scusarmi, ma le parole mi morirono in gola.
Perché diavolo, fra tante persone presenti, dovevo andare a finire contro di lui? E perché diavolo non aprivo quella dannata bocca per rispondergli?
“Oh… sì… scusa, non volevo…” mi staccai da lui e, pur di non incontrare ancora il suo sguardo, mi voltai verso il bambino. “Ehi, piccolo tutto a posto?” chiesi: non sembrava essersi fatto male e questo mi sollevò non poco.
“Sì! Grazie! Scusami tanto!”
Beh, almeno non si poteva dire che fosse maleducato!
“Non fa niente. Ma fa’ attenzione la prossima volta!” gli scompigliai i capelli; il ragazzino annuì – avrebbe davvero mantenuto la parola? Ne dubitavo – e, dopo aver recuperato il suo monopattino si allontanò nella folla.
“Sicura che sia tutto ok?”
Mi girai e notai che lui era ancora dietro di me. Mi sorprese: pensavo che se ne fosse già andato.
“Sì, mi fa solo male un po’ il piede. Ma niente di grave.”
“Non sarebbe meglio darci almeno un’occhiata, prima?”
Lo guardai ancora, interdetta. Era diverso dal ragazzo che nel pomeriggio mi aveva praticamente cacciata dallo studio. Era quasi… preoccupato? L’avevo giudicato male, allora? Non che la cosa mi stupisse: pareva che quella famiglia riservasse molte sorprese.
“No, non imp-“
“Serena!”
Mia sorella e le altre mi raggiunsero; Martina era così pallida che mi spaventai. “Ehi, che succede?”
“Abbiamo visto tutta la scena. Ti sei fatta male? Stai bene?”
Come non potevo non voler bene ad una sorella così? Nonostante tutto, risi. “Martina, era solo un bambino!”
“Sì, ma ti abbiamo visto ondeggiare come un pendolo!” la difese Ornella. Per poco Martina non mi sveniva davanti!”
“Voi non potete capire! E’ stato per una stupida caduta come quella che mi sono rotta la gamba!”
“Su, su, non vi preoccupate: il mio piede sta benissimo!”
“Meno male che c’era Gabriele, però!” commentò Susanna “Serena, lui è mio fratello, Gabriele.”
Gli lanciai un’altra occhiata, torva stavolta. “Sì, ci siamo incrociati prima a casa.” Tagliai corto, evitando di aggiungere ulteriori particolari.
“Oh! Beh, ragazze, direi che forse è arrivato il momento di andare a mangiare. Gabri, ti unisci a noi?” chiede Susanna.
“No, grazie. Sto aspettando altri amici, veramente.”
“E che problema c’è? Possiamo andare tutti insieme, che ne dite?” propose Jessica raggiante.
Io, Martina e Ornella commentammo che, per noi, non c’erano problemi; Susanna e Gabriele però non sembravano molto felici dell’idea; tuttavia, alla fine accettarono.


Capii le reali intenzioni di Jessica soltanto quando gli amici di Gabriele ci raggiunsero e potei constatare con i miei occhi che erano tutti ragazzi, tutti single e tutti modelli mancati; mi chiesi anche se il fatto che fossimo esattamente cinque ragazzi e cinque ragazze fosse un caso, oppure avesse calcolato anche quel dettaglio.
All’inizio, quella situazione mi lasciò piuttosto perplessa; tuttavia, mi bastarono pochi secondi per rendermi conto che, scelta mirata o meno, i quattro amici di Gabriele erano ragazzi piuttosto simpatici e con cui si poteva conversare piacevolmente.
“Quindi vuoi fare la ricercatrice?” mi chiede Stefano, quello che era seduto accanto a me.
“Sì. Non so se ci sono portata, ma l’ambito universitario e la ricerca non mi dispiacciono.”
“Ma lo sai che i ricercatori sono tutti sottopagati?” mi prese in giro il ragazzo vicino a Stefano, Aldo.
“Ho fiducia che le cose migliorino!” scherzai. In realtà lo sapevo benissimo anche io, ed era questo il motivo per cui, nonostante tutto, non ero ancora convinta del tutto.
“Ma dai, prova! Al massimo non lo passi e saprai che non era destino!” mi aveva convinto mia madre, quando mi ero confidata con lei, e avevo deciso di darle retta.
“E quand’è l’esame?” si informò ancora Stefano.
“I primi di ottobre. Avrei voluto restare a casa a studiare, ma mia sorella mi ha convinto a venire qui con lei.”
“Beh, ha fatto bene, no? Hai conosciuto anche gente nuova!” commentò e mi fece l’occhiolino.
Annuii e “Tu cosa studi invece?” chiedi per cambiare argomento.
“Nah! Ho sempre odiato studiare, perciò, appena mi sono diplomato, mi sono messo a lavorare. Lavoro nel negozio di mio padre, è una cartoleria!”
“Beh, di sicuro guadagnerai più di me, allora!” scherzai “le cartolerie, secondo me, non falliranno mai!”
“E’ vero, a meno che non chiudano completamente le scuole e gli uffici.”
“Cosa di cui dubito!” risi.
“E per fortuna, direi!”
Aldo richiamò l’attenzione di Stefano per dirgli qualcosa, così lanciai una rapida occhiata agli altri commensali: Susanna e Martina stavano intrattenendo una fitta conversazione tra loro; Ornella e Jessica stavano chiacchierando con Antonio e Giulio, nonostante fosse palese che a Jessica interessasse più ammirare Giulio che la conversazione in sé; Gabriele, invece, se ne stava in silenzio, a contemplare il suo boccale di birra, perso in chissà quali pensieri. In quel momento mi resi conto che non l’avevo ancora sentito parlare e, anzi, mi ero quasi dimenticata di lui; mi chiesi se fosse colpa della nostra presenza, se si stava comportando in quel modo, oppure, semplicemente, se fosse un suo modo di essere. Scossi la testa: perché avrebbe dovuto interessarmi, poi?
“Allora, che ne dici?”
Martina mi diede una leggera gomitata e solo allora mi accorsi che la conversazione era ripresa senza che io me ne rendessi conto.
“Cosa dicevi, scusa?”
Lei fece uno strano sorrisino e “Susanna e io stavamo proponendo, visto che domani è la nostra ultima sera qui, di fare qualcosa tutti insieme a casa sua. Tu che pensi?”
E da quando la mia opinione serviva per decidere una cosa del genere?
“Se a Susanna e a suo fratello va bene, perché no, scusa?” domandai, ancora senza capire.
“No, così.” Commentò lei e si voltò nuovamente a confabulare con Susanna.


“Sei contenta, vero?”
Avevo praticamente dimenticato tutta quella storia, trascorrendo una piacevole serata a discutere con Stefano e tutti gli altri; perciò, quando Martina mi pose quella domanda, mentre eravamo ormai a letto e stavamo chiacchierando prima di addormentarci, io non riuscii davvero a capire di che diavolo parlasse.
“Ma come no! E noi che l’abbiamo fatto per te!”
“Ma cosa avreste fatto per me? E soprattutto chi?”
Martina sbuffò. “Possibile che non ti sei accorta di niente?”
Ero seriamente preoccupata: non mi pareva che Martina avesse bevuto altro, oltre alla coca-cola. “Si può sapere di che diavolo stai parlando?”
Lei si voltò verso di me seria, appoggiando il gomito sul cuscino e la testa sulla mano: anche se la stanza era ormai al buio, dalle grandi finestre entrava la luce della luna, quindi vedevo benissimo la sua espressione. E questa mi preoccupò non poco.
“Davvero non ti sei accorta che Stefano ha un debole per te?”
Ah. Era a questo che si riferiva.
“Marti, come al solito state saltando a conclusioni affrettate…”
“Certo, come no. Ti sei accorta che non avete fatto altro che parlare per tutta la sera?”
“Ho parlato anche con gli altri!”
“Ma solo a Stefano hai dato il tuo numero di cellulare!”
“Solo lui me l’ha chiesto.”
“Vorresti forse dirmi che l’avresti dato anche agli altri, se te l’avessero chiesto?”
“Beh, sono ragazzi simpatici e mi sono trovata bene. Si potrebbe uscire tutti insieme qualche volta, no?”
Martina sospirò un po’ troppo platealmente e scosse la testa con forza. “Sei proprio incorreggibile. Un ragazzo come Stefano ci prova così palesemente con te e tu non hai altro da dire?”
“Non ci stava provando con me. E se anche fosse come dici, adesso a me…”
“Sì, sì, lo so. Adesso l’unica cosa che ti interessa è lo studio, vero? Ma Serena, hai ventiquattro anni e una vita davanti! Non puoi pensare sempre e solo allo studio! Anche la mamma è preoccupata per questo!”
“A me invece va benissimo così.” Ribattei piccata “Quindi non vedo quale sia il vostro problema.” E, ad indicare che la conversazione, per quanto mi riguardava, era terminata, mi voltai dall’altra parte e serrai gli occhi, decisa ad addormentarmi il prima possibile; Martina fortunatamente non disse altro e seguì il mio stesso esempio.
Nonostante lo desiderassi con tutte le mie forze, il sonno non accennava ad arrivare. Ero arrabbiata, sì, con mia sorella e Susanna per aver organizzato tutto quello alle mie spalle. Perché a me, dell’amore, in quel momento non importava un accidenti: l’unica cosa che desideravo era studiare per poter raggiungere i miei obiettivi. Nient’altro. L’avevo capito cinque anni prima che l’amore porta solo a tanta sofferenza e ad altrettante delusioni, quando, dopo quattro anni insieme e tanti progetti e tanti sogni fatti e condivisi, il mio ragazzo di allora mi aveva lasciata, perché “quando si è distanti l’amore non dura”, secondo lui, riferendosi al fatto che avevo dovuto trasferirmi a causa dell’università.
Mi rigirai per l’ennesima volta; mia sorella, accanto a me, dormiva già profondamente, mentre la luna, ormai alta nel cielo, illuminava completamente la nostra stanza. Di solito, io amavo dormire al buio – detestavo qualsiasi forma di luce – ma quella sera concordammo ambedue che, per quelle due notti, avremmo fatto un’eccezione.
Mi alzai dal letto e mi fermai davanti alla finestra: la luna quasi piena si specchiava nel mare, appena increspato dalle onde; il silenzio regnava sovrano e sentii una strana senso di quiete sciogliermi il cuore. Istintivamente, aprii la finestra, per godere ancora di più di quella bellissima sensazione.
“Come mai ancora sveglia?” chiese una voce all’improvviso, quando ero ormai a pochi passi dalla balaustra. Feci un passo indietro, spaventata, il cuore che batteva a mille; solo qualche attimo dopo lo riconobbi: era Gabriele.
“Io… scusa… cioè…”
Mentalmente mi diedi della stupida. Perché diavolo mi stavo scusando, se era stato lui a spaventare me?!
“Scusa, non volevo spaventarti.” Mi disse infatti.
“No, ecco… cioè, non mi aspettavo che ci fosse qualcuno, tutto qui.”
“Come va il piede?”
Ancora? Quante volte dovevo ripeterglielo che non mi ero fatta niente? “Bene.”
“Ne sono contento.”
Non sapevo come iniziare una conversazione, o meglio, avevo paura di una sua possibile reazione a qualsiasi cosa avessi potuto dire. Per tutta la serata, aveva parlato sì e no dieci minuti e non ero ancora riuscita a capire assolutamente cosa gli passasse per la testa.
“Mi piace restare qui a pensare mentre osservo la luna.” Mi spiegò invece lui, togliendomi da quell’imbarazzo, appoggiandosi alla ringhiera, accanto a me.
“Sì, è bello. Trasmette tanta serenità.” Commentai, imitandolo.
“Lo penso anche io. E lo pensava anche mio nonno.”
Lo guardai sorpresa. “Tuo nonno?”
Annuì. “Sì, è stato lui a costruire questa casa, sai? Quando ero piccolo, mi raccontava sempre che un giorno la sua macchina si fermò proprio in questa zona e, visto che era notte, aveva deciso di aspettare la mattina per andare a chiedere aiuto in paese. Mi disse che quella sera c’era la luna piena e che rimase ore a fissare quello spettacolo. Allora decise che avrebbe costruito qui la casa in cui avrebbe voluto morire. Lui era un architetto e quei libri che hai visto nello studio erano suoi. E prima ancora, di suo padre. E quando morì, li passo a me. Del resto, io ero l’unico realmente affascinato da quel che faceva: mia madre è sempre stata interessata solo alla vita mondana e mio padre non si stacca dal suo lavoro quasi neanche per mangiare.”
Ecco perché aveva reagito in quel modo, quando avevo provato a prenderli. Lo capivo: anche io, se qualcuno avesse provato a toccare senza permesso qualcosa che era appartenuta a mio padre, mi sarei arrabbiata. Aveva uno strano modo di scusarsi, quel ragazzo.
“Mio nonno è morto nove anni fa, ma io lo ricordo ancora, seduto su questa veranda, anche a tarda notte, che guardava il suo mare. Allora decisi che, qualunque cosa fosse successa, io avrei protetto questa casa al suo posto. E che avrei seguito le sue orme.”
“Studi anche tu architettura, quindi?” domandai, curiosa.
“Sì, anche se probabilmente non sarò mai bravo come lui.”
“Devi volergli voluto molto bene.” Constatai.
“Sì. E, almeno io, gliene voglio ancora.”
Si voltò nella mia direzione: i suoi occhi, di notte, erano così scuri da sembrar neri. Proprio come il colore del mare di sera, quando non è illuminato dalla luce della luna. Anche loro, in quel momento, mi stavano trasmettendo una strana sensazione di calma e serenità, difficili da spiegare.
“Sarà meglio che vada.” Biascicai alla fine, distogliendo lo sguardo. “Buona notte.”
“Buona notte anche a te.”
“Serena?” mi chiamò all’improvviso. Mi voltai, sorpresa: non mi aveva mai chiamata per nome, prima.
“Sì?”
“Se ti va ancora di dare un’occhiata ai libri di mio nonno… fa’ pure. Mi farebbe piacere.”
”Gra… grazie…”
Non sapevo cos’altro aggiungere. Mi sentivo leggera, come non mi capitava da tanto tempo. Se fosse merito di quella conversazione notturna o di quello scenario magnifico non saprei, ma, appena mi coricai, il sonno che tanto avevo cercato in precedenza mi accolse immediatamente tra le proprie braccia.

*

La mattina successiva mi svegliai che il sole era già alto nel cielo. Che ore potevano essere? Guardai l’orologio e per poco non gettai un urlo. Le undici. Io non mi svegliavo mai alle undici, neanche quando non dovevo studiare, o quando la sera mi ritiravo più tardi del solito; il massimo della trasgressione erano state le nove e solo quando ero davvero completamente distrutta.
Balzai giù dal letto, alla ricerca dei miei vestiti; all’improvviso, però, un pensiero mi fulminò. Dove stavo andando? Ero in vacanza, a casa di un’amica; avevo sì portato con me qualcosa da studiare, ma non c’era alcuna fretta di rimettermi sui libri. Dovevo star calma e rilassarmi, e anche il mio corpo me lo stava dicendo, a suo modo.
Mi affacciai al balcone, chiedendomi se gli altri fossero in giardino e per un attimo il pensiero tornò alla notte precedente; mio malgrado sentii le guance improvvisamente calde. Scossi la testa e guardai in basso: non c’era nessuno.
Scesi al primo piano e ad accogliermi ci fu soltanto il silenzio. Probabilmente le altre avevano deciso di fare qualcosa quella mattina, invece di poltrire a letto come avevo fatto io, e chissà dov’erano. Voleva dire che avrei impiegato quei momenti per studiare e recuperare un po’ del tempo perduto.
Entrai in cucina per cercare qualcosa, qualsiasi, per fare colazione e, inaspettatamente, vi trovai Gabriele, intento a fissare la sua tazza.
“Ciao.” Lo salutai reprimendo uno sbadiglio.
Lui alzò un attimo la testa e “Ciao.” rispose piatto.
Per un attimo, i suoi occhi, ora di nuovo blu, mi fissavano in un modo strano. Perché mi guardava così? Gli avevo fatto qualcosa? Eppure, non mi pareva di essermi comportata male, quella notte.
“Le altre?”
“Non ne ho idea. Quando mi sono alzato non c’erano già più.”
“Ah.”
Beh, almeno mi aveva risposto, nonostante il tono fosse sempre monocorde. Rimasi ferma lì, incerta su cosa fare. Mi chiesi se quello che era accaduto la notte precedente non fosse stato soltanto il frutto della mia immaginazione. Sentii un nodo alla gola: dopo quello che ci eravamo detti, pensavo che qualcosa tra noi fosse scattato e che almeno avremmo potuto conversare come due persone normali; invece, a quanto pareva, quella era stata solo una mia stupida idea.
Cretina cretina cretina!
Gabriele si alzò e “Io vado. Serviti pure, c’è del latte in frigo.” Mi disse, prima di sparire dalla stanza. Era stata la mia impressione, o aveva fatto di tutto per evitare di guardarmi?

Ero arrabbiata. Furiosa. Mi sentivo presa in giro, e tanto. Mi chiesi se quel ragazzo si stesse divertendo alle mie spalle. E quello che mi faceva più rabbia era che ci stavo anche male.
Ovviamente tutti i miei buoni propositi di mettermi a studiare furono, ancora una volta, disattesi. Per colpa sua.
Decisa a lasciar perdere, tornai in camera, mi cambiai e mi diressi verso la spiaggia, decisa a farmi un bagno; magari nuotare mi avrebbe permesso di calmarmi e di non pensare a quell’idiota. Una volta sulla spiaggia, così feci una rapida corsa e mi lanciai in acqua, decisa ad allontanarmi il più possibile dalla costa: ero abbastanza veloce, nonostante fossi una semplice autodidatta.
Non ho idea di quanto tempo rimasi lì a nuotare; quando sentii che le braccia non riuscivano a sollevarsi dall’acqua e che avevo iniziato ad ansimare, capii che potevo ritenermi soddisfatta e ritornai a riva, stanchissima, ma decisamente più tranquilla.
Quando, dopo una rapida doccia, scesi nuovamente, le altre erano da poco tornate con una quantità incredibile di buste e sacchetti delle dimensioni più diverse.
“Avete rapinato un centro commerciale?” chiesi.
Ornella rise: “Siamo state in paese a comprare qualcosa per stasera.”
“Avremmo voluto chiederti se ti andava di unirti a noi” mi spiegò Martina “però… sì, insomma, tu non dormi mai fino a tardi ed eri così tranquilla… non volevo disturbarti.” cercò di scusarsi, ma io scossi la mano a significare che non c’era bisogno e mi guardai intorno incerta. “Ma non vi sembra di aver preso un po’ troppa roba?”
“Dici?” Susanna era titubante.
“Beh, con quello che avete comprato potremo sfamare un esercito! Sbaglio, siamo soltanto noi dieci?”
“Sì, ma siccome oggi è il giorno libero della cuoca, avevo pensato che potremmo cucinare noi il pranzo, anche se lei ci ha lasciato qualcosa da riscaldare.”
Ah, ecco come si spiegava tutto quel ben di Dio.
“Che cosa avete in mente di preparare?” mi informai.
Nella stanza cadde il silenzio e con la coda dell’occhio notai che gli sguardi delle altre erano tutti rivolti verso mia sorella. E la cosa non mi piaceva per niente.
“C’è qualche problema?”
“Beh, ecco…” Martina mi si avvicinò con lo sguardo basso ed ebbi al conferma che quello che stava per dirmi mi riguardava. “Prima mi sono lasciata sfuggire il fatto che sai preparare un’ottima amatriciana e così…”
Sospirai. “Hai almeno comprato tutto quello che mi serve, vero?”
Non sono mai stata una cuoca eccelsa, ma cucinare mi è sempre piaciuto. Quando ero piccola, avevo imparato per aiutare mia madre; poi, con il passare degli anni, avevo capito quanto cucinare mi piacesse e mi rilassasse; quindi, a casa, ero sempre io l’addetta ai fornelli.
Misi a soffriggere l’olio con il guanciale e “Cosa avete preso per stasera?” chiesi per curiosità.
“Qualche chilo di salsiccia, una decina di birre e due bottiglie di limoncello. E aranciata per tua sorella.” Precisò Jessica.
“E quanta salsiccia avete preso, per curiosità?”
“Non so di preciso… sei o sette chili, credo.”
Mi bloccai con i bucatini ancora in mano. “Quanto?”
“Perché, è poca?”
“No, anzi, mi sembra un po’ troppa. Avete intenzione di fare indigestione di salsiccia?”
“Beh, ma non sapevamo che altro prendere…”
“Quindi, se non ho capito male, avete preso solo quella?”
Le altre annuirono; mi portai una mano al volto.
“Va bene, ragazze, mi è venuta un’idea. Che ne dite di farne un po’ per noi e preparare qualcos’altro per stasera, insieme alla salsiccia?”
“Cioè?”
“Non so, magari una focaccia… ci sono forni aperti oggi, no?”
“Sì.”
“Quindi nel pomeriggio potremmo scendere in paese e andare a comprare qualche ruota. Che ne dite?”
Le altre furono d’accordo; in dispensa trovai anche alcuni pomodori, così dissi a Martina di preparare un’isolata di pomodori, come contorno alla carne.
Decidemmo di pranzare in giardino, all’ombra: era un peccato restarsene in casa con uno spettacolo del genere, così Susanna e Jessica si offrirono di apparecchiare.
“Chissà se Gabriele vorrà pranzare con noi…” si chiese Susanna, indecisa su quanti bicchiere prendere dalla mensola.
“Se mangia con noi deve dirmelo adesso, visto che sto per mettere la pasta.” Commentai.
Quasi l’avessimo chiamato, Gabriele entrò in cucina proprio in quel momento.
“Ah, siete voi. Mi pareva strano che Lidia fosse venuta anche oggi.”
“Sei stato attratto dal profumo, eh!” scherzò Ornella.
“Sì. Cosa state preparando?”
“Veramente sta cucinando Serena: bucatini all’amatriciana.”
“Ah.” mi lanciò una rapida occhiata, ma non aggiunse altro.
“Pranzi con noi?” si informò sua sorella, ancora con i bicchieri in mano.
L’invitò sembrò spiazzarlo. “Non so se…”
“Ma dai! Te ne stai sempre solo! Per una volta sii più di compagnia!”
“Jessica ha ragione! Siamo qui da due settimane e non ti abbiamo visto quasi mai…” rincarò Ornella.
Gabriele sospirò e vi voltò verso di me. “Beh, se non ci sono problemi…”
“Nessuno.” commentai piatta e aprii un’altra confezione di pasta per prenderne una manciata. Nello sfilarli, qualcuno mi sfuggì di mano cadendo per terra; imprecai a mezza voce, mentre mi chinavo a raccoglierli.
“Tutto bene?” mi chiese Ornella.
No. Ed è tutta colpa sua. “Sì.” Risposi, invece.


Dovevo far finta di niente e comportarmi come al solito, continuai a ripetermi come un mantra. Far finta di non aver notato che, quando capitava che mi chiedeva di passargli qualcosa, quasi me la strappava di mano, pur di non entrare in contatto con me troppo a lungo, oppure che aveva deciso di sedersi tra Jessica e Susanna quando aveva notato che, oltre a quello, l’unico posto vuoto era quello accanto a me.
Mi stava evitando e non sapevo spiegarmi il perché. E non riuscivo a capire se mi irritasse di più questo suo atteggiamento o il fatto che ci prestassi così tanto attenzione.
“Stavo pensando che potremmo arrostire la salsiccia sul fuoco. Cosa ne dite?” propose ad un certo punto Susanna, guardandoci; le altre applaudirono subito alla proposta.
“L’idea non è cattiva.” commentai “Ma ti avverto che non sono una grande esperta!”
“Quello è un lavoro da uomini.” Commentò Susanna “Hai già fatto tanto tu per noi. Se ne è occuperò Gabriele con i suoi amici, vero?” chiese, voltandosi verso il ragazzo con un sorriso che non prometteva nulla di buono.
“E lo sapevo che sarebbe finita così.” Borbottò lui, incrociando le braccia al petto. “Ricordi dove abbiamo messo la griglia, l’anno scorso?”
“Non ne ho idea. Se ne sarà occupata Lidia, come al solito. Dopo la chiamo e glielo chiedo.”
“A proposito, ma esattamente dove ci mettiamo? Qui nel giardino o in spiaggia?”
“Noi pensavamo in spiaggia, Marti. C’è tutto lo spazio che ci occorre, e non solo per mangiare!”
L’allusione di Jessica era più che chiara, ma facemmo finta di non averla notata.
“Quindi, ricapitoliamo: barbecue per la carne, le bevande possiamo tenerle in casa e prenderle quando ci servono… possiamo portarci un tavolino ed appoggiare lì tovaglioli e piatti. Cosa manca?”
“La focaccia.” Ricordai.
“Oh.” Susanna si fermò un attimo, meditabonda. “Me ne ero scordata.”
“Ci sono problemi?” mi informai “Se vuoi posso andare da sola a prenderla, basta che mi dici dove, perché ieri sera non ho visto panifici aperti.”
“E’ che… è un po’ complicato, ecco. Mi è venuta un’idea! Gabri, perché non l’accompagni tu?”
No, no, no, no! Perché, tra tanta gente proprio lui?
“Ma tu non mi volevi che preparassi il barbecue?” ricordò, il tono di chi accetterebbe qualsiasi cosa pur di evitarsi qualcosa che non gli faceva affatto piacere.
“E dai, che problema c’è? Lo prepari dopo. Intanto te lo recupero io, ok? Non vorrai far andare Serena da sola, mi auguro!”
Gabriele sbuffò, ma alla fine acconsentì. Gli lanciai un’occhiataccia torva: neanche io ero così contenta di quella situazione, avrei voluto dirgli; eppure, visto che la proposta era partita da me, non potevo tirarmi indietro.

A me il silenzio è sempre piaciuto. Anche se mia sorella era una persona molto tranquilla, che non tendeva a disturbarmi mai, quando studiavo, nei momenti in cui era fuori e avevo casa solo per me, riuscivo a concentrarmi molto di più, solo per il fatto di sapere che non c’era nessuno.
In quel momento, però, mentre ero seduta accanto a Gabriele e da dieci minuti buoni fissavo la strada scorrermi accanto pur di non guardare nella sua direzione, pensai che detestavo con tutto il cuore quel silenzio che si era creato. Mi chiesi se anche lui avvertisse quella sensazione di imbarazzo e se anche lui si sentisse a disagio.
“Ti spiace se metto un po’ di musica?” mi domandò all’improvviso.
“No, fai pure.” Anzi, avrebbe sicuramente alleggerito l’atmosfera.
Gabriele accese la radio e immediatamente nell’abitacolo si diffuse la voce di Gigi D’Alessio alla perenne ricerca del perdono dell’amore perduto.
No, cavolo! Preferivo un silenzio imbarazzante a Gigi D’Alessio!
Istintivamente, allungai la mano per cambiare stazione, ma il mio movimento fu bloccato dalle sue dita che, più leste delle mie, andarono a spingere il pulsante che cercavo io.
“Scusa.” mi affrettai a dire, ritraendo la mano “E’ stato un gesto istintivo.”
“Vedo che anche tu sei una fan della musica napoletana!” commentò ridendo.
“Come no.”
Eros Ramazzotti, in quel momento, stava cercando di estorcere dalla sua amica varie informazioni sulla sua vita privata; nonostante le sue canzoni mi piacessero, mi chiesi se, al posto della protagonista del testo, avrei accettato il suo consiglio o l’avrei mandato male, chiedendogli di farsi un po’ i fatti suoi.
“Ti piace Ramazzotti, però.” Constatò ancora Gabriele.
“Uh?”
“Stavi canticchiando la canzone. Non te ne sei accorta?”
Arrossii: no, non ci avevo fatto caso. “Non è che mi piace… lo ascolto volentieri, ecco.”
“E invece cosa ti piace ascoltare?”
Ci pensai su. “Non sono una grande appassionata di musica” ammisi: in genere, se una canzone la trovavo orecchiabile e con un testo carino, l’ascoltavo volentieri, ma non avevo un artista preferito di cui avevo tutti gli album e per cui avrei fatto follie pur di assistere a un concerto.
“Ma ci sarà qualcosa che preferisci, no?”
Quella domanda mi stupì: perché si era interessato ai miei gusti musicali, se aveva dimostrato chiaramente che la mia compagnia non gli andava a genio?
“De André, forse. Insomma, è il cantautore di cui conosco quasi tutti i testi. Ma di solito vado a canzoni, non a cantanti. Tu, invece?”
“Metal.”
Lo guardi, sorpresa. “Metal?”
Fece cenno di sì con la testa. “Ti stupisce?”
Sì. “No… cioè, non somigli ai metallari che conosco…”
“Perché non vesto di nero e non porto borchie? Fino a qualche anno fa, le usavo anche io. La mia era più una sorta di ribellione contro i miei; ma crescendo, ho smesso, anche se continua a piacermi quel genere di musica.”
“Capisco.”
Cadde nuovamente il silenzio; Claudio Baglioni, intanto, si chiedeva come stesse la sua ex.
Ad un certo punto, l’auto si fermò e Gabriele mi indicò un negozio accanto al mio finestrino. “Siamo arrivati.”

Guardai pensierosa cosa offrisse il bancone: c’erano focacce e pizze farcite di vario tipo e mi pentii di non aver chiesto alle altre se avessero qualche esigenza in particolare.
“Cosa credi che possa piacere agli altri?” chiesi allora a Gabriele, che sicuramente ne sapeva più di me.
Alzò le spalle. “Non ne ho idea. Non basta una focaccia al pomodoro classica?”
Lo guardai in tralice. “Stavo pensando a qualcos’altro di più… particolare, ecco. A meno che non vi vada di fare indigestione di salsiccia.”
“Perché? Quanta ne hanno presa?”
“Almeno sette chili. Visto che ne abbiamo preparata già un po’ per pranzo, ne saranno rimasti altri cinque o sei.”
“E non è abbastanza, scusa?”
“Certo che lo è. Anzi, è anche troppa. Per questo volevo prendere qualcosa per variare.”
“Non so… decidi tu!”
Sbuffai: lanciai uno sguardo alla panettiera, che aspettava la nostra ordinazione e al contempo rideva sotto i baffi. “Signorina, sa come sono fatti gli uomini: per loro va bene tutto, salvo poi lamentarsi dopo.”
“Già.”
Gabriele dovette sentirsi offeso da quella uscita, perché mi indicò una pizza con i funghi. “Perché non prendi quella? Sembra buona!”
Sia a me che a Martina i funghi piacevano; ricordai che la sera prima anche Giulio aveva ordinato la pizza con i funghi e Jessica gliene aveva rubato uno; quindi, sicuramente, almeno noi, l’avremmo mangiata.
“Ok. Allora questa e una focaccia con i pomodori.” Decisi e misi maso al portafoglio; tuttavia, anche questa volta la mano di Gabriele fu più lesta della mia e tese la banconota alla donna prima di me.
“Che stai facendo?”
Lui mi guardò stupito. “Pago.”
“Appunto.”
“E qual è il problema, allora?”
“E’ stata una mia idea, quindi è giusto che paghi io.”
Lui prese le buste e si voltò verso di me, puntandomi un indice accusatore contro. “L’idea sarà stata anche tua, ma siete ospiti a casa mia, quindi pago io!”
“Non se ne parla!”
“Discutiamone fuori, che ne dici?” mi indicò la cliente che, dietro di noi, aspettava di essere servita. Mi scostai imbarazzata e mi scusai, ma la donna mi sorrise complice e ordinò quel che le serviva.
“Hai visto che carini, Flavia?” disse la signora alla negoziante a bassa voce.
“Hai ragione. Lui non è il figlio dell’avvocato? L’ho visto qualche volta in giro, sempre da solo o con gli amici: era ora che si accasasse, finalmente!” rincarò lei, sicura che ormai noi non le potessimo udire; peccato che, a quella distanza, sia io che Gabriele la sentimmo benissimo.
Raggiungemmo l’auto in silenzio tombale e, sempre senza parlare, tornammo alla villa; questa volta, non ci fu nessun Eros Ramazzotti a farci compagnia durante il tragitto.

*

I ragazzi arrivarono per le otto: Gabriele li aveva avvertiti che ci sarebbe stato del lavoro da fare, e quindi avevano deciso di venire prima per dare una mano: Antonio e Giulio si preoccuparono di accendere un falò sulla spiaggia, mentre Stefano e Gabriele si dedicarono al barbecue: ci misero mezz’ora a montarlo, sotto lo sguardo divertito di Ornella e Jessica; io, Martina e Susanna, invece, facevamo su e giù per portare piatti, bicchieri, tovaglioli e bottiglie.
“Sono distrutto!” commentò Stefano, entrando in cucina e buttandosi sulla prima sedia che trovò disponibile.
“Ma che ragazzi intrepidi! Solo mezz’ora per uno stupido barbecue!” commentò Susanna.
“Spiritosa! La prossima volta provateci voi, e vedremo!”
“Perché no?” lo sfidai.
“Piuttosto, non avete qualcosa per dissetare dei poveri lavoratori indifesi?”
Aprii il frigorifero, presi una bottiglia d’acqua e gliela porsi. “E’ tutta vostra.”
Lui mi guardò male. “Acqua?”
“Non fare quella faccia schifata: le birre sono per dopo. Quindi, adesso, accontentati.”
“Lo sai che tua sorella è proprio una tiranna?” chiese a Martina; per tutta risposta, lei fece spallucce. “Cosa vuoi farci, ormai sono abituata!”
Feci una linguaccia a tutti e due e andai fuori: Giulio e Aldo avevano appena portato sulla spiaggia il tavolo che avevamo usato per pranzare e stavano tornando completamente sudati.
“Ecco due ragazzi che meritano davvero un premio!” commentai a voce alta, in modo che Stefano potesse sentirmi.
“Ehi!” uscendo dalla stanza, Stefano mi diede una spinta scherzosa; peccato che, avendo le mani occupate, il movimento mi destabilizzò e la confezione dei bicchieri cadde per terra.
Mi chinai per raccoglierla, ma Gabriele le aveva già recuperate per me. “Dove li metto?”
Gli indicai il tavolino sulla spiaggia. “Stiamo portando tutto lì.”
“Ok.” E mi anticipò.
Dopo quell’episodio in paese, non avevamo più parlato: lui sembrava non aver preso molto bene il commento delle due donne e io mi sentivo stranamente in imbarazzo.
Come avevo previsto, avanzò tanta di quella carne, che avremmo potuto organizzare almeno un’altra serata come quella, nonostante comunque non ci fossimo risparmiati; la focaccia e la pizza, invece, furono spazzate via in pochi minuti.
“Se Gabriele mi avesse detto che la pizza con i funghi avrebbe avuto tutto questo successo, ne avrei preso un’altra.” Commentai, notando che invece era rimasto un ultimo pezzo di focaccia.
“Mio fratello detesta i funghi. L’ultima cosa che farebbe è consigliarti di prendere qualcosa del genere!”
“Ma cosa…?”
Non riuscivo a capire: c’era l’imbarazzo della scelta, in quel panificio; perché aveva scelto proprio quella? L’aveva fatto per noi, perché sapeva che i funghi piacevano un po’ a tutti? Allora non era vero che non si curava di chi gli stava accanto, ma semplicemente non lo dava a vedere.
Ma che diavolo sto facendo? Sto disquisendo su una stupida pizza con i funghi? , mi chiesi, bevendo un sorso di birra.
“Serena, non ti pare di star bevendo troppo?” mi ammonì mia sorella.
“Secondo me è dispiaciuta perché Stefano la sta ignorando per stare con gli amici!!” commentò Susanna indicando lui, Aldo e Antonio che stavano giocando a calcio con una lattina.
“Ho già detto che…”
“Ehi, Ste’!” Qui c’è ancora un po’ di focaccia, ne vuoi?”
Stefano abbandonò immediatamente la partita e agguantò il trancio prima che qualcun altro provasse anche solo a guardarlo da lontano; poi, recuperò una bottiglia di birra e si sedette accanto a me. “Perché non vi unite anche voi alla partita?” ci chiese.
“No, grazie. Preferiamo ammirarvi da lontano!”
“Non mi dite che preferite guardare loro che tubano!” e con un gesto ci indicò gli altri, seduti intorno al fuoco: Jessica e Giulio stavano talmente appiccicati che ci chiedemmo perché quei due non si fossero ancora imboscati da qualche parte; Gabriele e Ornella, invece, erano presi da una conversazione che doveva essere parecchio interessante, a giudicare da come ne erano immersi: bastava guardare Ornella per capire che stava letteralmente pendendo dalle labbra del ragazzo. Non avevo idea di cosa si stessero dicendo, ma pensai che dovesse essere qualcosa di divertente, perché stavano ridendo; i suoi occhi - neri, ancora - brillavano alla luce del fuoco.
Bevvi un altro sorso di birra: perché con Ornella sorrideva in quel modo e quando invece era in mia compagnia non mi guardava neanche negli occhi? Se quel pomeriggio ci fosse stata lei al mio posto, in quel panificio, avrebbe reagito allo stesso modo?
Bevvi ancora un altro sorso: la cosa non mi riguardava, comunque.
“Cavoli, tuo fratello sta flirtando con Ornella!” notò Martina proprio in quel momento; evidentemente, anche loro avevano notato i due grazie al commento di Stefano.
“Ornella è cotta di Gabriele da anni.” Spiegò Susanna “Solo che avevo capito che a lui non interessasse…”
“A quanto pare, ti eri sbagliata.” Commentai, il tono più acido di quanto volessi.
Se fossi rimasta lì un altro po’, probabilmente li avrei visti iniziare ad amoreggiare.
“Ho voglia di sgranchirmi un po’ le gambe. Stefano, mi accompagni?”chiesi.

Ci eravamo allontanati solo di pochi metri, eppure il silenzio della notte aveva già inghiottito il falò e gli altri; si sentiva soltanto il suono delle onde del mare che, leggere, si infrangevano sulla sabbia, mentre la luna, ormai completamente piena, brillava alta su di noi.
Mi sedetti per terra, rabbrividendo al contatto con la sabbia fredda.
“Hai freddo?” si preoccupò Stefano, avvicinandosi e poggiando la mano sulla mia spalla.
“No.” D’istinto mi scostai da lui.
“Oh. Scusami, non volevo…”
Non parlammo più per qualche minuto e io mi stesi completamente sulla sabbia, il braccio sotto la testa. “Si vedono le stelle.” Commentai.
“Sì.” Mi imitò “Ma la luce della luna è troppo forte e se ne vedono meno di quante se ne potrebbero avvistare in altri giorni.”
Ci furono altri attimi di silenzio e mi chiesi se prima, con il mio rifiuto, non l’avessi offeso. Probabilmente si aspettava chissà cosa da quella passeggiata e sicuramente si sentiva preso in giro; mi vergognavo per il mio comportamento: in fondo, se avevo chiesto proprio a lui di accompagnarmi, era proprio perché sapevo che non avrebbe di certo rifiutato.
“E’ sempre così quando qualcosa ti acceca: finisci per non vedere qualcosa che, in condizioni normali, noteresti immediatamente.” C’era una nota triste nella sua voce, in quel momento, e compresi subito che non stava parlando più soltanto della luna.
“Mi dispiace.” Fu tutto quello che riuscii a dire; del resto, ero consapevole di averlo illuso inutilmente e mi sentivo in colpa.
“No, non è colpa tua. Ho fatto tutto da solo.”
“Non avrei dovuto chiederti di venire a fare una passeggiata con te.”
“E perché? Le stelle sono più belle se si guardano con gli amici. Con o senza luna.”
Sorrisi e per un po’ restammo così, ad ammirare le stelle sulle nostre teste.

Quando tornammo indietro, in un primo momento, feci finta di non notare gli sguardi inquisitori di mia sorella e di Susanna e lanciai un’occhiata al punto in cui fino a poco tempo prima erano seduti Gabriele e Ornella.
“E i due piccioncini?” domandai risedendomi.
Martina alzò le spalle: “Non ne ho idea. Si sono appartati poco dopo che tu e Stefano vi siete allontanati.”
“Ah.”
“Beh…?” il naso di mia sorella era a due centimetri dal mio “Come è andata?”
Sbuffai. “Non è successo niente di quel che pensate voi due. E lui ha capito che non succederà mai.”
“Tutto qui?”
“Tutto qui.”
“Quindi è solo per questo che gli hai chiesto di fare un giro?” sembrava delusa.
“Sì.” No, non era per quello. Era per non vedere Gabriele che flirtava con Ornella sotto i miei occhi. E sì, sono stata una cretina. Ammisi a me stessa, continuando a fissare per non so quanto tempo il fuoco che scoppiettava allegramente davanti a me. Ma poi, perché diavolo doveva interessarmi quel che faceva quello stupido? Arrabbiata con me stessa, presi un’altra bottiglia di birra.
“Serena!” mia sorella me la tolse di mano prima ancora che la portassi alla bocca. “Basta. Hai bevuto fin troppo!”
La guardai male. “Tu non eri quella che diceva che devo lasciarmi andare? Beh, adesso che lo sto facendo, cosa vuoi?”
“Ma si può sapere che ti prende? E’ da quando sei tornata da dal paese che sei strana! E’ successo qualcosa con Gabriele?”
“Non è successo niente!” saltai su, forse un po’ tropo velocemente, perché all’improvviso mia sorella e la spiaggia iniziarono a ruotare vorticosamente.
“Hai visto che hai bevuto troppo?” mi rimproverò prendendomi per un braccio. “Dai, vieni, che ti riaccompagno in camera!”
“E dai, Marti, sto bene!” cercai di divincolarmi, ma io stessa mi rendevo conto di non avere la forza per controbattere, perciò mi lasciai guidare da lei.
Arrivammo davanti alle scale e Gabriele ci venne incontro.
“Cosa succede?”
“Niente.” Commentai acida e feci per andarmene.
“Serena ha bevuto troppo e la sto riaccompagnando in camera.” Spiegò Martina.
“Se vuoi, l’accompagno io, così puoi tornare dagli altri.” Si offrì lui.
Martina lo fissò per un attimo incerta, poi mi lasciò andare. “Ok…”
“Non ho bisogno del tuo aiuto!” strepitai quando mia sorella si allontanò “Posso farcela benissimo da sola!” e, per dimostrare la fondatezza delle mie parole, piantai il piede sul primo scalino… per poi rendermi conto che si era spostato di qualche centimetro.
“Oh, sì. Lo vedo benissimo!” rise, prendendomi al volo.
“E Ornella? Dove l’hai lasciata?”
“E’ andata a recuperare un maglione, perché diceva di avere freddo.”
“Martina e Susanna mi avevano detto di avervi visto allontanare sulla spiaggia.” Lo fulminai invece io.
“Forse intendevano Jessica e Giulio.”
Effettivamente, non avevo precisato a quale coppietta mi riferissi.
“Non avrei mai pensato di avere l’onore di vederti in questo stato.” ammise Gabriele divertito.
Gli regalai un’occhiataccia torva, troppo stanca per poter far altro. “E’ tutta colpa tua!”
“Mia? E cosa avrei fatto, di grazia?”
In quel momento, l’avrei preso volentieri a pugni.
“Perché mi hai consigliato di prendere la pizza con i funghi se a te non piace?”
“Ha ragione tua sorella: sei ubriaca!”
“Non sono ubriaca!”
“Come definiresti tu una che ce l’ha con me perché io ho scelto una pizza dei funghi, anche se non mi piace?”
Una cretina, avrei risposto in condizioni normali; ma in quel momento il collegamento per me era più che logico. “Perché l’hai scelta?” ripetei, testarda.
“A te piace, no?”
“Beh, sì…”
“E allora?”
“Allora? ALLORA?!” mi staccai da lui e gli puntai contro un indice accusatore “Stai dicendo che hai preso quella pizza perché piace a me, però è da stamattina che mi tratti malissimo e neanche mi guardi in faccia! Sapessi almeno cosa ti ho fatto, poi!”
“Ma no, non mi hai fatto niente…”
“Però con me non scherzi come quando sei con Ornella! Mi guardi sempre come… come se fossi arrabbiato!”
Ma che diavolo stavo dicendo? Mi stavo comportando come una fidanzata gelosa! Avevano ragione: avevo bevuto davvero troppo! E pensare che io odiavo l’alcol! Sentii uno strano nodo alla gola e gli occhi mi si riempirono di lacrime. Oddio, ero una di quelle che aveva l’ubriacatura depressiva? Ci mancava pure questo!
Abbassai la testa, troppo imbarazzata, anche solo per guardarlo in faccia.
“Ehi!” Gabriele cercò di sollevare il mio viso verso di lui, ma io scostai la testa: non avevo nessuna voglia di sentirmi prendere ancora in giro da lui.
“Scusami. Ero solo… geloso.”
Questa volta fu lui a girare la testa, quando io alzai lo sguardo sorpresa. “Geloso?!”
“Mi sei piaciuta fin dal primo momento. Quando poi ti ho sorpresa nello studio, davanti ai libri di mio nonno, mi sono quasi spaventato, perché era come se, proprio tu, tra tutte, stessi prendendo un pezzetto di me, e alla fine ti ho trattata malissimo, anche se non era mia intenzione. Non mi è parso vero, quando ti ho trovata da sola sulla terrazza, ieri notte! Tu probabilmente non te ne sei accorta, perché era buio, nonostante ci fosse la luna, ma ero davvero in imbarazzo. Poi stamattina Stefano mi ha chiamato tutto contento perché gli avevi lasciato il tuo numero e mi ha detto che gli piacevi e… insomma, io non sono come lui. Qualunque ragazza preferirebbe un tipo come Stefano a me!”
“A me lui non interessa. Non in quel modo, almeno.” Mi difesi.
Finalmente alzò la testa e i nostri sguardi si incontrarono; mi sorrise. “Lo so, me l’ha detto. Quando non vi ho visti tornare, ho pensato che ce l’avesse fatta e, quando anche Ornella si è allontanata, sono andato a farmi un giro per schiarirmi le idee; al mio ritorno ho incontrato Stefano: aveva una faccia! Gli ho chiesto cosa fosse successo e me l’ha detto. Scusami.” Mi si avvicinò di qualche passo, senza staccare gli occhi dai miei, e mi asciugò una lacrima; non mi ero accorta che stavo piangendo, finché non sentii la sua mano calda sulla mia pelle umida.
Le sue dita accarezzavano lentamente le mie gote e istintivamente chiusi gli occhi, per assaporare meglio quelle emozioni.
Quando le nostre labbra si incontrarono, prima timidamente, poi sempre più sicure a audaci, mi resi conto che era quello che avevo sempre desiderato, fin dal primo momento in cui avevo incontrato i suoi occhi blu.
“Mi piaci.” Mi sussurrò sulle labbra e ripeté ancora e ancora, posando le sue labbra sul mio collo, il suo respiro caldo sulla mia pelle.
Fu come se la mia testa si fosse svuotata all’improvviso. Che fosse l’alcol, che fosse la sua presenza, non mi interessava: volevo solo sentirlo ancora, sulla mia bocca, sul mio collo, sul mio corpo. Ovunque.
“Anche tu mi piaci.” Gli soffiai in un orecchio. Avvertii chiaramente il brivido che l’aveva attraversato in quel momento e finalmente capii: anche lui desiderava la stessa cosa che volevo io.
Senza mai staccarsi completamente da me, aprii la porta della stanza alle mie spalle; non mi ero neanche accorta che fossimo al secondo piano, davanti alle nostre camere. Mi spinse dolcemente dentro: mi ci volle solo una rapida occhiata alla stanza per capire dove fossimo.
“Come mai ci siamo trovati proprio davanti alla porta della tua stanza?” chiesi maliziosa.
“Che tu ci creda o no, è stato un caso. La stanza tua e di tua sorella è proprio accanto a questa. Sei tu che ti sei fermata qui davanti.”
“Uh!” non riuscii a trattenermi dal commentare e lo baciai ancora, affondando le mani nei suoi capelli: erano morbidi, esattamente come avevo immaginato.
Gabriele ricambiò e quando la sua mano sollevò la mia maglietta, un brivido freddo mi attraversò la schiena.
“Se non vuoi, fermami…” mi disse, notando il mio turbamento.
Scossi la testa e, con un gesto secco, gli tolsi la maglietta, lasciandolo a dorso scoperto: la mia risposta dovette piacergli, perché mi imitò immediatamente.
Com’è che diceva Arisa, nella sua canzoncina che aveva incantato milioni di italiani? “Fare e rifare l’amore, per ore per ore per ore!”, mi pare. E io mi ero sempre chiesta come facesse, a farlo per ore, senza stancarsi mai.
Tuttavia, quella sera ero sicura di averlo capito. Non so quante volte ci unimmo quella sera; ricordo solo che furono tante, e tutte bellissime. Ricordo il calore della sua pelle, i nostri gemiti, i suoi baci e le sue carezze, i brividi di piacere che provai quando entrò in me e quando prese i miei seni tra le sue mani. Ricordo i suoi “Mi piaci” ripetuti come un mantra, una cantilena, una dolce ninna nanna. Ricordo di aver pensato che, in quel momento, non mi interessava nient’altro: gli altri giù in spiaggia, l’esame per il dottorato che si avvicinava inesorabilmente, i miei buoni propositi di non pensare ad altro se non allo studio… il mondo poteva finire anche in quel momento, per quanto mi riguardava: tutto quello che volevo, era lì, accanto a me e dentro di me.

*

Mi svegliai con un mal di testa talmente forte che per un attimo mi chiesi se la notte precedente non fossi caduta e avessi preso una botta; solo in un secondo momento, tutto quello che era accaduto – la festa in spiaggia, il chiarimento con Stefano, l’incontro con Gabriele – mi tornarono ala mente con una lucidità sconcertante.
Chi è che aveva detto che quando ci si ubriaca si dimentica tutto?
Mi guardai intorno e mi sorpresi nel trovarmi nel mio letto, da sola. Come ci ero finita lì? Mi chiesi.
Scesi in cucina per prendermi un caffè, sperando che mi aiutasse contro l’emicrania; quando entrai nella stanza, la tavola era già apparecchiata.
“Buon giorno!” mi salutò una voce allegra e gioviale; dedussi che dovesse trattarsi di Lidia, la cuoca e cameriera.
“Salve. Posso… ehm…?”provai titubante, non sapendo esattamente cosa chiedere; per tutta risposta, la donna rise. “Prendi quello che vuoi, cara. Se hai bisogno di qualcosa, non esitare a chiedermelo.”
“Grazie, ma vorrei solo del caffè. Molto forte.”
La donna annuì, capendo al volo. “Ci penso io.”
In quel momento Martina entrò nella stanza. “Oh, eccoti! Pensavo stessi ancora dormendo. Allora, come ti senti?”
Mi presi la testa fra le mani. “Di merda.”
“Beh, è comprensibile. Non sei una abituata a bere, tu. Mi chiedo che diavolo ti fosse preso, ieri sera!”
“Cosa avete fatto, poi?” chiesi per cambiare argomento: adesso che ero di nuovo lucida, mi vergognavo da morire al solo pensiero di quello che avevo fatto la sera precedente.
“Niente di particolare, siamo rimasti sulla spiaggia a chiacchierare. Sai che Antonio suona il pianoforte?”
Ahi ahi! Mia sorella aveva un debole per i musicisti e qualcosa mi disse che quel ragazzo l’avrei sentito nominare molto spesso nei giorni successivi.
“A che ora siete rientrati?”
Ci pensò su. “Per le quattro, credo. Tu dormivi beata, ormai.”
La signora Lidia mi servì il caffè e io mi dedicai alla mia colazione.
“Serena…” il tono di mia sorella era quello tipico delle discussioni serie “… cosa avete fatto tu e Gabriele quando vi ho lasciati soli?” mi chiese.
Abbassai lo sguardo imbarazzata. Che poi, non c’era niente di male in quello che era successo, no? “Perché?” domandai comunque.
“Beh…” Martina iniziò a giocherellare con la zuccheriera “Non l’abbiamo rivisto prima delle due. E quando Ornella è tornata, aveva una faccia strana. Le abbiamo chiesto cosa avesse, ma non ha voluto dircelo.”
Deglutii. La casa era quella, dopotutto, le stanze da letto vicine, ed erano alte le probabilità che avesse visto e sentito qualcosa; magari ci aveva beccati proprio mentre ci baciavamo, o entravamo in camera di Gabriele. Mi sentivo in colpa: lei era innamorata di Gabriele e io, una perfetta sconosciuta, passavo la notte con lui sotto il suo naso. Dovevo chiarire con lei, assolutamente.
“Abbiamo… sì, abbiamo parlato un po’…”
Martina continuò a fissarmi, sicura che ci fosse dell’altro, così le raccontai tutto.
“E noi che eravamo convinte che… abbiamo completamente sbagliato!” scoppiò a ridere; non so perché, ma la sua reazione mi rincuorò.
“Sono contenta, sai? Gabriele è un tipo un po’ taciturno, ma forse per una come te è più adatto di Stefano. Sono felice che questa vacanza ti abbia regalato una cosa così bella.” Commentò sorridendo. Nonostante non fosse mia abitudine, feci il giro del tavolo e l’abbracciai: non avrei potuto desiderare una sorella migliore.


Trovai Ornella nella stanza, che preparava la sua valigia. Mi dava le spalle, così fui costretta a chiamarla per attirare la sua attenzione. Mi vergognavo un po’, dovetti ammetterlo, perciò ci misi qualche secondo prima di trovare il coraggio di farlo.
In un primo momento, quando i nostri sguardi si incontrarono, i suoi occhi furono attraversati da un guizzo veloce. Cos’era stato? Rabbia, odio? Delusione? Non seppi dirlo con certezza, ma non aveva senso preoccuparsi allora.
“Posso parlarti?” le chiesi direttamente, senza giri di parole; Ornella si accomodò sul letto e mi fece cenno di fare altrettanto.
“Non hai niente da rimproverarti.” Mi anticipò lei, lasciandomi di stucco.
“Come… cosa…?”
Rise. “Te lo si legge in faccia, sai? Quando sei entrata, avevi l’espressione di un condannato che aspetta il verdetto di morte!”
“Davvero?”
“Sicuro. Non ce l’ho con te, sul serio.” Si stiracchiò le braccia verso l’alto. “Certo, non posso dire che non ci avevo sperato ieri sera, ma in verità l’ho sempre saputo. Io e Susanna siamo amiche sin da quando andavamo alle medie. Gabriele è sempre stato una cotta adolescenziale mai passata veramente. Lo vedevo di rado, visto il suo carattere sfuggente, ma mi piaceva proprio per quel suo modo di essere, oltre che per i suoi occhi.”
La capivo: anche io me ne ero innamorata subito, del resto.
“La verità è che ieri sera mi ero subito accorta che, anche se stava parlando con me, pensava a tutt’altra persona e non mi ci è voluto molto per capire che si trattava di te, visto le occhiate che ti lanciava. Avresti dovuto vedere che faccia ha fatto quando ti sei allontanata con Stefano!”
“Mi dispiace…”
“Ma no, che dici? Sai, in realtà, a me non è mai passata per l’anticamera del cervello l’idea che tra te e Stefano ci fosse qualcosa. Tu e Gabriele… vi attirate, ecco. Anche se voi non ve ne accorgete. E’ come un magnete invisibile, che vi spinge l’uno verso l’altra. Avevo capito subito che tra voi fosse successo qualcosa, in paese.”
Non sapevo cosa dire. Avevo pensato che Ornella fosse una ragazza molto silenziosa e riservata e invece mostrava un’inaspettata sensibilità; o forse, proprio il suo essere in quel modo, la rendeva particolarmente abile nell’osservare e nel capire gli altri.
Pensai che avevo preso un po’ troppo sotto gamba quei tre giorni e quei ragazzi: ognuno di loro nascondeva un piccolo mondo bellissimo e particolare. Ecco perché mia sorella amava così tanto la compagnia di quelle ragazze e mi resi conto che anche io avrei voluto passare più tempo con loro, dopo quei tre giorni.


Avevamo fissato la partenza per le tre del pomeriggio, per poter utilizzare quella mattina come avremmo preferito. Jessica e Susanna si erano concesse un ultimo bagno in piscina, per esempio, mentre Ornella aveva preferito preparare la valigia. Io e Martina avevamo ben poca roba con noi, a differenza loro, così ci mettemmo pochissimo a preparare i nostri bagagli.
Martina mi disse che avrebbe raggiunto le altre, mentre io decisi di godermi ancora un po’ quel terrazzo che aveva assunto un valore così speciale per me, due notti prima.
Quel giorno non avevo ancora visto Gabriele, ma non trovai il coraggio di chiedere alle altre che fine avesse fatto, onde evitare imbarazzi e domande inopportune.
Una parte del mio cervello, la vecchia me, quella razionale e cinica, si chiese se non avessi sognato tutto. O se, piuttosto, quel ragazzo, non mi avesse voluta semplicemente prendere in giro. Sì, magari era uno di quelli da una notte e via, che il giorno dopo dimenticavano già il nome della ragazza con cui avevano passato la notte. Scossi la testa. Non lo conoscevo bene, vero, ma avrei mai creduto a una cosa del genere neanche se fosse stata Susanna stessa a dirmelo.
La distesa marina brillava sotto la luce del sole, così forte e diversa da quella pallida della luna e all’improvviso mi venne voglia di sapere di più su quel ragazzo che in meno di due giorni mi aveva reso una persona così diversa.
Lanciai un’occhiata alle altre: si stavano divertendo come delle bambine a schizzarsi l’acqua l’un l’altra; all’improvviso Jessica mi vide e mi salutò felice. Ricambiai il gesto sorridendo.
“Se ti va ancora di dare un’occhiata ai libri di mio nonno… fa’ pure. Mi farebbe piacere.”
Il vento mi riportò quelle parole e decisi che, forse, avrei potuto prestargli ascolto.


Adesso che lo notavo meglio, quello studio era più piccolo di quel che avessi pensato la prima volta che avevo messo piede lì. Non dovevano esserci più di mille, duemila volumi e molti erano di diritto. La volta precedente, interessata a cercare un dizionario di greco, non avevo neanche fatto caso al tipo di libri che c’erano. I miei occhi corsero veloci ai tomi che mi avevano attirato quel giorno, ben sapendo, adesso, che trattavano di architettura.
Estrassi lo stesso che avevo provato a prendere quel giorno e un brivido mi attraversò: c’era un po’ di Gabriele in quel libro, me l’aveva detto lui stesso; e io stavo di nuovo dando un’occhiata a qualcosa che non mi apparteneva.
“Oh, smettila. Ti ha dato lui il permesso, no?” mi convinsi.
Era davvero un libro fantastico, notai, il mio animo di bibliofila ormai completamente desto. Le pagine erano ingiallite, ad indicare l’età del libro e l’uso che comunque ne era stato fatto. Il mio occhio esperto riuscii a riconoscere le mani diverse che, a lato, avevano vergato appunti per generazioni e non mi stupii quando, tra quelle parole dal significato a me sconosciuto, indovinai quella che doveva essere la grafia di Gabriele, anche se non l’avevo mai vista.
“Ti piace?” le sue braccia mi circondarono proprio mentre la sua voce, dolce e calda, solleticò il mio orecchio; spostai di lato la testa per permettergli di baciarmi il collo.
“Sì. Ed è anche tenuto bene, nonostante si veda che è molto vissuto. Però l’edizione è molto bella.”
Rise, mentre io, con occhio critico, continuavo a studiare il volume.
“Ho ridestato un mostro?”
“Mi sa proprio di sì.” Voltai la testa nella sua direzione e lo baciai.
“Dormito bene?” si informò.
“Sì. Talmente bene che non mi ricordo come diavolo sono finita in camera mia.”
“Non lo immagini? Ti ho portata io, ovviamente. Ti sei addormentata sul più bello, mentre mi stavi raccontando come mai avessi scelto me e non Stefano.”
Arrossii più per la domanda che mi era stata posta, che per il fatto, probabilmente più grave, di essermi addormentata in quel modo. “Non me lo ricordo.” Ammisi.
“E dove si fermano i tuoi ricordi?”
Il cuore mi batteva all’impazzata: non potevo dirgli che ricordavo soltanto che stessimo facendo l’amore e basta! Era troppo, troppo…. Imbarazzante? Indecente? Disgustoso?
Lui scoppiò a ridere. “Dai, sto scherzando. Eri ubriaca, è normale che non ricordi molto.”
“Non ero ubriaca!” mi difesi, dandogli un leggero colpetto con il gomito.
“Ah, no?”
“Ok, ma solo un po’.” Ammisi alla fine.
“Continui a non volermi rispondere, però.”
“A cosa?” Mi strinse ancora di più. “Perché hai scelto me e non Stefano? Cosa ci trovi di bello in uno come me?”
“E tu?” mi vergognavo nel dirgli la verità, anche se, in effetti, non c’era niente di male.
“Io cosa?”
“Cosa hai trovato di bello in una secchiona, fissata con lo studio come me?”
“Il fatto che odi la piscina.” Rispose pronto; lo guardai perplessa. “Cosa?”
“Non sto scherzando. Tutti quelli che vengono qui, invece di guardare il mare, preferiscono quella dannata piscina. La odio. E’ così bello il mare, soprattutto in questo punto! Non capisco perché mio padre abbia voluto far costruire quella cosa!”
“Mi stai dicendo che ti piaccio perché sono allergica al cloro?”
“Non solo per quello, ovvio; ma, sì, mi hai incuriosito grazie a quello. Perché?”
Scossi la testa. “Niente… è che… mi aspettavo altro, ecco.”
“Ha parlato quella che si è ubriacata per una pizza con i funghi!”
Scoppiammo a ridere.
“A me invece sei piaciuto per i tuoi occhi. Sono bellissimi. Ma sicuramente lo sai già.” Minimizzai, vergognandomi per la mia confessione. Lui sbuffò e si staccò da me. “Io li odio, invece.”
“E perché?” mi voltai verso di lui.
“Sono gli stessi di mio padre. Susanna ha preso quelli di mamma, invece. La invidio. Lei sì che somiglia a mio nonno.”
“Magari questo significa che lui vuole proteggerti e starti accanto tramite tua sorella.” Commentai, rimettendo il libro a posto. “Lei ti vuole molto bene, sai? E si preoccupa per te. All’inizio pensavo fosse una signorina snob e antipatica, invece è esattamente l’opposto. E anche tu lo penseresti, se provassi a conoscerla meglio.”
Quando tacqui, cadde il silenzio. Avevo parlato troppo, probabilmente; eppure, era quello che sentivo di dover dire. Era come se quel libro mi avesse trasmesso i sentimenti di suo nonno e che fosse mio dovere comunicarli a suo nipote.
“Lo pensi davvero?” mi chiese alla fine, guardandomi.
Fissai ancora una volta i suoi occhi blu come il mare e gli sorrisi, annuendo; lui ricambiò e mi strinse forte a sé. “Allora ci proverò.”
Lo abbracciai anche io, commossa. Allora non potevo sapere se tra noi sarebbe durata, se era solo una cotta passeggera e se sarebbe finita dopo pochi giorni; eppure, se in qualche modo quello che era accaduto tra noi quei giorni fosse servito a far cambiare qualcosa, nella sua come nella mia vita, allora, qualunque sarebbe stato il futuro, non avremmo mai rimpianto quei momenti.
“Cambiamento.”
Lui si scostò un attimo e mi guardò, incuriosito. “Cosa?”
“La parola che dovevo tradurre quando sono venuta qui a cercare il dizionario. Me la sono ricordata: significa “cambiamento”.”
“Beh, ha un che di profetico, non ti pare?”
Annuii e lo abbracciai ancora. Sì, il vento del cambiamento era soffiato su di noi e chissà su quali lidi ci avrebbe condotto. Non lo sapevamo e, in quel momento, non mi importava neanche.


Fine


Note dell’autrice
Oddio. E’ finita! XD Non ci avrei mai creduto! XD E dire che era iniziato tutto come il semplice racconto di un sogno! XD Poi, ovviamente, i personaggi hanno iniziato a fare quello che volevano loro, a costruirsi un passato, dei sogni, a stringere amicizie… così da sognare due ragazzi che si incontrano su un terrazzo e si innamorano solo guardandosi negli occhi (cosa ci facessero lì e perché sogni roba così smielata non lo so, e non lo voglio sapere!), è nata questa storia.
Visto che si tratta di un sogno, come dicevo nell’introduzione, probabilmente ci sono degli elementi che, senza che me ne sia accorta, mi hanno influenzata.
Pensandoci un po’, quindi, ecco la lista dei colpevoli (con relativi ringraziamenti – almeno da parte mia; dalla vostra, non lo so! XD):
La BBI, perché mi ha permesso di partecipare a una bella sfida. E io adoro le sfide;
Def, per aver creato il fanmix (front cover e la back cover) e la fanart per questa storia. Sono felice che lo abbiano colpito quei punti che più amo di questa storia.
Blue Smoke: perché io sono strasicura che sia colpa della sua fic Love Drops: come il sapore del vino, che mi è venuta in mente una villa megagalattica e da straricchi;
Graffias: perché amo le sue storie e sono sicura che, in qualche modo, il suo stile ha influenzato la stesura di questa;
La bella e la bestia versione Disney: perché all’inizio non era una semplice libreria, ma qualcosa di molto più grande, proprio come nel film, e ‘sta fissazione continua a restarmi, nonostante tutto;
Solarial e ancora Graffias, perché hanno letto questa storia in anteprima, perché sono pucciose, perché, semplicemente, ci sono.
Tutti, e ripeto tutti, coloro che mi hanno permesso di vivere quella serie di esperienze che, bene o male, sono convogliate all’interno della storia. Chi ha davvero comprato un sacco di salsiccia nonostante non fossimo così tanti, chi ha l’autoradio in macchina e ci permette di viaggiare in compagnia della musica, chi ha organizzato feste sulla spiaggia, chi mi ha insegnato cos’è la paleografia,, chi frequenta un dottorato… persone diverse che, a modo loro, mi hanno ispirata.

E ora, una piccola nota che sicuramente non fregherà molto, ma che ci tengo a inserire, perciò se volete leggete, sennò non preoccupatevi, io non me la prendo di certo. Probabilmente non l’ha notato nessuno – non che ci sia qualcosa di utile nel farlo, va beh – ma i nomi dei personaggi principali non sono casuali: Serena, Stefano e Susanna iniziano con la s, esattamente come le tre parole che compongono il titolo. Perché? Così. Mi piaceva l’idea di questa corrispondenza, perché quello che ha dato origine a questa storia è stato appunto un sogno. Martina invece ha questo nome perché, in ogni mia storia, pare sia destino che ci sia un personaggio il cui nome inizi con la m; Gabriele invece mi piace per il suono: mi ricorda la brezza leggera che soffia perennemente sul mare.
Gli altri nomi non hanno un perché: sono i personaggi che, come sempre, se li sono scelti.
Sì, lo so, sono malata. E voi che siete arrivati fin qui, lo siete con me, perciò siamo pari! XDD
   
 
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