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Autore: Fae    10/12/2009    3 recensioni
Nel giorno in cui una città intera si prepara a un evento raro e curioso come un'eclissi solare, si intrecciano le storie apparentemente slegate di dieci persone: un artista di strada tallonato da un ammiratore testardo, un ragazzo qualunque che incontra il suo nuovo vicino di casa, due compagni di liceo con più di un segreto da nascondere, un gigolò alle prese con un cliente stravagante, un barista sfaccendato che ritrova una vecchia conoscenza. L'unica cosa che hanno in comune sono i marciapiedi che tutti si ritroveranno a calcare, in attesa del momento in cui il giorno si farà improvvisamente notte. [Pete/Patrick] [Brendon/Ryan] [Jon/Spencer] [Gabe/William] [Gerard/Frank]
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Cobra Starship, Fall Out Boy, My Chemical Romance, Panic at the Disco, The Academy Is
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Streetsigns and sidewalks
Autrice: Fae
Challenge/Prompt: Big Bang Italia, AU (Criticombola @ Criticoni)
Fandom: RPF Fall Out Boy/Panic! at the Disco/Cobra Starship/The Academy Is…/My Chemical Romance
Rating: PG13/R
Personaggi/Pairing: Pete Wentz/Patrick Stump, Brendon Urie/Ryan Ross, Jon Walker/Spencer Smith, Gabe Saporta/William Beckett, Gerard Way/Frank Iero
Warnings: AU, slash
Parole: 10.095
Disclaimer: tutti i personaggi sono realmente esistenti, non si intende dare rappresentazione veritiera di eventi, caratteri od orientamenti sessuali, Pete non possiede un bar mezzo scassato ma ne possiede una catena intera tutti belli nuovi, i Panic non vanno a scuola insieme né sono vicini di casa, Gerard non si mantiene disegnando sui marciapiedi e William, nonostante le credenze popolari, certe cose non le fa. Quindi vedete bene che mi sono inventata tutto :D
Extra: Streetsigns and sidewalks (cover art), di El Defe; Solar eclipse (fanmix), di El Defe

Dediche/Ringraziamenti: a Jen, perché questa storia è per lei e perché devo a lei se sono in questo fandom. A Def, per i bellissimi fanworks e i complimenti. A Big Bang Italia per avermi dato l'opportunità di scriverla. A chiunque la leggerà. Vi amo tutti ♥


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More or less, I'm a mess
now that the sun is down
and I'm all locked up in this dusk that you call dawn
pouring down like the day you left
making up like we never did
streetsigns and sidewalks have never looked so dead
since you stole my heart and threw it away



La via principale era insolitamente piena di gente, per quell'ora del pomeriggio. Gente che sfilava avanti e indietro, totalmente assorbita dai propri pensieri, e gente ferma con il naso rivolto verso il cielo e gli occhi curiosi in attesa di qualcosa.

Il ragazzo aveva lo sguardo chino sul marciapiede, una frangia di capelli scurissimi che gli ricadeva sulla fronte e la stessa espressione concentrata che Frank aveva notato fin dalla prima volta. Poteva vederlo solo a tratti, seminascosto dalla folla che gli passava davanti; fissava la foto che teneva accanto a sé e ne riproduceva i particolari un tratto alla volta, scrutando attentamente il risultato e fermandosi spesso con il gessetto a mezz'aria.

Prese un respiro profondo e con studiata indifferenza attraversò la strada fino ad arrivargli accanto.

"E' molto bello" disse, quasi sottovoce.
Il ragazzo alzò lentamente gli occhi, e un leggero sorriso gli incurvò le labbra. "Ti ringrazio" rispose soltanto, prima di tornare a studiare con occhio critico il suo lavoro.

Frank abbassò lo sguardo a propria volta e si concentrò sull'immagine. Sotto di lui, il grigio dell'asfalto si colorava di una miriade di sfumature: il cielo screziato di bianco e azzurro, le forme rosee e paffute di due putti e, in un angolo, un'imponente ombra scura che eclissava la massa di luce emergente dalle nuvole. Più in basso, appena abbozzata, vi era la figura di un santo che contemplava il cielo.

"Non credo di averlo mai visto" cominciò, incuriosito. "Il dipinto, intendo."
"Diciottesimo secolo. E' di un pittore tedesco." Il ragazzo sollevò lo sguardo di nuovo e si grattò lentamente la testa. "Il nome non lo ricordo nemmeno io."
Frank rise. "Tu" tentò, rompendo il silenzio che si era creato "non sei lo stesso che dipinge all'angolo tra Franklin e Harlem, di solito?"
"Mh-h" fu la laconica risposta.
"E anche…"
"…anche davanti ad Austin Park, e qualche volta vicino al bowling. Tutti posti dove ho visto anche te almeno una volta." Gli occhi dell'altro, canzonatori, si alzarono un'altra volta verso i suoi. "Non è che mi stai pedinando?"
Sorrise appena e si strinse nelle spalle, facendo del suo meglio per apparire innocente. "Per quanto ne so, magari sei tu che pedini me."

Una serie di schiamazzi eccitati si levarono all'improvviso da un gruppetto che stazionava in fondo alla strada. Un ragazzo piccolo e magro, che transitava in quel momento verso la direzione opposta, si fermò accanto a loro per osservare.

"Non sei per niente originale, Gee" commentò, con un sorrisetto ironico.
"Sei in ritardo, Pete" replicò quello senza neanche guardarlo.
"Mi piace farmi aspettare."
"E' per questo che non diventerai mai ricco."
"Fottiti."

Il ragazzo si allontanò, lasciando l'altro nuovamente assorto nel suo disegno. Terminò di abbozzare le forme di altre nuvole, delineandole con pochi e rapidi tratti del gessetto, poi si fermò; il suo sguardo, questa volta, si diresse verso il cielo sopra di loro.

"Vedrai l'eclissi da qui?" domandò Frank, sedendosi lentamente accanto a lui sul bordo del marciapiede.
Le labbra gli si piegarono nuovamente in un sorriso. "Non c'è nessun altro posto da cui vorrei vederla."


--


Il locale era ancora vuoto, immerso in un silenzio pigro rotto soltanto dall'audio della TV e dall'occasionale sbuffare della macchina per il caffè. Una luce soffice filtrava dalle vetrate e attraverso le tende colorate che ne ornavano i lati, illuminando il legno dei tavoli di una calda tonalità aranciata.

Pete appoggiò lo straccio col quale aveva appena terminato di pulire il bancone e rivolse per un attimo la sua attenzione allo schermo, dove pressoché tutti i canali trasmettevano notiziari identici tra loro.

"- esattamente così, siamo in collegamento da Lewiston, Nebraska, dove tra pochi minuti arriverà finalmente il momento che tutti attendono. L'eclissi del secolo, come è stata definita, ha catalizzato l'attenzione dell'intero paese - era dagli scorsi anni settanta che gli Stati Uniti non erano interessati da- "
"Ehi, Pete!"

Si riscosse, voltando lo sguardo e sorridendo automaticamente ai due adolescenti in jeans e maglietta che avevano appena varcato la porta.

"Ragazzi" li apostrofò, tornando ad afferrare lo straccio per riporlo.
"Uh - bel grembiule. Due birre, per favore."
"Brendon, è un tentativo patetico persino per te."
Il ragazzino sbuffò sonoramente. "Oh, avanti, oggi è un giorno storico!" si lagnò, arrampicandosi su uno degli sgabelli.
"Talmente storico che ho visto più polizia in giro nelle ultime ore che nell'ultimo anno" commentò Pete, sarcastico. "Se ti vedono uscire con dell'alcool è a me che fanno il culo."
"…possiamo consumare qui?" tentò Brendon, con un sorriso che sembrava volergli uscire dalla faccia.
"Bren, piantala, siamo già in ritardo" intervenne l'altro, sospirando. "Una soda e due Redbull."
Pete ridacchiò e tirò fuori le bibite dal frigo, appoggiandole sonoramente sul bancone."Ragazze che vi aspettano?" chiese, mentre i due si frugavano nelle tasche in cerca di soldi.
"No, una ricerca di scienze che ci aspetta. Quando si tratta di studiare Brendon non resta sveglio neanche di giorno, figuriamoci di notte."
"Sarà notte per un minuto, credo di poter reggere."
"Due minuti e trentanove, e ti ho visto addormentarti in meno tempo. Ci vediamo, Pete."
"Buon lavoro" sorrise, agitando teatralmente una mano mentre un recalcitrante Brendon veniva trascinato fuori contro la sua volontà.

La porta si aprì di nuovo un istante dopo, lasciando entrare una coppia di ragazze e un bambino saltellante seguito a ruota dai suoi genitori. Sospirò, improvvisamente seccato dal chiacchericcio e dal rumore delle sedie spostate, e si voltò a trafficare con la macchina del caffè preparandosi a raggiungerli per prendere le ordinazioni.

"Centinaia di persone hanno affrontato il viaggio fino a uno dei luoghi da cui sarà possibile godere di questo spettacolo nel modo migliore,assistendo alla sua parte più emozionante: il trasformarsi improvviso del giorno in notte fonda. Ricordiamo a chiunque ci stia ascoltando- "
"Centinaia di persone che non hanno un cazzo da fare, evidentemente" borbottò tra sé.
"O che non sono ciniche come te, magari?"

Sussultò, e dovette ringraziare i suoi riflessi e il fatto che fosse di schiena se nessuno si accorse della tazza che gli era quasi scivolata di mano. Prese un breve respiro prima di appoggiarla e voltarsi.

"Ciao" disse soltanto.
Il ragazzo davanti a lui sorrise leggermente. "Ciao. Posso sedermi?"
"E' un luogo pubblico, certo che puoi" rispose, la voce più atona di quanto avrebbe voluto.
L'altro annuì. "Due cappuccini, allora" disse soltanto, prima di allontanarsi.


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Ryan rilesse rapidamente la pagina, allontanando dalle labbra la matita che stava mordicchiando giusto il tempo necessario per scarabocchiare qualche correzione qua e là. Gettò un'ultima occhiata al grafico e annuì tra sé, concentrato.

"Okay, dunque. Basandoci sulle rilevazioni ambientali nel momento della totalità costruiremo - Bren, che cazzo, mi stai almeno ascoltando?"
Brendon, appollaiato sullo schienale della panchina, distolse svogliatamente lo sguardo dai ghirigori che stava incidendo nel legno con la punta di una penna. "Scusa" sospirò, con una piccola smorfia dispiaciuta. Si guardò attorno, percorrendo con gli occhi il piccolo parco che li circondava e soffermandosi sulle persone che si erano sistemate non troppo lontano, approfittando di quello spiazzo erboso e completamente privo di alberi. "Mi dici perché abbiamo scelto questo corso?" chiese in tono lamentoso.
"Perché negli altri saresti andato peggio?"
"Grazie per la fiducia" mugugnò, mettendo il broncio.
Ryan alzò gli occhi al cielo e gli batté una mano sul ginocchio, incoraggiante. "Avanti, non è niente di complicato. Finiamo la ricerca, prendiamo un bel voto, facciamo qualche complimento alla professoressa Ackerman e poi ci liberiamo dell'astronomia per il resto della vita."
Brendon si lasciò scappare un sorriso. "Mi piace il tuo modo di farlo sembrare facile."
"Grazie. Allora -"

Il trillo del cellulare lo interruppe prima che potesse continuare. Con uno sbuffo, si infilò la mano nella tasca posteriore e lo tirò fuori, controllandone il display.

"Quand'è che sceglierai una suoneria umanamente ascoltabile?" commentò Brendon mettendo su una faccia disgustata.
"Shhh" lo zittì, agitando una mano e premendosi il ricevitore contro l'orecchio. "Ehi, Spence. No, non lo sento da una settimana, almeno." Inarcò un sopracciglio. "Come sarebbe che non -" Brendon puntò le mani sullo schienale e scese silenziosamente a sedergli accanto, tendendo le orecchie per ascoltare. Ryan rimase in silenzio per qualche attimo, poi sospirò quietamente. "Lo so che è uno stronzo. Ma non dirlo a me, dillo a lui."
"Mandalo al diavolo, Spence" intervenne Brendon a voce alta, sporgendosi verso il telefono.
Ryan lo spinse via."Sì, è qui con me, stiamo studiando. Più o meno. Ti chiamo dopo, okay?"

Chiuse lo sportellino dell'apparecchio con un gesto secco, scuotendo la testa.

"Fammi indovinare" commentò Brendon, sarcastico. "Ha mancato un altro appuntamento?"
Ryan annuì, riponendo il cellulare e riprendendo in mano la matita per tamburellarla pensosamente contro una gamba. "E credo che sarà l'ultimo."


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La porta che conduceva sul tetto del palazzo gli sfuggì praticamente dalle mani, sbattendo rumorosamente alle sue spalle e spaventando un uccello che beccava poco lontano. Spencer non se ne curò.

"…che vuol dire che te ne sei -" Si passò una mano tra i capelli, respirando profondamente l'aria del pomeriggio. "No, ascoltami - ascoltami. Non mi importa se non usciamo, mi importa del fatto che evidentemente di questa cosa non ti frega un cazzo." Mosse qualche passo e l'uccello volò via definitivamente, sollevandosi sdegnato alle sue spalle. Rise, una risata piccola e triste che gli rimase incastrata in gola. "No, sono stanco anche di avercela con te. Non ti disturbare."

Il bip emesso dai tasti a segnalargli la chiusura della conversazione gli parve tutt'a un tratto un suono meravigliosamente liberatorio. Fu in quel momento che si rese conto che a poca distanza da lui, accanto alla ringhiera che cingeva il grande spiazzo in cemento, c'era qualcun altro. Un ragazzo dai capelli scuri e un accenno di barba incolta lo osservava incuriosito, stringendo tra le mani una macchina fotografica.

"Scusa" disse quello immediatamente, abbassando lo sguardo. "Non volevo farmi i fatti tuoi."
Spencer si limitò a scuotere la testa, troppo stanco per avere qualunque altro tipo di reazione. "Scusami tu, non mi ero accorto che ci fosse qualcuno" disse soltanto, facendo per incamminarsi verso la porta.
"Tu stai al 21B, giusto?"

Si voltò di nuovo, un'espressione interrogativa dipinta sul viso.

"Sono il tuo nuovo vicino" spiegò l'altro. "Ti ho visto il giorno del trasloco."
Spencer spalancò gli occhi. "Aspetta - tu saresti quello…"
Il ragazzo sospirò, passandosi una mano tra i capelli. "…quello dei gatti che ti hanno invaso il balcone, e quello che ascolta i Muse alle tre del mattino, sì. Ti chiedo scusa, io - non faccio tutto questo casino di solito, lo giuro, i miei amici mi sono piombati in casa per festeggiare e abbiamo bevuto un po', e- " Rise, imbarazzato da quel torrente di parole. "Scusa ancora. Non succederà più."
Spencer si avvicinò a lui. "…Non che non mi piacciano, i gatti e anche i Muse" commentò, con una smorfia che somigliava pericolosamente a un sorriso "ma se potessi evitarmeli quando sto cercando di dormire credo che andremmo più d'accordo."
L'altro annuì, allargando le braccia. "Hai ragione."
"Io sono quello che bussava sul muro, comunque."
"L'avevo intuito. E - quello che ti ha detto di scopare di più non ero io, davvero. Era Tom." Spencer inarcò un sopracciglio. "Il mio migliore amico. E' un bravo ragazzo, quando è sobrio."

Sorrisero entrambi, e Spencer notò che sembrava notevolmente più a suo agio. Notò anche, in modo del tutto slegato dal resto, che indossava delle infradito.

"Sei un fotografo?" domandò, indicando l'apparecchio che gli pendeva dal collo.
Il ragazzo si accovacciò, frugando nelle borse che aveva sistemato accanto alla ringhiera. Ne tirò fuori un teleobiettivo e cominciò a montarlo sulla macchina. "Più o meno."
"E' un bel lavoro."
"E' solo un hobby. In realtà vorrei che fosse un lavoro, ma non ho avuto fortuna, finora" spiegò. "Devo accontentarmi di servire caffè da Starbucks e fare foto ai clienti. Che puntualmente pensano che sia un maniaco o qualcosa del genere."
Spencer rise, accennando col mento alla sua attrezzatura. "Quello è un tantino minaccioso, in effetti."
"Oh, questo è nuovo. L'ho comprato per l'occasione."
Alzò lo sguardo verso il cielo, focalizzando solo in quel momento la ragione per cui l'altro doveva essere lì. "Io ho dimenticato persino di comprare qualcosa per-" cominciò incerto, gesticolando verso i propri occhi.
"Uh - tieni" lo soccorse prontamente il ragazzo, aprendo in fretta una tasca e traendone un paio di occhiali da saldatore. Glieli porse e Spencer esitò per un istante prima di prenderli in mano. "Se non hai altri progetti" aggiunse in tono gentile "mi farebbe piacere avere compagnia."

Spencer lo guardò per la prima volta negli occhi. Aveva iridi di un caldo color cioccolato, limpide e rassicuranti. Voltò per un istante lo sguardo in basso, dove i capannelli di gente si facevano sempre più fitti e un musicista di strada, all'angolo del palazzo di fronte, intonava una canzone di cui gli giungevano solo parole smozzicate accompagnate dal suono vibrante della chitarra.

"Perché no" rispose infine, annuendo lentamente e sorridendogli. Allungò la mano, in un gesto che per qualche ragione non gli era mai sembrato tanto naturale. "Spencer Smith."
L'altro ricambiò il sorriso e la strinse, senza smettere di guardarlo. "Jon Walker."


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William chiuse gli occhi, le dita di una mano strette attorno al plettro e quelle dell'altra che si muovevano agilmente contro le corde in una sequenza che conosceva ormai a memoria.

La sua voce, seppure leggermente arrochita dagli sforzi a cui aveva sottoposto la gola nelle ore precedenti, riusciva comunque a mantenersi stabile e sicura nel saliscendi delle note. Suonava senza badare troppo alla folla che gli passava davanti, per la gran parte ignorandolo totalmente; di tanto in tanto, qualcuno lanciava un paio di spiccioli o addirittura una banconota nella custodia della chitarra aperta accanto a lui, accompagnandoli con uno sguardo imbarazzato o commiserevole o talvolta, se si trattava di una ragazza, con un sorriso più o meno pieno di sottintesi.

Chiuse la canzone con un ultimo, soffuso giro di accordi, e prima ancora che potesse riabituarsi al silenzio gli giunse il suono sgraziato di un'unica persona che applaudiva. Rivolse un'occhiata guardinga verso il gruzzolo di monete prima di decidersi a sollevare lo sguardo. Un ragazzo alto e abbronzato, vestito di colori oscenamente sgargianti, era in piedi a pochi passi e lo fissava battendo lentamente le mani.

"…Ci conosciamo?" domandò dopo un istante, inarcando un sopracciglio.
"No" rispose il ragazzo, smettendo di applaudire ma non di guardarlo. "Ti ho visto ieri notte" aggiunse in tono casuale.
William si irrigidì istintivamente."Ti manda Butcher, per caso?"
"Mai sentito."
Mantenendo un'espressione ostinatamente indifferente, si chinò a radunare i soldi e ripose la chitarra. "Mi dispiace, non lavoro di giorno. Torna più tardi."
L'altro si lasciò andare ad una risata. "Beh, se il problema è il giorno" ribatté divertito, accennando verso l'alto con la testa "tra non molto dovresti avere un po' di tempo per me."

Lo scrutò attentamente, considerando la questione. Aveva un fisico simile al suo, magro e slanciato, e corti riccioli neri spuntavano a incorniciargli il viso da sotto il cappello che indossava; gli occhi erano scuri, e i lineamenti inequivocabilmente latini. Indubbiamente era più piacevole da guardare di almeno metà dei clienti dell'ultimo mese, e sembrava piuttosto interessato. Non c'erano ragioni per lasciarlo andar via.

Rise anche lui, beffardo. "Sesso durante l'eclissi. Carino. Molto romantico." Si alzò in piedi, avvicinandosi per fronteggiarlo e scoprendo con sorpresa e un certo piacere che era più alto di lui."Ti costerà un extra" gli sussurrò pigramente, con un piccolo sorriso.
Il ragazzo sorrise a sua volta e si strinse nelle spalle. "Non è un problema" disse con tutta tranquillità. Pochi istanti dopo, una volta gettata un'occhiata intorno per assicurarsi che nessuno stesse guardando verso di loro, gli infilò discretamente in mano un fascio di banconote. William non poté evitare di spalancare leggermente gli occhi mentre notava il taglio e se ne faceva passare rapidamente i margini sotto le dita.

"Uh, io sono Gabe" aggiunse in tono soddisfatto, muovendosi per precederlo lungo il marciapiede. "Andiamo?"

William ripose i soldi in tasca, prese la chitarra in spalla e lo seguì senza fare altre domande.


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"Ecco qui. Scusa per l'attesa" disse asciutto Pete, posando finalmente sul tavolo il vassoio con i due cappuccini.
Patrick non si scompose. "Ti siedi con me?" lo invitò, accennando al posto vuoto di fronte a sé.
Pete rimase interdetto. "Credevo aspettassi qualcuno."
"No. E' per te."

Si fissarono per un istante. Patrick sorrise appena, e Pete scostò lentamente la sedia e vi si lasciò cadere prima di poter cambiare idea, fissando la propria tazza quasi a volerci scomparire dentro.

"Non c'è poi così tanta gente in giro" commentò Patrick, lo sguardo perso oltre le vetrate del locale.
"Si spostano tutti verso il parco, la visuale è più sgombra lì."
"Comunque è una bella giornata. Siamo fortunati."
"Mh."

Il tintinnio fragoroso del cucchiaino contro la ceramica lo riscosse dal suo mutismo. Alzò gli occhi istintivamente e non poté evitare di incrociare quelli davanti a lui, immobili e fissi nei suoi.

"Pensi di ignorarmi finchè non me ne andrò?" chiese tranquillamente Patrick, senza traccia di rimprovero nella voce.
Pete si sentì improvvisamente un idiota. "…Scusa" sussurrò. Prese un respiro e si sforzò di sorridere. "Allora. Com'era Boston?"
"Affascinante. Tu l'avresti trovata noiosa."
"E che farai ora?"
Patrick prese un lungo sorso dal suo cappuccino prima di rispondere. "Mi hanno offerto un posto in uno studio di registrazione" rivelò. "Non è esattamente il mio sogno, ma al momento va bene così. E non è lontano da qui."
Aggrottò le sopracciglia."Non avevi più opportunità restando dov'eri?"
"Forse. Ma non mi pesa fare un passo alla volta."
"E la tua etichetta indipendente?" chiese, con una nota di divertimento.
Patrick rise. "Non appena rapinerò una banca per mettere insieme i soldi, forse" disse, rigirando il cucchiaino nella tazza ormai quasi vuota. "Per adesso ho un paio di band per le mani. Hanno del talento, Pete, dovresti sentirli" continuò, la voce improvvisamente più animata. "Meritano molto più di tanta merda che trovi sugli scaffali."
Pete non riuscì a trattenere un sorriso. "Riuscirai a farci arrivare anche loro" disse senza pensare.

Patrick non disse nulla, ma gli sorrise di rimando, facendogli abbassare lo sguardo. Si perse a fissare il legno del tavolo, seguendone le venature mentre le tracciava lentamente con un dito.

"Che mi dici di te? Che hai fatto negli ultimi mesi?" si sentì chiedere, dopo qualche istante di silenzio.
Rise appena, senza riuscire a dissimulare una punta di ironia. "Vediamo - sono stato a Los Angeles per capodanno, ho scoperto che la cucina tailandese mi fa vomitare, ho rivisto Friends dall'inizio alla fine" elencò. "E ho fatto qualche lavoro qui dentro."
Patrick annuì, alzando gli occhi sulle pareti dipinte di fresco e ricoperte di specchi e vecchie stampe d'epoca. "Ho notato. E' carino."
"Oh, e la lavatrice non si ribella più quando cerco di usarla."
Risero entrambi, con più sincerità questa volta. "Ci crederò quando lo vedrò" dichiarò Patrick, puntandogli un indice contro.
"Sul serio. Niente più allagamenti. Sono molto fiero di me."
"E come sta Hemmy?"
Pete si strinse nelle spalle, con una piccola smorfia affettuosa. "Lui sta meglio di tutti. Dorme, mangia e corre dietro alle cagnette del quartiere. In quest'ordine."

Calò un silenzio che avrebbe potuto quasi sembrargli rilassante, se non fosse stato così evidentemente pieno di cose non dette. Si ritrovò improvvisamente a pensare che i loro silenzi erano sempre stati diversi. Questo era qualcosa di nuovo, che non gli piaceva e che nessuno dei due sapeva davvero come gestire. Soprattutto, non lo sapeva lui.

"Stai uscendo con qualcuno?" domandò Patrick alla fine, in tono apparentemente casuale.
Pete guardò oltre la sedia, oltre il tavolo accanto, in un punto imprecisato del muro in fondo al locale. "In realtà sì."
"Oh" fu la risposta. "E' una cosa seria?"
"Non lo so ancora. Può darsi." Portò una mano in grembo, giocherellando con l'orlo del grembiule. "E tu?"
Patrick poggiò la tazza vuota sul piattino e si aggiustò gli occhiali. Era un vizio che aveva sempre avuto, aggiustarsi gli occhiali dopo il caffè, anche se non aveva alcun senso. "Ho avuto una storia, un paio di mesi fa. Durata poco e finita male."

Pete non fece altri commenti. Mosse soltanto un dito contro il tavolo spingendo la sua tazza più vicina a quella di Patrick, in un gesto familiare che ora sembrava essersi svuotato di qualunque senso.

"E' surreale" disse piano, quasi parlando a se stesso.
"Cosa?"
"Vederti qui. Dopo tutto questo tempo, come se non te ne fossi andato mai."
Avvertì Patrick irrigidirsi senza bisogno di alzare gli occhi. "Hai sempre saputo che sarei tornato."
Pete sorrise amaramente. "Tu hai sempre detto che l'avresti fatto."
"Non esserti fidato abbastanza di me è un tuo problema."
Il dito che spingeva la tazza scivolò d'improvviso, mandando la ceramica a cozzare con un rumore sordo. "Suppongo di sì."

Si alzò di scatto e prese ad ammucchiare velocemente le stoviglie sul vassoio, senza neanche guardarle né guardare realmente nient'altro. Provvidenzialmente, in quell'esatto istante qualcuno entrò nel locale.

"Pete…" sussurrò Patrick, posando una mano sulla sua.
"Scusa, ho dei clienti che aspettano." Sottrasse la mano e gli rivolse un ultimo sguardo, prima di voltargli le spalle e allontanarsi. "Offre la casa."

Rimase dietro il bancone, le mani immerse furiosamente nel congelatore a sistemare un disordine inesistente, fin quando non senti la porta d'ingresso aprirsi e richiudersi lentamente subito dopo.


--


"Allora. Che si fa la prossima estate?"
Ryan sollevò appena gli occhi dai suoi appunti e gettò un'occhiata di traverso a Brendon, che era tornato ad appollaiarsi sullo schienale della panchina blaterando di altezza maggiore e di maggiore apporto di ossigeno al cervello. "Non ci arriveremo vivi, alla prossima estate, se non riusciamo a diplomarci" mugugnò distrattamente, senza smettere di scrivere.
Brendon gettò la testa all'indietro, esasperato. "…dio, Ross, puoi provare a goderti la vita per, non so, trenta secondi? E' l'estate dell'ultimo anno, abbiamo il dovere morale di passarla come si deve!"
"Mh. Idee?"

Un sorriso inquietante si allargò lentamente sulla sua faccia, non facendo presagire niente di buono.

"Ho parlato con Audrey" rivelò, con tono da cospiratore.
Ryan chiuse gli occhi ed emise una sorta di rantolo. "Oh dio, no."
L'amico alzò una mano per zittire le sue proteste. "Senti, non mi importa delle ragioni per cui non la sopporti, okay? Mi ha invitato- "
"…vediamo, forse perché è una che ha come scopo nella vita quello di farselo mettere dentro da chiunque respiri?"
"- mi ha invitato" proseguì, ignorandolo "nella sua casa di Palm Beach."
"Ha una casa a Palm Beach?" chiese Ryan, per nulla impressionato.
Brendon annuì. "E' dei suoi genitori o zii o qualcosa del genere - e gliela lasciano per un mese, quest'estate. Mi ha invitato e mi ha detto di portare chi voglio."
"E se chi vuoi non volesse venire?"
"Ci sarà anche Jaaaac" cantilenò in tono infantile, sporgendosi verso di lui e ridacchiando.
"Brendon."
"Ryan, sono mesi che ti muore dietro - pensi di chiederle di uscire prima di arrivare alla fine del college o cosa?"
"Potresti preoccuparti della tua vita sentimentale invece di pensare alla mia?"
"E' quello che sto cercando di fare. E comunque" ripetè, eccitato "Palm Beach."
"Ho capito" sospirò Ryan.
Brendon scosse la testa e gli sventolò una mano davanti agli occhi. "Nonononono, Ry, focalizza. Palm Beach. Florida. Orlando."
"…Disneyworld?"
"Esatto!" gongolò, trattenendosi a fatica dal battere le mani.

Ryan appoggiò la matita e si arrese, scoppiando in una risata leggera. Il modo in cui Brendon si entusiasmava, il fatto che bastasse un niente per renderlo così genuinamente felice e che non si facesse mai problemi a mostrarlo, era qualcosa che gli aveva sempre invidiato. Ed era la parte di lui che più gli piaceva.

"Questo eviterei di menzionarlo con Audrey, se vuoi avere qualche speranza" suggerì, divertito.
"Per questo devi venire, okay?" ribadì Brendon, passandosi una mano tra i capelli. "Sono sicuro che dirò cose stupide e rovinerò tutto e tu- tu devi impedirmelo."
Ryan fece una smorfia. "Ti ringrazio. E io che credevo di dover venire perché ti avrebbe fatto piacere."
"Che c'entra, questo è scontato" lo zittì l'altro, gesticolando con noncuranza. Si piegò verso di lui, posandogli una mano sulla spalla e spalancandogli davanti due occhioni supplichevoli. "Ho bisogno di te, Ry" lo pregò, sorridendo. "Lo so che non vuoi lasciarmi da solo."

Brendon odorava di zucchero, pensò improvvisamente inspirando l'aria intorno al suo viso. Avrebbe dovuto odorare di dopobarba scadente e vestiti sporchi di due giorni e invece odorava di zucchero. Non gli era ancora chiaro come fosse possibile.

"Non posso" disse freddamente, alzandosi di scatto.
La rapidità del moivmento fece quasi perdere l'equilibrio a Brendon, che dovette sostenersi allo schienale con una mano per evitare di cadere. "Perché?" domandò, spalancando gli occhi.
Ryan prese un profondo respiro, gli occhi ostinatamente fissi a terra. "Perché mia madre potrebbe aver bisogno di aiuto, perché potrei andare da qualche altra parte, perché non ho intenzione di passare il tempo con gente che non sopporto" elencò in tono monocorde.
"D'accordo, uh - vieni per una settimana. Un weekend."
"Brendon, ti ho detto di no."
"Senti, quella casa sarà zeppa di gente, probabilmente non vedrai Audrey nemme-"
Rise forzatamente, interrompendolo. "Certo. Ci penserai tu a tenerla occupata."
Brendon lo fissò, mordendosi inconsapevolmente le labbra. "Non capisco qual è il problema" disse piano, con una nota di incertezza nella voce.
Ryan sospirò. Il legno della panchina scricchiolò in modo quasi sinistro, quando si sedette di nuovo. "Lo so" sussurrò stancamente. "Non ti chiedo di capirlo, solo -" Si interruppe, e Brendon fece per poggiargli di nuovo una mano sulla spalla. La allontanò, toccandola come se scottasse. "- lascia perdere, okay?"
Brendon la rimise dov'era e si chinò cercando il suo sguardo, cocciuto. "Non lascio perdere, Ryan, se ti ho fatto qualcosa, se ti ho-"

Si mosse senza nemmeno rendersene conto, chiudendo gli occhi e smettendo di percepire qualunque cosa attorno a sé. Solo quando il silenzio che li circondava gli penetrò improvvisamente nella testa realizzò che stava davvero baciando Brendon, che aveva le sue labbra immobili e morbide sotto le proprie e una mano aggrappata alla sua guancia. Si scostò così rapidamente che lo schiocco umido tra le loro bocche sembrò rimbombare ovunque e rimase lì senza dire nulla, incapace di distogliere gli occhi.

"…Oh" sussurrò Brendon, sbattendo le palpebre. "E'- è questo il problema?"

Ryan deglutì, afferrò alla cieca il suo zaino e corse via.


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Il viavai della gente non era mai cessato, intensificandosi anzi man mano che il tempo passava. Erano aumentate le persone col naso in aria, in preda a convulse esclamazioni di entusiasmo per l'eclissi che si faceva pian piano sempre più visibile, erano diminuite quelle che sembravano indifferenti, ed erano comparsi persino uno o due santoni con gli occhi spiritati ad urlare che l'apocalisse stava per arrivare e i malvagi sarebbero stati inghiottiti dall'oscurità e i puri di cuore risparmiati, o qualcosa di simile a cui Frank non aveva prestato granché attenzione. Il tutto era terminato con un paio di bambini terrorizzati e urlanti e il ritrovamento di una bustina di funghi allucinogeni provenienti da chissà dove.

"Sai" disse improvvisamente il ragazzo accanto a lui, lo sguardo costantemente fisso sulla parte di disegno che stava ancora terminando "ci sono un sacco di leggende riguardo le eclissi."
Frank annuì interessato. "Ne ho sentito parlare. Non erano considerate un cattivo presagio?"
"Il presagio di una catastrofe, o di una disfatta in battaglia. O della morte di un re."
"Macabro" commentò, cambiando posizione per poter ascoltare meglio.
L'altro si scostò una ciocca di capelli dalla fronte, fissando il marciapiede con sguardo pensoso. "Una leggenda orientale diceva che durante le eclissi un drago divorasse il sole. Per questo ogni popolo cercava di combatterlo come poteva."
"Del tipo?"
"Beh…" Si interruppe, grattandosi il naso con un gessetto senza curarsi della macchiolina azzurra che si allargava sopra la narice sinistra. "In India ci si immergeva nelle acque di un fiume, ad esempio, credendo che questo potesse aiutare il sole a difendersi. Mentre gli antichi cinesi cercavano di spaventare il drago suonando i tamburi, o scoccando frecce in aria."
Frank continuò ad annuire, come di fronte a qualcosa di perfettamente logico. "Chiaro. Più fai casino, più il drago si tiene alla larga."
Il ragazzo rise. "Qualcosa del genere."

Se avesse dovuto usare un aggettivo per descriverlo, pensò Frank, sarebbe stato irreale. Aveva lineamenti strani, aggraziati ma non completamente femminei, che univano rotondità fanciullesche a linee più spigolose, quasi fosse riuscito in un qualche misterioso modo a trattenere un briciolo d'infanzia sul proprio viso tramutandosi in una specie di folletto senza età. Parlava di draghi e battaglie con il tono distante e lontano di chi racconta un sogno, e disegnava angeli sul marciapiede lurido di polvere e cartacce.

"A Tahiti, invece" proseguì all'improvviso, riscuotendolo dai suoi pensieri "si credeva che le eclissi rappresentassero il congiungimento del sole e della luna."
Frank inarcò un sopracciglio. "Congiungimento nel senso-"
"In quel senso, sì."
Ridacchiò della conferma, come fosse stato un bambino. "Questa mi piace di più" dichiarò, prendendo in mano un gessetto e cominciando a giocherellarci.
"Come mai?" chiese l'altro, smettendo improvvisamente di disegnare e voltandosi dalla sua parte.
"…è meno macabra?"
Si sentì scrutare in modo quasi imbarazzante, da occhi a metà tra curiosi e inteneriti. "Sei un romantico."
Gli venne da ridere. "Sono uno che preferisce congiungersi che combattere draghi. C'è qualcosa di sbagliato?"

Il ragazzo lo guardò per un altro istante, poi si sporse lentamente e allungò una mano fino a sfiorare la sua.

"No, direi di no" sorrise, sfilandogli il gessetto dalle dita.


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"Era la tua ragazza?"

Spencer si riscosse improvvisamente, rendendosi conto con un certo imbarazzo di essere rimasto immobile a fissare il proprio cellulare per chissà quanto tempo. Jon trafficava da minuti interi con la sua attrezzatura, controllando e ricontrollando ogni cosa e riempiendo l'aria di tanto in tanto con il click di uno scatto di prova. Lui si era seduto a terra, inforcando gli occhiali e osservando l'ombra dell'eclissi sormontare lentamente il bordo del disco solare, e aveva finito inevitabilmente per cominciare a pensare.

"…scusa. Mi sto di nuovo facendo i fatti tuoi" sospirò Jon scuotendo la testa e sedendoglisi accanto a gambe incrociate.
"Non importa" minimizzò, cercando di toglierlo dall'imbarazzo. "Non esattamente, comunque" aggiunse un istante dopo, a voce più bassa.
Avvertì l'altro scrutarlo con curiosità. "Non era esattamente la tua ragazza?"
"Non era esattamente una ragazza."
Jon sembrò restare interdetto per un secondo, poi annuì. "Okay" disse soltanto.
Si voltò a guardarlo. "Non ti sconvolge?"
"Dovrebbe?" rispose, in tono così genuino che Spencer sorrise senza nemmeno accorgersene.

Si era aspettato che prima o poi qualcun altro li raggiungesse per sfruttare il loro stesso punto di osservazione, ma non era successo; probabilmente, riflettè, erano tutti usciti per tempo in modo da raggiungere un posto più scoperto. Jon era stato una presenza discreta, aveva parlato poco e smesso non appena gli era diventato chiaro che lui non era dell'umore di intavolare una conversazione più brillante. Spencer era semplicemente rimasto a guardare, prima il cielo e poi Jon e poi la strada e poi di nuovo il cielo. Era strano che il silenzio diviso con uno sconosciuto non gli fosse sembrato noioso o imbarazzante nemmeno per un momento.

"Non lo so nemmeno come siamo finiti insieme" disse improvvisamente, stupendosi di avere voglia di parlarne. "Insomma, ci siamo finiti per il sesso, ma" continuò, come rendendosene conto per la prima volta "non so perché siamo rimasti insieme."
"Sempre per il sesso?" suggerì Jon, con un piccolo sorriso.
Non potè evitare di sorridere anche lui. "E' probabile, sì. Ma credevo" si sforzò di trovare le parole "volevo credere che ci fosse qualcos'altro. Anche se in fondo sono stato io il primo a non volersi impegnare."
"Poi cos'è cambiato?"
"Non lo so." Si morse un labbro, pensieroso. "Forse ho cominciato a chiedergli di più perché volevo la prova di-" esitò "di non aver fallito un'altra volta."
"Non l'hai fatto." Alzò gli occhi di scatto, incontrando quelli sicuri e tranquilli di Jon. "Ne parli già al passato. Non puoi aver fallito in qualcosa di cui evidentemente non ti importava."

Lo fissò, e lui sostenne il suo sguardo. Poteva anche darsi che gli stesse credendo solo perché aveva bisogno di farlo, ma era comunque un'alternativa migliore del continuare a inseguire qualcosa che non c'era più.

"Non so nemmeno il suo numero a memoria" rifletté a voce alta, dopo qualche secondo di silenzio. "Non so il suo secondo nome, o…"
"…che tipo di caffè preferisse?" Spencer alzò gli occhi stranito. "E' il punto di non ritorno per una relazione" dichiarò Jon sicuro, e Spencer ridacchiò. "E lui cosa sapeva di te?"
Ci pensò su per un istante. "Più di quanto sapessi io. Ma solo perché sono un idiota." Aggrottò le sopracciglia, fissando un cumulo di nuvole chiare in lontananza. "Sembrava che niente di quello che facevo o - o che ero, gli andasse bene. All'inizio lo trovavo divertente, poi" rise, senza traccia di allegria "è diventato solo triste."
"Cosa non gli andava bene?" domandò Jon quietamente.
Spencer sbuffò, rivivendo la stessa infantile irritazione del passato. "Non gli piaceva che ogni tanto preferissi restare a casa a rileggere Kerouac, invece di uscire. Non gli piaceva che volessi passare del tempo col mio cane, o portarlo fuori anche quando non ce n'era bisogno, per lui era una seccatura. Non gli piaceva che fossi di Las Vegas, dio solo sa perché."

Non disse altro, ricominciando a vagare con lo sguardo lungo la linea frastagliata dell'orizzonte. Si riscosse solo quando avvertì gli occhi di Jon immobili e fissi su di lui. Aspettò che smettesse, ma non accadde.

"…Che c'è?" domandò leggermente imbarazzato, tornando a guardarlo.
"Niente." Jon piegò appena le labbra nell'accenno di un sorriso, il suo sguardo così intenso che Spencer ebbe l'impressione di sentirne la consistenza sulla pelle. "Mi chiedevo come si fa a lasciarsi scappare uno come te."

Prima di dargli il tempo di una qualunque reazione, si alzò e cominciò a sistemare la sua macchina sul cavalletto.


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"Esattamente perché siamo venuti quassù?"

William salì gli ultimi gradini e si fermò in cima alla scalinata di ferro, posando la chitarra in modo che fosse il più stabile possibile e appoggiandosi distrattamente al corrimano. Si perse solo per un istante a contemplare lo scorcio di panorama oltre il vicolo lercio che costeggiava il palazzo, fissando le forme piccole e lontane delle persone sulla strada principale, poi riportò lo sguardo sul ragazzo in piedi accanto a lui. Non era abituato a fare domande, meno che mai a un cliente che pagava così bene; ma quando, dopo aver percorso rapidamente un tratto della via dove si erano incontrati, Gabe aveva svoltato e gli aveva fatto cenno di seguirlo mentre si arrampicava su per una scala antincendio, aveva cominciato quantomeno a incuriosirsi.

"Tu che ne dici?" fu la replica, più divertita che davvero interessata.
"Non lo so." Mosse qualche passo verso di lui, fino a trovarglisi di fronte. Si sporse appena, ancorando un dito alla cerniera della sua felpa e tirandola piano verso il basso. "Ti eccita l'altezza, o" suggerì provocatorio, accennando con la testa alla finestra più vicina "l'idea che qualcuno possa spiarci?"
Gabe sorrise, attendendo che la slacciasse del tutto. "No" disse poi, scostandosi e raggiungendo la parte opposta della piccola balconata, dove una rampa di scale si congiungeva alla successiva. Si sedette a terra, testando con la schiena la resistenza della ringhiera dietro di sé e appoggiandovisi poi cautamente. "C'è una buona visuale."
William lo fissò, vagamente sconcertato. "Scusa, fammi capire - mi hai pagato in anticipo e mi hai portato in culo al mondo per non fare niente?"

Gabe non rispose, limitandosi a continuare a sorridere mentre toglieva il cappello e lo ripiegava alla meglio per poterlo infilare in una tasca. Si passò distrattamente una mano tra i capelli, lasciandola poi a schermare gli occhi dal sole mentre scrutava attentamente il cielo.

William rise quasi istericamente, indietreggiando d'istinto fino alle scale. "D'accordo. Chi sei, mh?" domandò, senza riuscire a nascondere una lieve traccia di tensione nella voce. "Sei, non so, uno di quelli che tolgono le puttane dalla strada, o - o una specie di Richard Gere del cazzo?" Non ottenendo una risposta, si limitò a restare immobile, incrociando le braccia. "O magari un serial killer" ipotizzò, cercando di non prendere troppo seriamente in considerazione quell'idea.
Fu il turno di Gabe di ridere, mentre tornava a guardarlo con una lieve aria canzonatoria. "Non per essere ovvio, ma tu sali nelle macchine di perfetti sconosciuti ogni notte. Non è un po' tardi per avere paura dei serial killer?" Allargò le braccia, incrociandole poi dietro la testa, e il suo sorriso si addolcì. "Dai, vieni qui" disse piano, in tono più serio. "Sono disarmato. Pulito. Puoi controllare."

William si avvicinò di nuovo, diffidente, e gli si inginocchiò lentamente davanti, tra le gambe divaricate. Infilò le mani ai lati del torace, sotto la felpa, e le lasciò scorrere in basso, insinuandole poi al di là della maglietta e raggiungendo il lembo di pelle alla base della schiena, appena sopra l'orlo della biancheria e dei jeans. Gabe si sollevò leggermente per permettergli di passare i palmi anche dietro, e poi per tutta la lunghezza delle gambe, fino in fondo. Frugò nelle tasche della felpa, trovandovi solo il cappello, e poi nel cappuccio. Prese in mano anche gli occhiali da sole che erano agganciati allo scollo della maglietta, ne aprì le stanghe e li esaminò come aspettandosi di trovarci nascosto chissà cosa.

In quel momento, fissando gli occhiali e i colori eccentrici degli abiti e la loro fattura chiaramente costosa, i tasselli si ricomposero all'improvviso nella sua mente.

"Gabe" sussurrò, sbattendo le palpebre. "Tu sei Gabe!"
L'altro inclinò la testa e lo guardò, genuinamente perplesso. "…uh, sì, credevo che questo lo avessimo già stabilito."
"No, tu-" William scosse la testa ridendo, per la prima volta sinceramente. "Ho capito chi sei" spiegò, inspirando con un pizzico di sollievo. "Mi hanno parlato di te."
Gabe gli lanciò un'occhiata incuriosita. "Sul serio? Cosa ti hanno detto?"
Arricciò le labbra ricordando le storie che aveva sentito tempo prima - nient'altro che pettegolezzi da ubriachi che erano circolati nel suo giro, a cui non avrebbe neanche prestato ascolto se più di una persona fidata non glieli avesse confermati. "Che sei un pazzo pieno di soldi che gira per i bar peggiori della città, beve birra scadente e" si fermò, scrutandolo a sua volta con una certa curiosità "che per la maggior parte del tempo vive in un mondo che esiste solo nella sua testa."
"Mh-h" confermò lui, annuendo. "Ed è anche un gran bel posto."
"…ma" proseguì, rimettendo gli occhiali al loro posto e aggiustandoli sullo scollo "che non sei pericoloso."
Gabe sorrise di nuovo, trionfante. "Che ti avevo detto?"

Si concesse di guardarlo negli occhi per qualche istante, studiando da vicino i lineamenti del suo viso e chiedendosi distrattamente come dovesse essere a letto un tipo del genere. Ebbe l'impressione che lui gli avesse letto quel pensiero in faccia quando spostò lentamente le mani per posargliele sui fianchi e attirarselo contro, facendolo voltare; si lasciò guidare docilmente fino a sederglisi tra le gambe, la schiena contro il suo petto, socchiudendo gli occhi per cercare di ripararsi dalla luce del sole. Sbirciando tra le palpebre riuscì a intravedere l'eclissi giunta ormai a buon punto.

"Uh" aggiunse dopo qualche istante, giocherellando con il ciondolo che gli pendeva dal collo legato a un sottile laccio di cuoio "dicono anche che parli con i serpenti."
"Con i cobra." William inarcò un sopracciglio. "Solo con i cobra" precisò Gabe, quasi stesse spiegando una differenza talmente ovvia da non necessitare discussioni. "Non con tutti i serpenti."
Lo guardò stranito. "…Certo, questo fa la differenza" ironizzò, scuotendo la testa.

Gabe rispose scostandogli i capelli, spingendo dietro la testa le lunghe ciocche ondulate in modo che non fossero di impaccio, e affondando il naso contro il suo collo. Tracciò una lenta linea con le labbra dischiuse, tornando subito dopo a mordere piano lungo la scia impercettibile e umida che aveva lasciato; contemporaneamente prese ad accarezzargli le braccia, imponendogli di tenerle ferme mentre ne percorreva la lunghezza con le dita. William non potè frenare un brivido leggero mentre chiudeva del tutto gli occhi e si lasciava toccare, inarcando il collo per permettere alla bocca dell'altro un contatto maggiore.

Quando li riaprì, notò con la coda dell'occhio un ammasso bianco e frastagliato comparire nel suo campo visivo. Si accorse improvvisamente che l'aria era diventata appena più fresca, e che anche i cambiamenti del cielo si facevano via via più percettibili.

"Cazzo" sussurrò, cercando di capire se si stesse muovendo in direzione del sole. "Non lo coprirà proprio adesso?"
Gabe alzò lo sguardo e scrutò il cielo da dietro una mano. "Non credo" asserì. "Manca troppo poco, ormai."
"Parli anche con le nuvole, per caso?" lo prese in giro William, stringendosi istintivamente contro di lui quando furono raggiunti da un refolo di vento.
"Non è la prima eclissi che vedo" rispose l'altro, asciutto. All'occhiata interrogativa che gli venne rivolta, si limitò a scrollare le spalle. "Una delle cose belle dell'essere un pazzo pieno di soldi è che puoi girare il mondo."
"Uh" mormorò William. Come ricordandosene solo in quel momento, si frugò con una certa difficoltà nelle tasche dei jeans e ne trasse un pezzo di vetro oscurato. "Per me lo è, invece" disse soltanto, vagamente incerto.
Gabe lo prese più solidamente tra le proprie braccia. "Allora non posso fartela perdere" gli sussurrò all'orecchio, prendendone subito dopo il lobo tra le labbra per succhiarlo.

Una mano scivolò un istante più tardi sotto la maglia che indossava, accarezzandogli come poteva la pelle del ventre e scendendo poi a frugargli tra le gambe, il palmo che si apriva completamente contro la forma appena accennata dell'erezione saggiandola e torturandola attraverso il ruvido della stoffa. William tentò istintivamente di voltarsi per ricambiare, ma l'altra mano, appoggiata pigramente lungo la sua gamba, glielo impedì stringendogli un ginocchio come avvertimento.

"Non muoverti" ordinò Gabe, la voce roca e carezzevole come velluto. "Continua a guardare."

Gli aprì lentamente bottone e cerniera, intrufolando le dita e cercando di allentare la morsa aderente dei pantaloni e abbassarli quanto bastava per poterlo toccare. Il contrasto tra la mano intorno al suo cazzo che cominciava a stringere e pompare e le labbra che appoggiavano sulla sua fronte baci leggerissimi, impercettibili come battiti di ciglia, gli sembrò qualcosa di irrazionalmente eccitante.

"…questo è il mio lavoro, di solito" articolò, mordendosi le labbra.
Gabe si sciolse in un'altra risata, calda e vibrante contro i suoi capelli mossi appena dall'aria. "Non nel mio mondo" sussurrò.


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"Ryan!"

Strinse le labbra, continuando a camminare senza voltarsi. Aveva raggiunto il lato opposto del parco, oltrepassato la recinzione e imboccato strade a caso, desiderando soltanto mettere quanta più distanza possibile tra sé e il disastro che aveva combinato. Si diede dell'idiota per l'ennesima volta. Era sempre riuscito a tenere le cose sotto controllo da quando tutto era cominciato e aver ceduto così, in un modo tanto stupido e in un momento tanto sbagliato, lo faceva sentire quasi peggio di tutto il resto.

"Ryan, aspetta!" lo chiamò di nuovo Brendon, raggiungendolo.
"Lasciami stare."
Gli si affiancò, tenendo il suo passo. "Era quello il problema?" domandò, la voce spezzata da un accenno di fiatone.
"Ti ho detto di lasciarmi stare."
"Era quello il problema?" insistè.
Ryan si fermò di colpo, fronteggiandolo infuriato. ", era quello, okay?" gli rovesciò addosso con voce stridula. "Dio, perché vuoi farmi sentire più stupido di quanto non mi senta già?"
"Perché non è un problema!" strillò quasi Brendon, afferrandogli un braccio nell'istante in cui stava per riprendere a camminare. Prima di poter reagire si sentì prendere per un polso e trascinare nel vicolo più vicino, dietro un pericolante ammasso di scatoloni lasciati lì da chissà chi. Brendon gli tolse di mano lo zaino e lo lasciò cadere a terra insieme al proprio, spingendolo contemporaneamente con la schiena contro il muro. Ryan lo vide deglutire nervosamente e accostarsi a lui. "Non è un problema" ripetè, soffiandogli le parole quasi sulle labbra.

Non poteva essere reale, si disse Ryan, doveva essere una fantasia, di quelle che arrivavano di notte e restavano chiuse nella sua mente e tra le lenzuola bagnate del suo letto e sparivano al mattino. Non poteva essere reale perché Brendon era troppo vicino, il suo profumo tutto intorno a lui, e stava guidando le sue mani sui propri fianchi e allacciando le braccia attorno al suo collo e premendo insieme le loro fronti fino a farle combaciare. Gli prese il labbro inferiore tra i denti solo per un istante, come se stesse sperimentando un gioco nuovo, e prima che Ryan potesse accorgersene se lo stava attirando addosso, in un bacio disordinato e umido e in un groviglio di mani e dita che si scontravano ansiose di toccare tutto e tutto insieme.

Brendon aveva anche il sapore dello zucchero, si ritrovò a pensare confusamente mentre assaggiava ogni angolo della sua bocca, e per una volta non se ne stupì - era così perfettamente logico che non avrebbe potuto essere altrimenti.

Si staccarono dopo un tempo che nessuno dei due avrebbe saputo quantificare con precisione, la fronte di Brendon ancora appoggiata alla sua. "…Dovresti essere più chiaro quando vuoi qualcosa, Ross" gli bisbigliò, con una risatina.
"…più chiaro?" boccheggiò Ryan, risentito. "Sentiamo, quando avrei dovuto dirtelo, mentre cantavi le lodi delle tette di Audrey? O quando urlavi nei corridoi che chiunque volesse uscire con te poteva lasciarti il suo numero alla fine delle lezioni?"
Le labbra di Brendon si curvarono in un sorrisetto furbo. "Ho detto chiunque, no?" Ryan non trovò nulla da ribattere e si limitò a una smorfia. Brendon gli accarezzò una guancia, tornando serio. "E di Audrey non mi importa. Non mi importa davvero, era solo una come un'altra." Abbassò gli occhi, leggermente a disagio. "Una qualunque che non fossi tu."
Ryan scosse la testa. "Io non pensavo-" cominciò, senza riuscire a terminare la frase.
Brendon annuì per dirgli che non c'era bisogno di andare avanti. "Lo so" disse piano, poi scoppiò improvvisamente a ridere, felice. "Non lo pensavo nemmeno io."

Si sporse per posargli un altro bacio sulle labbra, e Ryan sorrise appena.

"Non sono mai stato con un ragazzo" mormorò poi, quasi parlando a se stesso.
Brendon si morse leggermente un labbro. "Io non sono mai stato con nessuno" confessò, a voce bassissima. "Non- non seriamente, ecco" aggiunse in fretta, abbassando lo sguardo.
Ryan spalancò gli occhi. "…con nessuno?"
Il piccolo broncio imbarazzato che comparve sulle labbra di Brendon lo fece immediatamente sentire in colpa. "Non ti stupirebbe, se avessi dei genitori come i miei" borbottò.
Ryan gli sollevò il viso tra le mani. "Ehi" disse lentamente, scuotendo deciso la testa. "Non mi importa. Non me ne importa niente. Vuol dire che sarò il primo."

Brendon sorrise, timido come non l'aveva visto mai. Lo baciò di nuovo, accoccolandoglisi addosso quanto più poteva, una mano che stringeva senza alcuna ragione la stoffa del davanti della sua maglietta facendolo somigliare a un gattino aggrappato al tronco di un albero. Ryan lo lasciò fare, accarezzandogli lentamente la schiena e salendo poi a farsi passare i suoi capelli tra le dita. Mentre lo sentiva abbandonare le sue labbra e nascondergli la testa contro una spalla, sospirando di contentezza, gli occhi gli caddero sullo spicchio di cielo visibile oltre il loro riparo e oltre la penombra del vicolo. La luce era cambiata innaturalmente, e l'azzurro stava lentamente virando verso colori diversi.

"Credo" disse Ryan a bassa voce, affascinato "che stia iniziando qualcosa."
Brendon rise dolcemente accanto al suo collo. "Lo credo anch'io."
Lo scosse appena, tirandogli i capelli sulla nuca per fargli alzare la testa. "No, Bren, intendevo…" chiarì, accennando verso l'alto con il mento.
Brendon seguì la direzione del suo sguardo e spalancò gli occhi. "Oh" sussurrò.


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In qualunque altro giorno dell'anno, pensò Pete, quella scena sarebbe potuta apparire leggermente assurda a chi si fosse trovato a guardarla. Ma in quel momento, nella strada ormai ingombra di una folla con gli occhi fissi verso un unico punto, una selva di giornalisti e telecamere in giro e l'entusiasmo generale che serpeggiava fino a divenire quasi tangibile, nessuno gli prestava grande attenzione mentre percorreva di corsa il marciapiede, i vestiti spiegazzati e il grembiule ancora addosso, scansando persone ed evitando per miracolo di travolgerne altre. Il pomeriggio si avviava a diventare una sera improvvisa, il cielo che si faceva più scuro ogni istante che passava, e lui si era fiondato fuori dal locale lasciando la porta spalancata con il rischio di poter trovare di tutto al suo rientro. Ma ci avrebbe pensato dopo.

Si fermò di colpo appena lo vide, con indosso un paio di quei buffi occhiali in cartoncino che la gran parte degli osservatori stava usando. Si fece largo in un capannello di gente, mormorando una sequenza automatica di 'scusi' e 'permesso' fino a quando non fu a pochi passi da lui.

"Vuoi sapere la verità?" Patrick abbassò lo sguardo e lo vide. Tirò giù gli occhiali per poterlo guardare, confuso, e prima che potesse parlare Pete lo anticipò. "Non sto uscendo con nessuno. Hemmy mi ha ignorato per un mese dopo che te ne sei andato. E - e ieri ho incastrato un calzino nella lavatrice e ora ha smesso di funzionare."

Rimase a guardarlo implorante, incapace di continuare. Lo vide distogliere lentamente gli occhi dai suoi, incerto sul da farsi, finchè un nuovo coro di urla da parte della folla non glieli fece alzare nuovamente verso l'alto.

"Patrick" chiamò, quasi disperatamente.
L'altro strinse le labbra, con uno sbuffo esasperato. "Pete, non so se te ne sei accorto, ma sta succedendo qualcosa di abbastanza unico."
"E' di questo che parlo!" insisté, con una lieve nota isterica nella voce. Patrick tolse lentamente gli occhiali e Pete coprì la distanza che li separava e gli si fermò davanti, cercando il suo sguardo. "Tu sei la cosa più unica che mi sia mai successa" disse lentamente, deglutendo. "E io - io credo di essere almeno tra le prime dieci successe a te. Anche se sono un idiota."

Patrick rimase a fissarlo senza parlare, e Pete desiderò improvvisamente poter annullare il tempo, cancellare quegli ultimi mesi e tornare a quando era in grado di leggere in quegli occhi senza bisogno di parole. Abbassò lo sguardo ma non si mosse, aggrappato ostinatamente a quell'ultima speranza come un bambino capriccioso, fissando l'asfalto che si tingeva di ombre diverse a ogni nuovo secondo.

Trasalì quando fu Patrick a farglielo rialzare, posandogli delicatamente due dita sotto il mento e aprendo poi la mano contro la sua guancia, costringendolo a incontrare i suoi occhi. Sorrise leggermente e Pete lasciò andare un respiro che non sapeva di aver trattenuto, chiudendo gli occhi e appoggiandogli la testa contro il palmo, cercandone il contatto quasi fosse l'unica cosa in grado di sostenerlo. Patrick lo abbracciò lentamente, facendogli poggiare la fronte sulla sua spalla, in un gesto abitudinario che avevano condiviso da sempre.

"…Un calzino?" domandò quietamente dopo qualche istante di silenzio, trattenendo un sorriso.
Pete riaprì gli occhi e lo guardò, incerto sull'espressione da avere. "Quell'affare mi odia" borbottò alla fine, poggiandosi con la testa contro la sua.
Patrick rise, arruffandogli i capelli con una mano. "Sono queste le cose per cui mi sei mancato."


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Non c'erano parole, immagini o resoconti che potessero davvero preparare alla visione del giorno che si tramutava in oscurità nel giro di un istante. Lungo l'orizzonte e sopra i tetti della città si stendeva un nero uniforme e cupo, rotto soltanto dalla circonferenza sfavillante della corona solare. Per un istante, prima della totalità completa, la luce aveva brillato attraverso un ultimo spiraglio, creando l'effetto di un diamante incastonato nel buio. L'entusiasmo di tutti aveva raggiunto l'apice.

Spencer tolse gli occhiali e sbattè le palpebre, sentendosi come se fosse piombato nel mezzo di un sogno. Si appoggiò alla balaustra con le mani e si sollevò istintivamente in punta di piedi, come cercando di guardare il più da vicino possibile.

"Jon, se non ti sbrighi riuscirai a vederla solo attraverso l'obiettivo" lo esortò, senza preoccuparsi di voltarsi dalla sua parte.
Jon annuì freneticamente mentre scattava una foto dopo l'altra. "Arrivo" disse concitato, preparandosi a impostare l'autoscatto. "Solo un'altra e arrivo."

Fu al fianco di Spencer in pochi istanti, lo stesso stupore riflesso sui suoi lineamenti. Rimasero immobili e silenziosi per lunghi secondi, entrambi incapaci di distogliere gli occhi.

"E'…" sussurrò Spencer, scoppiando subito dopo in una risata entusiasta "…è incredibile, io non…"
"Sì" mormorò Jon affascinato, la voce religiosamente bassa quasi stesse assistendo a una cerimonia. "Sai, ho sentito più di una persona raccontarlo, ma non - non pensavo che mi avrebbe fatto sentire così."
"Così strano?" domandò Spencer, sorridendo appena.
"Così piccolo."

Lo vide consultare rapidamente il cronometro che aveva al polso, per poi tornare a guardare in su. La luce strana e bassissima di quel momento illuminava appena i contorni del suo profilo, conferendogli un'aria distante che per qualche ragione gli si addiceva perfettamente. Spencer pensò all'improvviso che era bello.

"Pensavo" lo risvegliò Jon, guardandolo di sottecchi per un breve istante "che potresti venire a bere qualcosa da me, domani." Si fermò, spiando la sua reazione. "Consideralo un risarcimento per il disturbo."
Spencer abbassò rapidamente gli occhi, per poi alzarli di nuovo verso la volta del cielo. Le loro mani, strette attorno al metallo freddo della ringhiera, erano l'una accanto all'altra. Sarebbe bastato poco più di un centimetro perché arrivassero a sfiorarsi. "Magari tra qualche giorno" disse cautamente, ma senza traccia di tristezza nella voce.
"Quando vuoi" rispose Jon annuendo, con un sorriso tranquillo. "Bussa sul muro, così saprò che sei tu."

Spencer gli sorrise in risposta, e rimase ad aspettare che si facesse di nuovo giorno.


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Il cielo si rischiarò poco alla volta così come si era scurito, passando nuovamente dalle tonalità cupe della notte a quelle limpide del giorno. William inspirò a pieni polmoni mentre si rilassava contro il corpo di Gabe, il languore dell'orgasmo ancora recente che acuiva la sensazione di irrealtà nella quale era sprofondato. Chiuse gli occhi, accarezzando per un istante l'idea assurda di restare lì - in quella specie di alba fuori programma, tra le braccia di uno sconosciuto fuori di testa che l'aveva fatto godere come un ragazzino e non aveva ancora voluto niente in cambio - e dimenticarsi di tutto il resto.

Giocherellò con quel pensiero, rigirandoselo in testa per una manciata di secondi. Poi, prendendo un lento respiro, strinse le labbra e si chinò per risistemarsi i pantaloni.

"Tempo scaduto" disse con voce piatta, in risposta all'occhiata interrogativa che avvertiva dietro la propria testa.
Gabe lo squadrò ironicamente. "Sbaglio o hai delle tariffe sopra la media?"
"E' giorno ed è pieno di gente, ho già rischiato troppo." Si ripulì come meglio poteva con un fazzoletto, gettandolo poi con noncuranza in un angolo. Fece per lisciarsi addosso la maglietta e si morse inconsapevolmente le labbra nel sentirsi in tasca il rigonfio delle banconote. "Però" propose, cercando di mantenere la voce il più indifferente possibile "se vuoi qualcos'altro e hai una stanza dove portarmi…"
Gabe scosse lentamente la testa. "Non voglio portarti da nessun'altra parte."
"…Che diavolo vuoi, allora?" domandò, spazientito.
"Che resti ancora qui."
William lo guardò, guardò l'espressione impassibile della sua faccia e si chiese se era possibile che parlasse sul serio. "No" rispose soltanto.

Si sciolse dal suo abbraccio e si sollevò sulle ginocchia, lottando contro i jeans per riuscire ad allacciarli. Si fermò improvvisamente quando avvertì il sole aumentare d'intensità, filtrando attraverso le sbarre di ferro della ringhiera e disegnando su di loro un buffo ghirigoro di luci e ombre. Si passò una mano tra i capelli per ravviarli e un minuscolo accenno di sorriso gli curvò le labbra senza una ragione precisa.

Fece per alzarsi ma Gabe glielo impedì, allacciandogli le braccia attorno alla vita. "Vieni via con me, stanotte" disse sottovoce, guardandolo negli occhi.
William sbattè le palpebre, per poi scoppiare in una risata divertita. "Via dove?"
Gabe sorrise appena, senza smettere di fissarlo. "Non lo so. Via." Alzò un dito per posarglielo sulla punta del naso, scendendo a tracciare una linea immaginaria e fermandosi sulle labbra. "In un altro mondo."
"Non sai nemmeno come mi chiamo" obiettò William, allontanando il dito e catturandogli la mano nella propria per tenerla ferma.
Gabe scrollò le spalle con una smorfia noncurante. "Posso sempre chiamarti Julia."

Rise di nuovo, il pensiero di prima che cambiava lentamente forma - andare via, con uno sconosciuto fuori di testa che farneticava di mondi che non esistevano riuscendo quasi a fargli credere che fossero reali - e tornava a farsi strada nella sua mente. Scosse la testa e fece per ritrarre la mano, ma Gabe gliela afferrò nuovamente e si sporse avvicinando la bocca alla sua. William piegò istintivamente il viso di lato, sfuggendogli prima che potesse arrivare a sfiorarlo.

"Conosci le regole" sussurrò, divincolandosi lentamente e appoggiando la mano libera sulla sua spalla per potersi rialzare.
Gabe fece finta di pensarci su. "No" dichiarò poi, sorridendo innocentemente. William roteò gli occhi esasperato, trattenendogli le dita tra le sue mentre si rimetteva in piedi. Posò un rapido bacio sulle nocche e si voltò, recuperando le sue cose senza dargli il tempo di dire altro.

"Ci vediamo" sentì mormorare dietro di lui, e fu irrazionalmente certo, anche senza guardare, che il sorriso di prima fosse sempre al suo posto.

Mise la chitarra in spalla e imboccò le scale, il sole che gli riscaldava le spalle e lo sguardo di Gabe che ancora lo accarezzava.


--


La folla aveva cominciato lentamente a sciamare, l'eccitazione che andava via via spegnendosi per tornare a un entusiasmo più quieto e privo ormai della frenesia dell'attesa. Chi aveva visto era ansioso di raccontare, chi incredibilmente non c'era riuscito congetturava di raggiungere in fretta questo o quel posto e recuperare prima che l'eclissi lasciasse definitivamente la costa est. Frank si sentiva fortunato per aver visto, e divertito da come solo la natura, con i suoi giochi di prestigio, riuscisse a trasformare una città intera in una chiassosa massa di bambini festanti.

"E' finita" disse quietamente, tornando a schermarsi con la mano dai raggi del sole e osservando tra le dita il disco solare riaffiorare sempre più nettamente da dietro l'ombra.
"Già" annuì il suo compagno, lo sguardo fisso nella stessa direzione. "Il drago se n'è andato" commentò, in tono quasi solenne.
"O il sole e la luna hanno terminato la pausa pranzo."
L'altro rise e distolse lo sguardo per posarlo su di lui. "…Tutto sommato preferisco anch'io la tua versione, sai?"

Frank lo guardò sedersi di nuovo a terra e passare qua e là il dito sul dipinto ormai completo per sfumare leggermente alcune macchie di colore.

"Chi è?" chiese curioso, riferendosi al santo.
"Non lo so. Non ha importanza, per me." Il ragazzo alzò gli occhi verso i suoi. "E' un santo convinto di trovarsi di fronte ad un miracolo. Spaventato da quello che non conosce." Contemplò la figura quasi con tenerezza, tracciandone il bordo con un dito sospeso a mezz'aria. "A volte le cose che ci sembrano incomprensibili, o impossibili da raggiungere, sono più vicine di quanto possiamo immaginare."

Frank rimase fermo a guardarlo, senza sapere esattamente cosa dire.

"Devo andare" disse l'altro gentilmente qualche istante dopo. Si alzò e radunò i gessetti e il resto dei suoi attrezzi riponendoli in una vecchia borsa di tela.
"Aspetta" lo bloccò, nel momento in cui stava per allontanarsi. "Almeno dimmi dove ti troverò la prossima volta" si interruppe, esitando "Gee."
Il ragazzo si voltò, ripercorrendo la distanza che li separava e arrivandogli davanti. "Gerard" disse, sorridendo.
"Gerard" ripetè Frank, deglutendo leggermente.

Lo osservò frugare nella borsa e tirarne velocemente fuori qualcosa. Poi, senza smettere di sorridere, si sporse ad appoggiargli un bacio piccolissimo e asciutto sulla bocca, infilandogli contemporaneamente qualcosa tra le dita. Frank si accorse di quanto la vicinanza lo rendesse più reale, riuscendo a fargli avvertire le sue labbra screpolate e l'odore pungente che emanava - tutte cose che da lontano non aveva mai notato.

"Sembra che tu riesca a trovarmi ovunque vado" mormorò Gerard, allontanandosi da lui un passo alla volta. "Continua a cercare."

Frank chiuse gli occhi, stringendo forte la mano attorno all'oggetto che l'altro vi aveva premuto. Quando li riaprì per guardare si accorse che era un gessetto dalla punta spezzata, lo stesso che gli aveva rubato prima. Sorrise tra sé e lo strinse di nuovo fino a sbriciolarne un pezzo in una nuvola di polvere colorata, macchiandosi le dita.

Gerard era già scomparso, inghiottito dal viavai di persone che ancora ingombravano quel tratto. Frank si voltò e si incamminò nella direzione opposta, lungo il marciapiede inondato di sole.


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Credits/Note:

- titolo e citazione in apertura da Streetsigns and sidewalks dei Remember Maine (la one man band sotto il cui pseudonimo William Beckett ha pubblicato un album come solista prima di formare i TAI), che è anche la canzone che William canta nella fic.
- l'eclissi a cui mi sono ispirata in linea generale è quella che interesserà gli USA il 21 agosto 2017, di cui potete vedere qui il percorso di totalità (= l'area in cui durante la totalità si farà buio); la storia però è ambientata idealmente nel presente e si svolge a Chicago, che rispetto al percorso si trova parecchio più a nord.
- l'idea iniziale per il plot è nata guardando il video di The racing rats degli Editors ♥
- i luoghi che Frank e Gerard menzionano nella prima scena esistono davvero e sono tutti nella stessa zona (dio benedica Google Maps ♥), a parte forse il bowling che non so se ci sia da quelle parti perché me lo sono inventato random :°D
- il dipinto che Gerard riproduce sul marciapiede è del pittore tedesco Cosmas Damian Asam, risale al 1735 circa e pare sia la prima rappresentazione realistica di un'eclissi totale. Il santo raffigurato, per la cronaca, è San Benedetto.
- le leggende sulle eclissi sono riprese in modo vergognoso da questa pagina. Ehi, non sapevo come mandare avanti la scena erano suggestive, okay? '':° *fischietta*
- non è sommamente importante diciamo pure che non frega a nessuno, ma tanto perché lo sappiate e perché mi va di dirvelo Patrick è stato via per uno stage al Berklee College di Boston (dovrebbe essersi intuito che studia musica e vuole diventare un produttore, o comunque lavorare in quel campo). Non ho idea se sia possibile che prendano per uno stage uno che non ha studiato lì per millemila anni, ma voi fate finta che lo sia *annuisce con convinzione* e poi è Patrick, cioè, chi non lo vorrebbe? \O/
- Audrey e Jac sono Audrey Kitching e Jac Vanek, note scene queens e rispettive ex ragazze di Brendon e Ryan, mentre (anche se non viene detto esplicitamente) l'ex ragazzo di Spencer è Brent Wilson, primo bassista dei Panic.
- il subplot Gabe/William è chiaramente una sorta di omaggio a Pretty Woman, al quale ci sono riferimenti vari più o meno espliciti :P
- PUBBLICITA' PROGRESSO: nonostante io mi sia presa qualche libertà qua e là o abbia convientemente glissato interrompendo la narrazione quando mi faceva comodo '':°, ricordate che nella realtà è possibile osservare un'eclissi a occhio nudo SOLO durante la fase di completa totalità (= quando si fa buio), se questa avviene; durante la fase di parzialità e finchè la totalità non è completa è bene utlizzare SEMPRE dei filtri adeguati quando si guarda verso il disco solare, ad esempio occhiali da saldatore con indice di protezione elevato (quelli che usano Jon e Spencer) o appositi occhialini da eclissi che montano lenti di materale specifico adatto allo scopo (quelli che usa Patrick), e NON vetri affumicati o semplici occhiali da sole (come fanno quei cazzoni di William e Gabe). Morale della favola: se vi capita di vedere un'eclissi non affidatevi alle fanfic, ma informatevi come si deve e i vostri occhi vi ringrazieranno :P

Risposte alle recensioni: rispondo sempre, qui in fondo alla storia: quindi se recensite poi ripassate a leggere la risposta, se vi va :P

echelon1985: (1985, sei del mio anno *W*) ti ringrazio tanto, non sai quanto mi ha fatto piacere il tuo commento ;_; sono felice di essere riuscita a raccontare tante cose diverse e a darti tante emozioni ♥ Ancora grazie mille :*
fragolasabry: ma grazie :D se ti riferisci alle canzoni del fanmix non sono stata io a scegliere ma chi ha fatto il fanmix per me :P mentre Streetsigns ovviamente è stata una mia scelta, ho trovato che si adattasse benissimo al tema dell'eclissi *W* Un bacio ♥
  
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