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Autore: Elkade    13/12/2009    3 recensioni
Ecco come Giovanni Auditore e suo fratello Mario sono stati iniziati al Credo degli Assassini...
Genere: Introspettivo, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non so come, ma mi sembra che il tempo scorra sempre più veloce. Gli anni volano rapidi e inclementi, corrono come cavalli selvaggi, fuggono per mai più tornare. Eppure ricordo come fosse ieri la mia gioventù. Mi sorprendo a vedere i miei figli già grandi, Federico ed Ezio soprattutto, e ad accorgermi di quanto poco io abbia fatto perché seguissero le mie orme. Non li ho mai davvero iniziati al Credo, e non so se lo farò mai. Non voglio che diventino come me, che vivano come vivo io, sempre a nascondersi e a fuggire, a mentire persino alla propria famiglia, a rischiare tutto per combattere una guerra che non hanno iniziato e che forse non sentirebbero loro, una guerra che potrebbe non finire mai: voglio che restino sereni e spensierati come lo sono ora, da ragazzi. Ma in fondo glielo devo, devono sapere chi sono in realtà. Non è giusto che per tutta la vita conoscano solo una maschera del loro padre, e non chi è veramente. Ma forse è necessario che anche loro dimostrino di essere degni di diventare Assassini, prima di divenire tali.

Io e Mario avevamo la loro età quando fummo iniziati al Credo, ma non direttamente da nostro padre. Ricordo che quando Mario compì i diciotto anni ricevemmo una visita da parte di vecchi amici di famiglia. Nostro padre fu molto felice del loro arrivo, e fu per lui quasi come incontrare di nuovo dei familiari.

Quel giorno io e Mario eravamo come sempre arrampicati sul tetto di casa, tanto per far arrabbiare nostra sorella, che odiava quel nostro “comportamento da saltimbanchi”. Ci definiva “piccioni sul trespolo”. Dal canto mio adoravo sentirla strillare stizzita, e prenderla in giro, da bravo fratello minore e zecca qual ero. Da parte sua, Mario sembrava far di tutto per incitarmi a ignorare i rimproveri di Lisa, e a seguire l’esempio del primogenito, ovviamente lui. Avevo una ammirazione troppo grande per Mario per dare retta a Lisa.
Mio fratello propose una gara. Avremmo dovuto arrivare fino alla porta di Monteriggioni correndo solo sui tetti. Chiunque altro ci avrebbe dato quantomeno degli incoscienti, ma almeno eravamo giovincelli. E pensare che nonostante gli anni quest’abitudine non è cambiata… Ciò che poteva sorprendere era che nostro padre ce lo lasciasse fare senza nemmeno un rimprovero, ma allora non avevamo idea che anche quello fosse una sorta di addestramento. Ci lanciammo giù dal tetto, dritti nel carro di fieno sottostante, uscendone poi pieni di paglia ovunque, ma non ce ne curammo. Scendemmo in fretta la scalinata della villa, per poi lanciarci velocemente alla scalata della prima casa. Quando fummo giunti in cima entrambi, la nostra competizione ebbe inizio. In quanto ad agilità eravamo quasi alla pari, forse potevo reputarmi più agile perché non ero che un adolescente mingherlino e ancora in crescita. In compenso, Mario aveva un equilibrio migliore del mio, e i suoi salti decisamente più lunghi. Balzando di tetto in tetto, di balcone in balcone, di tegola in tegola, con la grazia di gatti ci muovevamo con maestria persino sulle corde per i panni, con la spensieratezza di chi sa volare. Al termine del percorso, col fiato corto, ci gettammo in un’ammucchia di foglie secche, ci rialzammo e raggiungemmo il più in fretta possibile la porta. La toccammo nel medesimo istante. Scoppiammo a ridere, la schiena contro la parete.
«Oh Giovanni, sai mica chi è quella?» Mi bisbigliò Mario accennando ad una ragazza che osservava attenta un giovane pittore all’opera. Non ricordavo di averla mai vista, non certo a Monteriggioni. Occhi del colore del cielo limpido, boccoli dorati, il viso dolce da bambina e un fisico dalle forme decisamente più adulte. Scossi il capo, ben poco cosciente e incapace di pronunciare anche solo un monosillabo. Un leggero colpetto sulla nuca mi ridestò dal mio sogno ad occhi aperti. «Non dormire, fratellino. Chi dorme… non piglia donne!» Sghignazzò Mario prima di lasciarmi solo e partire all’attacco. Io mi scrollai di dosso paglia e foglie, pronto a sostituirlo non appena lei lo avesse cacciato via. Ero certo che lo avrebbe fatto. Aveva l’aria di uno spaventapasseri, come diceva nostra sorella, non poteva sperare di far colpo. Mario fece una riverenza alla fanciulla, che appena lo vide scoppiò a ridere: «Mario, come vi siete conciato!». Entrambi restammo interdetti. Come poteva una straniera conoscere il suo nome? Decisi di avvicinarmi e fare buon viso a cattivo gioco: «Bentornata madamigella. Cosa vi riconduce a Monteriggioni?». Lei non fece in tempo a rispondermi, che comparve una grande ombra scura proiettata sopra la mia. Mi voltai istintivamente, trovandomi di fronte un individuo alto e nerboruto, con capelli, barba e sopracciglia folti e scuri, occhi glaciali e una cicatrice che gli solcava la guancia sinistra. Indietreggiai, mentre Mario mi imitava. Era una figura decisamente inquietante. Lo vidi sollevare le grandi mani ed abbassarle su me e mio fratello. Con nostra grande sorpresa, tutto ciò che ci attendeva era una pacca sulla schiena. Da togliere il fiato, ma una semplice pacca amichevole. «Ma tu guarda, i fratelli Auditore! Quanti anni sono trascorsi dall’ultima visita?» Latrò l’uomo, all’apparenza felice di incontrarci. Nella mia mente iniziò a farsi spazio qualche ricordo vago, ma ancora troppo debole perché potessi assegnare un nome a quelle figure. «Messere, che vi porta nella nostra umile cittadina?» Cercò di salvarmi Mario. L’uomo sfoderò un largo sorriso, conducendoci lungo la strada principale in direzione della villa, seguito dalla ragazza che doveva essere la figlia: «Sono venuto a trovarvi, naturalmente! Sono anni che non vedo né voi, né vostro padre, e ci siamo messi d’accordo per lettera per incontrarci. Non ne sapevate nulla?». Fortunatamente, nostra madre era in giro per Monteriggioni e la incrociammo sul nostro cammino, in compagnia di una donna della sua età e di un ragazzo poco più grande di me. Fu grazie a lei se riuscimmo ad evitare una ben misera figura. Li accolse con un abbraccio caloroso, quasi si trattasse di membri della nostra stessa famiglia.
Arrivati a casa, finalmente ricevemmo spiegazioni. L’uomo con la cicatrice si chiamava Pietro de’Liberi, ed era un amico di vecchia data di mio padre. Le nostre famiglie, ci dissero, erano legate da più di un secolo, nonostante fossero geograficamente molto distanti, noi Auditore a Monteriggioni e i de’Liberi a Premariacco, molto più a nord.
Quella sera ci radunammo davanti al camino, in tre gruppi distinti, i miei genitori con Pietro e sua moglie Anna, Lisa con Valentina, la figlia di Pietro, e io e Mario con Andrea, il primogenito de’Liberi. Giuro di non aver mai visto mio fratello così assente, lo sguardo fisso solo su Valentina e ben poco attento ai discorsi del nostro ospite. In compenso, io rivolgevo la mia attenzione solo ad Andrea. Era un personaggio davvero insolito. Era più giovane di mio fratello, ma la sua altezza era di molto superiore, come anche la sua stazza. In quanto a spalle decisamente non c’era confronto, in quello era degno figlio di suo padre. Aveva l’aria di chi è avvezzo ad indossare armature, e a combattere. Anche il suo viso era sfregiato, appena sotto l’occhio sinistro. In compenso i suoi abiti erano di buona fattura ed eleganti, che ingentilivano quel suo aspetto da guerriero. Parlando con lui seppi inoltre che stava studiando per diventare notaio, il che mi sorprese molto. Il detto “non giudicare un libro dalla copertina” era più azzeccato che mai in quel caso.
Dopo un po’ mio padre e Pietro si alzarono e riscossero Mario dai suoi pensieri. De’Liberi teneva in mano una scatola in legno squadrata, con incisioni e decorazioni in oro. Doveva contenere qualcosa di molto prezioso. «Dobbiamo parlarti, figliolo» Disse sorridendo Pietro mentre aiutava Mario ad alzarsi. Vidi i tre attraversare la sala e scomparire nella biblioteca. Ebbi l’impulso di seguirli, ma non mi parve il caso di impicciarmi. Se non ero stato chiamato anche io uno motivo doveva pur esserci…

   
 
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