Non so come, ma mi sembra che il tempo scorra sempre più veloce. Gli anni volano rapidi e inclementi, corrono come cavalli selvaggi, fuggono per mai più tornare. Eppure ricordo come fosse ieri la mia gioventù. Mi sorprendo a vedere i miei figli già grandi, Federico ed Ezio soprattutto, e ad accorgermi di quanto poco io abbia fatto perché seguissero le mie orme. Non li ho mai davvero iniziati al Credo, e non so se lo farò mai. Non voglio che diventino come me, che vivano come vivo io, sempre a nascondersi e a fuggire, a mentire persino alla propria famiglia, a rischiare tutto per combattere una guerra che non hanno iniziato e che forse non sentirebbero loro, una guerra che potrebbe non finire mai: voglio che restino sereni e spensierati come lo sono ora, da ragazzi. Ma in fondo glielo devo, devono sapere chi sono in realtà. Non è giusto che per tutta la vita conoscano solo una maschera del loro padre, e non chi è veramente. Ma forse è necessario che anche loro dimostrino di essere degni di diventare Assassini, prima di divenire tali.
Mio fratello propose una gara.
Avremmo dovuto arrivare fino alla porta di Monteriggioni correndo solo
sui
tetti. Chiunque altro ci avrebbe dato quantomeno degli incoscienti, ma
almeno
eravamo giovincelli. E pensare che nonostante gli anni
quest’abitudine non è
cambiata… Ciò che poteva sorprendere era che
nostro padre ce lo lasciasse fare
senza nemmeno un rimprovero, ma allora non avevamo idea che anche
quello fosse
una sorta di addestramento. Ci lanciammo giù dal tetto,
dritti nel carro di
fieno sottostante, uscendone poi pieni di paglia ovunque, ma non ce ne
curammo.
Scendemmo in fretta la scalinata della villa, per poi lanciarci
velocemente
alla scalata della prima casa. Quando fummo giunti in cima entrambi, la
nostra
competizione ebbe inizio. In quanto ad agilità eravamo quasi
alla pari, forse
potevo reputarmi più agile perché non ero che un
adolescente mingherlino e
ancora in crescita. In compenso, Mario aveva un equilibrio migliore del
mio, e
i suoi salti decisamente più lunghi. Balzando di tetto in
tetto, di balcone in
balcone, di tegola in tegola, con la grazia di gatti ci muovevamo con
maestria
persino sulle corde per i panni, con la spensieratezza di chi sa
volare. Al
termine del percorso, col fiato corto, ci gettammo in
un’ammucchia di foglie
secche, ci rialzammo e raggiungemmo il più in fretta
possibile la porta. La
toccammo nel medesimo istante. Scoppiammo a ridere, la schiena contro
la
parete.
«Oh Giovanni, sai mica chi è
quella?» Mi bisbigliò Mario accennando ad una
ragazza che osservava attenta un
giovane pittore all’opera. Non ricordavo di averla mai vista,
non certo a
Monteriggioni. Occhi del colore del cielo limpido, boccoli dorati, il
viso
dolce da bambina e un fisico dalle forme decisamente più
adulte. Scossi il
capo, ben poco cosciente e incapace di pronunciare anche solo un
monosillabo.
Un leggero colpetto sulla nuca mi ridestò dal mio sogno ad
occhi aperti. «Non
dormire, fratellino. Chi dorme… non piglia donne!»
Sghignazzò Mario prima di
lasciarmi solo e partire all’attacco. Io mi scrollai di dosso
paglia e foglie,
pronto a sostituirlo non appena lei lo avesse cacciato via. Ero certo
che lo
avrebbe fatto. Aveva l’aria di uno spaventapasseri, come
diceva nostra sorella,
non poteva sperare di far colpo. Mario fece una riverenza alla
fanciulla, che
appena lo vide scoppiò a ridere: «Mario, come vi
siete conciato!». Entrambi
restammo interdetti. Come poteva una straniera conoscere il suo nome?
Decisi di
avvicinarmi e fare buon viso a cattivo gioco: «Bentornata
madamigella. Cosa vi
riconduce a Monteriggioni?». Lei non fece in tempo a
rispondermi, che comparve
una grande ombra scura proiettata sopra la mia. Mi voltai
istintivamente,
trovandomi di fronte un individuo alto e nerboruto, con capelli, barba
e
sopracciglia folti e scuri, occhi glaciali e una cicatrice che gli
solcava la
guancia sinistra. Indietreggiai, mentre Mario mi imitava. Era una
figura
decisamente inquietante. Lo vidi sollevare le grandi mani ed abbassarle
su me e
mio fratello. Con nostra grande sorpresa, tutto ciò che ci
attendeva era una
pacca sulla schiena. Da togliere il fiato, ma una semplice pacca
amichevole.
«Ma tu guarda, i fratelli Auditore! Quanti anni sono
trascorsi dall’ultima
visita?» Latrò l’uomo,
all’apparenza felice di incontrarci. Nella mia mente
iniziò a farsi spazio qualche ricordo vago, ma ancora troppo
debole perché
potessi assegnare un nome a quelle figure. «Messere, che vi
porta nella nostra
umile cittadina?» Cercò di salvarmi Mario.
L’uomo sfoderò un largo sorriso, conducendoci
lungo la strada principale in direzione della villa, seguito dalla
ragazza che
doveva essere la figlia: «Sono venuto a trovarvi,
naturalmente! Sono anni che
non vedo né voi, né vostro padre, e ci siamo
messi d’accordo per lettera per
incontrarci. Non ne sapevate nulla?». Fortunatamente, nostra
madre era in giro
per Monteriggioni e la incrociammo sul nostro cammino, in compagnia di
una
donna della sua età e di un ragazzo poco più
grande di me. Fu grazie a lei se
riuscimmo ad evitare una ben misera figura. Li accolse con un abbraccio
caloroso, quasi si trattasse di membri della nostra stessa famiglia.
Arrivati a casa, finalmente
ricevemmo spiegazioni. L’uomo con la cicatrice si chiamava
Pietro de’Liberi, ed
era un amico di vecchia data di mio padre. Le nostre famiglie, ci
dissero,
erano legate da più di un secolo, nonostante fossero
geograficamente molto
distanti, noi Auditore a Monteriggioni e i de’Liberi a
Premariacco, molto più a
nord.
Quella sera ci radunammo davanti
al camino, in tre gruppi distinti, i miei genitori con Pietro e sua
moglie
Anna, Lisa con Valentina, la figlia di Pietro, e io e Mario con Andrea,
il
primogenito de’Liberi. Giuro di non aver mai visto mio
fratello così assente,
lo sguardo fisso solo su Valentina e ben poco attento ai discorsi del
nostro
ospite. In compenso, io rivolgevo la mia attenzione solo ad Andrea. Era
un
personaggio davvero insolito. Era più giovane di mio
fratello, ma la sua
altezza era di molto superiore, come anche la sua stazza. In quanto a
spalle
decisamente non c’era confronto, in quello era degno figlio
di suo padre. Aveva
l’aria di chi è avvezzo ad indossare armature, e a
combattere. Anche il suo
viso era sfregiato, appena sotto l’occhio sinistro. In
compenso i suoi abiti
erano di buona fattura ed eleganti, che ingentilivano quel suo aspetto
da guerriero.
Parlando con lui seppi inoltre che stava studiando per diventare
notaio, il che
mi sorprese molto. Il detto “non giudicare un libro dalla
copertina” era più azzeccato
che mai in quel caso.
Dopo un po’ mio padre e Pietro si
alzarono e riscossero Mario dai suoi pensieri. De’Liberi
teneva in mano una
scatola in legno squadrata, con incisioni e decorazioni in oro. Doveva
contenere qualcosa di molto prezioso. «Dobbiamo parlarti,
figliolo» Disse
sorridendo Pietro mentre aiutava Mario ad alzarsi. Vidi i tre
attraversare la
sala e scomparire nella biblioteca. Ebbi l’impulso di
seguirli, ma non mi parve
il caso di impicciarmi. Se non ero stato chiamato anche io uno motivo
doveva
pur esserci…