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Autore: _Garnet915_    14/12/2009    7 recensioni
Guarigione. Un concetto che può apparire tanto semplice. Ma per alcuni è una ripida strada di montagna che sembra non offra alcun sentiero sicuro. Percorrerla da soli sembra una tortura. Ma forse con qualcuno accanto, una sicurezza può essere trovata. {NOTA: il titolo della storia è lo stesso di una canzone incisa in Giappone e dedicata al pairing Inuyasha/Kagome - lo stesso principale di questa fic - Questo, però, non significa che la storia sia una sorta di song-fic}
Genere: Generale, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Inuyasha, Kagome, Kikyo, Sango
Note: Alternate Universe (AU), OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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11. Ima dare no sashizu mo ukenai ~ We won’t accept what anyone tells us


Quel martedì mattina, Kagome aspettava la lettera di dimissioni per poter tornare a casa, per poter allontanarsi da quell’inferno racchiuso entro quattro mura bianco panna. I farmaci le avevano causato febbre alta e nausea continua, ma non se la sentiva proprio di passare più tempo del dovuto in ospedale.


Vedeva appena il medico consegnare la tanto agognata lettera a sua madre e l’infermiera sbrigare con cura tutta la trafila di chiusura: staccò i tubi della macchinetta da quelli del cvc, lo eparinò e lo richiuse dopo averlo medicato. Per tutto il tempo, si limitò ad osservare in silenzio tutta la scena: i rumori le arrivavano alle orecchie come ovattati, era ancora molto intasata per via della febbre e ciò le provocava non poco sollievo. Non le andava di sentire la voce della madre mentre parlava con il medico, le arrivava appena il loro vociare ed era sufficiente per renderla leggermente nervosa. Tuttavia, era troppo stanca per reagire, per urlare o dimenarsi…


“Ma non è rischioso dimetterla in queste condizioni?” esclamò la madre della ragazza, preoccupata


“Così vuole sua figlia” fu la risposta semplice e lapidaria del dottor Suzuki


“E’ tutto come al solito, se fosse grave la tratterremmo qui comunque, lo sa. Dopotutto, è ancora minorenne e l’ultima parola non spetta certo a lei.”


“Appunto, spetterebbe a me! E io non me la sento di…”


“Se sua figlia se la sente” Suzuki la interruppe


“Ed è qualcosa di realizzabile, preferirei ascoltarla. Lei è la madre, d’accordo, su questo non si discute. Ma è Kagome la paziente, bisogna cercare di seguire i suoi ritmi, nel limite della ragionevolezza. E la sua richiesta di andare a casa oggi è ragionevole.” e, detto questo, si diresse verso la porta fermandosi una volta posata la mano sull’uscio.


“Non è lei che dovrebbe passare un altro paio di giorni su un letto d’ospedale” sentenziò, senza nemmeno voltarsi.


“Rifletta bene su questo” e se ne andò.





Presidenza del liceo A. Inuyasha era stato convocato dal preside per un colloquio veloce di riepilogo; niente di insolito, due chiacchiere con un nuovo studente. Idea del consiglio d’istituto giusto per assicurarsi che gli nuovi studenti non potessero diventare dei grattacapi quella di controllarli una volta ogni tanto. Non era una cosa che al preside allettava molto fare, gli sembrava di stringere un po’ troppo il cappio attorno al collo dei ragazzi, ma non poteva farci niente. O aveva qualche ragazzino contro, o un intero consiglio. E, onestamente, preferiva essere sbranato dalla prima opzione.


Si schiarì la voce come vide il ragazzo sedersi sulla sedia posta di fronte alla sua scrivania, schiena eretta e mani sulle ginocchia, in perfetta posizione.


“Allora, Taisho. Ti stai ambientando bene in questa scuola? Ormai, sono passate quasi tre settimane dal tuo arrivo” la voce piccola e sottile del preside arrivò appena alle orecchie di Inuyasha, per nulla stupito o sconvolto da quella convocazione improvvisa.


“Sì, certo. Mi sto ambientando decisamente bene. Non ho alcun genere di problema con i professori, per il momento” fu la sua risposta pacata.


“E con i compagni? Anche con loro tutto bene?”


“Anche” si limitò a dire, facendo spallucce. Non poteva certo dire di aver stretto chissà quale rapporto di amicizia con qualcuno in sole tre settimane, no?


No?


“Il professore responsabile della tua classe mi ha riportato ciò che vi siete detti durante il tuo colloquio di orientamento della settimana scorsa. So che lavori per pagarti l’affitto di una stanza…” disse senza nascondere la sua riluttanza all’idea. Era pur sempre un ragazzo di sedici anni, l’idea che non abitasse con i suoi genitori e che dovesse lavorare - e quindi sottrarre ore allo studio - non era così comune e facile da accettare.


“Sì è vero” Inuyasha non attese la domanda del preside, era così ovvia.


“Un’amica della famiglia di mia madre abita da sola, è una vedova in pensione e aveva una stanza libera per me. Voleva lasciarmela gratuitamente, ma non volevo approfittarne. Sono stato io ad insistere per versarle qualcosa e contribuire alle spese della casa. L’idea di stare gratis in una casa non mia, perché è di questo che si sarebbe trattato alla fine, non mi allettava.” si stava infastidendo un po’, non gli andava a genio parlare di sé.


“Dove lavori?” continuò imperterrito l’uomo e Inuyasha trattenne a stento uno sbuffo di noia.


“Per un paio di settimane ho lavorato come commesso in un negozio in centro a Tokyo, appena trasferitomi, ma ero stato assunto solo per prova e, al termine, il padrone mi ha messo alla porta. Non era me che cercava. Ora sono aiutante presso un tempio shintoista e lavoro tutti i pomeriggi fino al venerdì e il sabato e domenica mattina.”


Il preside si lasciò sfuggire un’espressione di stupore sentendo gli orari di lavoro del ragazzo e, soprattutto, vedendolo esporli come se fosse la cosa più naturale del mondo: Inuyasha era un lavoratore instancabile, lo si vedeva chiaramente. Certo, lui non faceva nulla né per nasconderlo né per negarlo, ma lavorare tanto a sedici anni non era certo una vergogna, soprattutto in quei tempi.


“Beh, non posso che complimentarmi con te. Il tuo lavoro non sembra interferire con il percorso scolastico e il tuo rendimento. Non dimenticarti che è quest’ultimo il più importante; non faccio prediche a nessuno, ma vorrei che tu tenessi bene in mente questo. Certo, in tre settimane non si può giudicare tantissimo, bisogna stare con i piedi per terra, ma quello che abbiamo per ora ci basta.” rendicontò, schiarendosi diverse volte la voce.


“Ecco, senti… se mi permetti, vorrei sapere come mai abiti proprio con un’amica di tua madre. Dov’è lei? E tuo padre?”


Bene…


Era proprio quella, la domanda che voleva e doveva evitare. Non voleva sentirla da nessuno, né da un conoscente stretto né da un estraneo.


“Mi scusi, ma la risposta implica spiegazioni di fatti privati e ancora irrisolti. Preferirei non parlarne” e si sforzò per non mandarlo al diavolo. Del resto, cosa poteva saperne lui? Che colpe poteva avere se, ogni volta, ricordare sua madre e suo padre lo faceva sentire… così?


Non era il genere di risposta che si aspettava, ma non insistette. Erano pur sempre questioni private e lesse negli occhi di Inuyasha che stava dicendo la verità, non voleva sviare nessuno, solo lasciar perdere.


Cercò di allentare un po’ la tensione creatasi.


“Scusami Taisho, non ho intenzione di trattenerti ancora a lungo. Solo un’ultima curiosità: presso quale tempio lavori?”


“Al tempio Higurashi”


“Ah, allora, sarai sicuramente aggiornato più di me sulla salute della nipote del sacerdote, Higurashi Kagome! E’ in classe con te, giusto?” il preside sembrava quasi entusiasta e la cosa non sfuggì ad Inuyasha.


A dire la verità, era sempre pieno di lavoro al tempio e non aveva ancora fatto in tempo ad incrociare Kagome da quando l’aveva vista sfogarsi contro la madre. Quella settimana, poi, non era nemmeno a scuola: suo nonno gli aveva accennato ad un febbrone da cavallo che la teneva inchiodata a letto e gli aveva consigliato di non andare a trovarla in camera sua. “Mia nipote non è molto socievole o carina quando sta male, non ti conviene avvicinarla! Can che abbaia non morde e lei ti assicuro che fa entrambe le cose!” ci aveva scherzato su l’anziano.


Eppure, quella risposta serafica non l’aveva convinto molto: Kagome nascondeva qualcosa, persino un cieco l’avrebbe visto.


Lui voleva sapere cosa.


E quella curiosità lo mandava nel pallone: lui, così riservato e restio a parlare di sé e del suo passato che voleva sapere del passato di qualcun altro. Di qualcuno così terribilmente simile a lui e, allo stesso tempo, terribilmente diverso. Non gli era mai capitato di provare una curiosità quasi morbosa verso qualcuno, al punto da spingerlo a pensarci continuamente anche mentre studiava o lavorava.


Il pensiero di Kagome Higurashi già lo tormentava da quando l’aveva conosciuta, senza motivo: da quando l’aveva vista sotto una nuova luce, lei lo tormentava ancora più di prima.


“Puoi andare Taisho.” la voce del preside lo riportò alla realtà.


Il ragazzo si alzò, fece l’inchino come saluto e si apprestò ad uscire; ma, ancora una volta - forse davvero l’ultima - il preside lo bloccò e lo stupì:


“Un solo consiglio Taisho, a proposito di Higurashi: non ascoltare le voci sul suo conto. Di nessun tipo e da nessuna persona.”


Inuyasha, senza voltarsi, uscì dalla presidenza chiudendo velocemente le porte scorrevoli. Rimase immobile al centro del corridoio, portandosi una mano dietro la nuca, sempre più perplesso.


Era un tormento continuo: il viso sorridente che cela lo sforzo sovraumano di non piangere, l’alone di tristezza che circonda la sua figura, il suo passato che tutti - chissà come e chissà cosa esattamente - sembravano conoscere, la sfuriata alla madre, quelle strane voci già giunte anche a lui su ipotetiche sfuriate al preside e a dei ragazzi del terzo anno, le parole del preside e, soprattutto, le parole di Kikyo… Quelle parole così vaghe e depistanti… non poteva chiedere direttamente a Kagome la soluzione di quel puzzle.


Cosa ti succede, Kagome?


Cosa mi succede, Kagome?






La vibrazione del cellulare la riportò nel mondo reale, strappandola a quello onirico. Si portò una mano alla fronte dolorante, maledicendo chiunque avesse avuto la malsana idea di mandarle un messaggio o farle uno squillo sul cellulare in quel momento, con una tempistica davvero degna di nota.


Ma chi cavolo è…?


Senza nemmeno poggiarsi sui gomiti per alzarsi un po’, cercò con lo sguardo se il telefono rientrava nel suo campo visivo, per poterlo prendere senza sforzi. Quando scoprì che non era così, si lasciò scappare un grugnito di dissenso, innervosendosi.


Maledizione.


Scostò il suo piumone con un gesto secco e nervoso e subito fu avvolta dall’aria fredda della sua stanza: un brivido le percorse la schiena, dal basso verso l’alto, nel momento in cui la sollevò dal materasso arrivando fino alla testa, pelata.


In un attimo, si era già dimenticata perché si era sciolta dall’amorevole abbraccio del suo piumone, del suo cellulare e al nervosismo si sostituì la bramosia verso la parrucca. La sua solita, odiata parrucca, posta con cura sulla testa di polistirolo che troneggiava fiera sul comò.


Fece per alzarsi in piedi ma, colpevoli la febbre e le vertigini, le gambe non la ressero e si ritrovò per terra nel giro di tre secondi.


Ma che cazzo!


Se prima poteva dire di aver freddo, da quel momento poteva addirittura affermare di congelare: il parquet era a dir poco ghiacciato e lei, per quanto si sforzasse, non riusciva a mettersi almeno seduta.


Un brivido alla schiena, poi un altro ancora…


Un formicolio improvviso alle braccia e alle mani…


La testa sul punto di esplodere…


Decise di non arrendersi: iniziò a procedere a tentoni con le braccia, piegando prima la destra, poi la sinistra, alternativamente, trascinando con sé il resto del corpo che, per chissà quale cazzo di capriccio assurdo, tremava e basta, non collaborava.


Il suo ragionamento, per quanto stupido e dettato dal nervosismo, era dannatamente semplice: avrebbe avuto quella parrucca a costo di strisciare per terra.


Strisci come i vermi?


Avanzò gattonando verso il comò, verso la parrucca non senza una punta di amarezza.


Ma guardati…


Strisci come i vermi perché non ti senti le gambe?


Strisci come i vermi perché hai i brividi alla schiena che ti impediscono di metterti seduta?


Tu strisci perché sei come i vermi…


Strisci perché sei patetica…


Strisci perché sei troppo orgogliosa per chiamare qualcuno e chiedere aiuto.


Perché se chiedi aiuto, chi potrebbe arrivare?


Tua madre?


O forse… Inuyasha?


E ci speri anche, vermiciattola?



La sua mente corse veloce alle persone al piano inferiore: sua madre era a casa, aveva preso un giorno di permesso dal lavoro poiché doveva accompagnare a casa la figlia dall’ospedale; suo nonno stava lavorando al negozio del tempio senza sosta: un paio d’ore prima era salito da lei per informarla che Inuyasha aveva chiesto di lei. Quella notizia, ovviamente, l’aveva fatta sobbalzare nel letto…


“Cosa devo dirgli?”


“Niente di che. Ho la febbre, non voglio vedere nessuno. In fondo è la verità, no?”



Inuyasha…


Non voleva vederlo, non in quello stato: era dal giorno della sfuriata a sua madre che non si vedevano e lei moriva dalla voglia di poter parlare con lui. Ma la tempistica era un’altra variante della vita che, a quanto pare, aveva sottoscritto un contratto con la sfiga per mettere i bastoni tra le ruote a Kagome. Entrambi non erano andati in gita, Kikyo - che considerava una presenza un po’ fastidiosa se abbinata ad Inuyasha, ormai - invece sì; dall’altra parte, però, c’era stata la settimana di ricovero che l’aveva ridotta ad uno straccio e ancora doveva riprendersi. Non esisteva proprio farsi vedere da lui in quelle condizioni, aveva visto già troppo, sapeva già troppo…


Un colpo di tosse fermò la sua patetica avanzata.


No dai…


Era sdraiata a pochi passi dal comò, col braccio disteso poteva quasi afferrarne una delle gambe: cercò di avvicinarsi ancora un poco ad essa per poter aggrapparsi e sollevarsi in qualche modo. E raggiungere il suo scopo, la parrucca.


Un altro movimento a tentoni e un altro ancora: al terzo, però, venne bloccata da un crampo al braccio destro. Si abbandonò sul fianco sinistro, nel tentativo di distendere in aria il braccio e placare quel dolore, ma altri colpi di tosse glielo impedirono.


Che ti succede, vermiciattola?


La parrucca è praticamente lì, non la vedi?


Su prendila!





Ah, no, scusa, che stupida!


Come fai a vederla da terra?


Da quella posizione patetica?



Gli occhi iniziarono a bruciarle: era la febbre? O erano lacrime?


Su forza, cosa aspetti?


Alzati, no?



Cercò di alzare la testa e braccia in direzione del comò.


La vista iniziò ad appannarsi.


Poi, improvviso, un conato di vomito.


Un colpo di tosse.


Altro vomito.


E infine il buio.





Kagome era svenuta per la febbre: furono la madre e il nonno a trovarla per terra, senza sensi. L’uomo era rientrato in casa dal tempio per chiedere un favore alla figlia quando sentì dei rumori simili a colpi di tosse provenire dal piano superiore. Il suo buon senso, ovviamente, gli impose, figlia al seguito, di andare a controllare se fosse successo qualcosa alla nipote. La rimisero a letto velocemente e rimasero entrambi con lei fino al suo risveglio.


Quando aprì gli occhi, provò l’istinto irrefrenabile di richiuderli immediatamente, la luce le dava un fastidio terribile. Sentiva appena il cuscino sotto la sua testa e la stoffa del piumone tirata fin sopra le sue spalle; aveva ancora una nausea tremenda e, se non fosse stato per il fatto che sua madre si era accorta delle chiazze di vomito per terra e si fosse premunita dal bagno con un catino, probabilmente avrebbe imbrattato tutto il piumone non appena sveglia. Continuò a vomitare per cinque minuti buoni, con sua madre accanto che la reggeva dal davanti e suo nonno che le cingeva dolcemente le spalle con le sue mani solcate dalle rughe. Era circondata dall’affetto dei suoi familiari, persino sua madre non le dava fastidio quanto la nausea che la attanagliava.


Ma lei si sentiva in colpa.


Perché, in quel trambusto, tutto quello che pensava era ringraziare il cielo che Inuyasha stesse lavorando in quel preciso momento e che non fosse lì ad assistere a quella scena, ad assistere a quella sua debolezza, a quel suo lato di sé che intendeva proteggere ad ogni costo.


Dopo quel pomeriggio, suo nonno aveva deciso di fare i conti con la testardaggine della nipote: le impose l’obbligo di chiamarlo per ogni singola sciocchezza che le passava per la testa, a costo di strapparlo al lavoro, altrimenti avrebbe trattato con sua madre una punizione che probabilmente nemmeno la demenza senile di cui avrebbe potuto soffrire da ottant’anni a quella parte le avrebbe fatto dimenticare.


Un po’ le era servito, essere tenuta sotto controllo. Aveva passato tutto il mercoledì a letto a riposare, con la parrucca nel caso ne avesse avuto bisogno, il cellulare e una teiera piena in bella vista sul comodino, a praticamente cinque centimetri dalla sua faccia. Si era annoiata molto, avrebbe letto volentieri qualche libro: odiava studiare, ma leggere qualsiasi genere anche solo vagamente lontano da quello scolastico era per lei una delle fonti principali di relax. Ma il nonno era stato tassativo anche su quello: nessuno sforzo di alcun genere, si stava riprendendo dagli effetti collaterali della chemioterapia. Ogni ora, poi, giusto per essere tranquillo, Jii-chan si recava di persona a controllare Kagome, oppure mandava Sota in ricognizione per far compagnia alla sorella se lui non poteva proprio lasciare il tempio. La ragazza non poté aiutare il fratello con i compiti, sempre per ordine del nonno, ma almeno qualche intervallo dalla noia le era concesso.





L’inflessibilità del nonno stava avendo i suoi frutti, dal punto di vista fisico.


Il giovedì seguente si svegliò a mattinata inoltrata - erano le dodici e venti stando al suo orologio - senza quel terribile senso di nausea che le aveva attanagliato lo stomaco per tutte quelle ore. Avvertiva ancora un forte mal di testa e le vertigini le facevano compagnia, ma il termometro non le aveva dato segni di febbre.


L’inflessibilità del nonno non stava avendo i suoi frutti, dal punto di vista di controllo della testardaggine.


Quella mattina, Kagome si sentiva decisamente meglio e non avrebbe decisamente retto un’altra giornata noiosa sotto le coperte a fare assolutamente niente. Tra l’altro, si era svegliata nel peggiore dei momenti: suo fratello era a scuola, sua madre al lavoro - quindi, non poteva nemmeno ingegnarsi in qualche modo per evitarla - suo nonno pure, quindi nessuno poteva farle un po’ di compagnia. Leggere ancora non poteva: non serviva il divieto del nonno, alla fine della fiera, capiva da sé che lettura e mal di testa era un’accoppiata stridente.


Rimase alcuni minuti seduta sul letto, con le coperte tirate fin sui fianchi a rigirarsi i pollici e a trovare una scusa per fare qualsiasi cosa e, con sua grande gioia, la trovò nella teiera completamente vuota.


Ecco, a volte il mal di gola serve a qualcosa!


pensò giuliva, mentre scuoteva il container di metallo, accertandosi che il livello del thé fosse effettivamente pari a zero. Aveva la scusa per uscire dalla sua stanza e questo le bastò non tanto per sollevarle il morale, ma almeno per distrarla.


Si alzò piano dal letto, combattendo con i residui di vertigini e controllando di poter stare in piedi e camminare senza troppi intoppi.


Cavoli, stare allettati una settimana ti distrugge, peggio che le lezioni di fisica…


Si mise un golfino di lana color panna sulle spalle, la parrucca in testa e, dopo aver aperto le finestre per permettere all’aria fredda di dicembre di entrare nella stanza quanto bastava, scese in cucina a piccoli passi, reggendo la teiera con entrambe le braccia, nemmeno pesasse una ventina di chili. Una volta giunta a destinazione, sciacquò e preparò la teiera sul fornello, lo accese e attese che l’acqua iniziasse a bollire.


In quei minuti di attesa, si guardò attorno portandosi le braccia al petto e sfregandosele: ma i termostati erano accesi in quella casa? A quel punto, tanto valeva respirare un po’ d’aria buona e non lamentarsi per qualche spiffero proveniente da fuori.


Si fiondò, alla sua velocità, verso il tinello e da lì alla porta d’ingresso: la aprì senza prima fermarsi per cambiare le sue pantofole di spugna con gli zoccoli in legno che indossava sempre quando usciva in giardino e attraversò la soglia di casa reggendosi saldamente allo stipite non appena la luce del sole decise di darle fastidio agli occhi.


Era una luce strana, però: d’accordo, era pur sempre dicembre, ma mezzogiorno era passato da poco. Come mai il sole era già così basso? E, soprattutto, perché picchiava direttamente contro la porta d’ingresso? In genere, raggiungeva quella posizione in tardo pomeriggio. Si grattò la fronte, stordita, le mancava qualche passaggio.


Riguardò il suo orologio da polso: le tre e venti.


Le tre e venti? Ma che cavolo sta… Ma non era mezzogiorno? Ma che?


E, mentre si stropicciava gli occhi, una voce maschile la riportò alla realtà:


“Ehi!”


Nonostante il suo evidente stordimento di base, riconobbe molto bene quella voce.


Ma cosa?


E’ mattina… è mattina, no? Non dovrebbe essere a scuola?



Non fece nemmeno in tempo ad alzare il viso dal polso e reagire che si ritrovò la figura di Inuyasha ad alcuni metri da lei, intento a spazzare la cima degli scaloni, vestito con il classico kimono bianco e azzurro da lavoro. Un’altra cosa che notò subito in lui fu l’espressione del viso: era per lei, a metà tra il contento e l’incuriosito.


“Kagome, hai bisogno di una mano?”


Nessuna risposta da parte sua: connetteva a malapena e Inuyasha era la persona che più aveva occupato i suoi pensieri in quei giorni e che, allo stesso tempo, meno si aspettava di trovarsi davanti. Anzi, meno sperava: poteva aspettarselo col cavolo, visto che lei lì ci abitava e lui ci lavorava.


“Devo chiamare tuo nonno?”


Lui si avvicinò, iniziando a preoccuparsi seriamente, mentre lei continuò a tacere.


“Io…” esitò un attimo, prima di chiedere ancora


“Io non posso fare niente?”


Ecco, fu quella la domanda che sciolse lo stupore della ragazza e le sue riserve nei suoi confronti.


“Ma… ma tu… non dovresti essere a scuola? Che ci fai… qui… a quest’ora…?” si limitò a chiedere, indicando il suo orologio da polso.


A quella domanda, Inuyasha non riuscì a non ridacchiare: aveva risposto ad una domanda con una domanda ed era una cosa che a lui, in genere, non andava giù. Ma era quel suo fare spaesato che gli era piaciuto e che lo aveva fatto ridacchiare, senza cattiveria.


“Ma a scuola ci sono già stato oggi. Sono le quattro e un quarto all’incirca di giovedì pomeriggio, è del tutto normale che io sia qui. Ci lavoro.”


“Come, pomeriggio?!” urlò, senza rendersene conto e portandosi una mano alla testa.


M-ma no, è… è impossibile, non possono, non può… oh… oh mio…


Guardò di nuovo l’orologio


Ma che cavolo di ore ho letto prima?!


Avvampò, consapevole di aver appena fatto una signora figuraccia: nel leggere l’ora, aveva confuso per ben due volte la lancetta delle ore con quella dei minuti! Aveva letto dodici e venti, quando in realtà erano le quattro e poi, ancora, aveva confuso le tre e venti con le quattro e un quarto!


Oh mio Dio.


Fu solo in quel momento che la sua situazione le fu del tutto chiara: poco le importava di essere stordita da far paura persino a Sadako (la protagonista del film “The Ring” - ovviamente mi riferisco alla versione giapponese. NdA), di morire di freddo perché indossava solo un pigiama e un golfino e che la febbre così poteva salire di nuovo.


Era di fronte ad Inuyasha.


A casa sua.


In un momento di vulnerabilità.


Le tornò in mente l’episodio della sfuriata con sua madre: non voleva essere vista un’altra volta con la sua vera faccia, già non voleva essere vista con il volto reso paonazzo dalla febbre e dall’imbarazzo. Era tesa come una corda di violino, un solo passo falso e lui avrebbe potuto scoprire qualcos’altro.


Alcyna… hai bisogno di qualcosa?”


Kagome lo guardò terrorizzata, mentre lui si avvicinava ancora a lei: non era il suo essere sempre più vicino a spaventarla, oh no.


Era quello che stava per dire.


Era quello a spaventarla.


“Ecco, no… io volevo solo prendere… una boccata d’aria, prepararmi un thé… sai, ho la gola molto secca…”


No, cosa fai?


“Però, ecco vedi…”


Vuoi stare zitta?


“Sì, insomma, già che ci sono… già che ti ho visto…”


Taci!


“Insomma… sì… ti va una tazza di thé?”


Te sei partita per la tangente, cogliona…


“Sarei una cafona…” e ridacchiò, nervosa


Ecco, ora sì…


“A non offrirtela…”


Brava…


“Sì… no… cioè…” le mani iniziarono a tremarle.


Sospirò, senza più capire quale strano meccanismo collegava testa e voce.


“Scusa, non avrei dovuto dire…” si interruppe un secondo


“Scusa… Scusa, che stupida…”


Sì, hai detto bene.


Stupida.



“Stai lavorando” e ridacchiò ancora


“Se ti allontani per colpa mia, finiresti sicuramente nei casini.”


Hai finito con gli smielamenti scemi? Sei ridicola!


Kagome fece per entrare in casa, confusa, ma qualcosa la trattenne per il polso: la mano di Inuyasha, che aveva lasciato cadere a terra la scopa di bambù e rami secchi con cui stava lavorando.


“Beh…” iniziò lui


“E’ vero, forse adesso, in questo preciso istante, ora, nel momento stesso in cui sto parlando” disse con tono scherzoso, riuscendo a farla ridere


Ridacchiò a sua volta


“Forse adesso sarebbe un casino…”


Hai sentito il ragazzo?


“Però alle sei e mezzo finisco di lavorare. Va bene lo stesso?”





La risposta del ragazzo l’aveva sorpresa al punto da non ricordarsi come cavolo fosse finita in cucina, seduta con la faccia nascosta tra le mani, piegata in avanti verso la superficie del tavolo, intenta a mettere ordine tra i pensieri della sua testa dolorante, lasciati lì alla rinfusa.


Tu sei una psicolabile.


Andare in panne per così poco.



Si alzò di scatto, dandosi un paio di schiaffi e tornò alla teiera, che aveva lasciato a bollire decisamente a lungo, troppo a lungo. La mise a raffreddare sotto l’acqua fredda del lavello, la pulì di nuovo e poi la lasciò ad asciugare per i fatti suoi; si risedette sulla sedia di prima, sospirando.


Non voleva pensarci troppo, non voleva ricordare che, se era così sconvolta, non era tanto per la risposta in sé quanto per l’aver corso il rischio di mostrarsi in un momento di vulnerabilità. Certo, le cose non erano come l’altra volta, ma lei rimaneva pur sempre su un sottile filo in tensione che divideva il suo vero io da Inuyasha e, nei momenti di debolezza, restare in equilibrio su quel filo era davvero difficile.


C’era da dire che, sempre rispetto a quella volta, il risultato dell’incontrare Inuyasha era stato diverso. E uguale. Lui le aveva sorriso premuroso, come quando l’aveva presa in braccio, in quello era identico. Era lei ad aver reso il tutto diverso: per una volta, stava solo pensando a come si sentiva, a cosa provava e non a conseguenze su conseguenze dell’incontrare piuttosto che il non incontrare e il come incontrare.


Che gran casino, eh?


Sì, era tutto un gran casino.


Cominciava anche a capire il perché di tutto quel casino; ma ancora non voleva attribuire un nome concreto a quel “perché”





Quando Inuyasha arrivò in cucina, già cambiato dai vestiti lavorativi, annunciandosi con un “permesso” appena sussurrato, Kagome aveva già preparato due tazze di thé fumanti e un vassoietto ricolmo di biscotti al cioccolato e secchi.


Come la vide, non poté fare a meno di abbozzare un sorriso.


“Ehi, Alcyna!


Nemmeno Buddha o Dio potevano sapere quanto Kagome adorava quel nomignolo, pronunciato con dolce ironia.


“Avresti potuto aspettarmi per preparare, ti avrei dato volentieri un aiuto!” le disse mettendole una mano sulla fronte.


“Scotti, hai ancora la febbre.” disse serio


“Chissà che casotto non mi hai combinato nel preparare tutto!” stavolta la punzecchiò.


L’atmosfera che si era subito creata piacque molto a Kagome: scherzosa, leggera, senza troppi convenevoli.


“Ma no, tranquillo!” rispose serissima


“Certo, è stato molto difficile ricordarsi come si fa ad ingoiare una tachipirina grossa così. Però, ti assicuro che una volta passato questo difficile scoglio è stato tutto molto più semplice! Tutto in discesa!” sospirò con tono scemo


Risero entrambi.


Era vero, ad ogni modo. Prendere l’antibiotico stava avendo i suoi effetti: aveva preso quello che doveva prendere, all’ora giusta, e si era messa ad aspettare che Inuyasha finisse di lavorare in salotto, accoccolata sul divano con la televisione accesa e una coperta di pile sulle gambe.


Si misero a sedere l’uno di fronte all’altra, iniziando a sorseggiare lentamente la loro bevanda e a sgranocchiare alcuni biscotti.


Si scambiarono poche parole: come va a scuola, come va al lavoro, come va la febbre, chissà come sta andando la gita ai nostri compagni… affrontarono giusto questi come discorsi seri, il resto fu soprattutto un continuare a scambiarsi occasionali battutine e frecciatine sull’essere in grado o meno di leggere l’ora - cosa che si imparava in seconda elementare - o sull’associare le facce delle persone alle facce dei pupazzi. E così via…


Furono soprattutto i loro occhi a parlare, a sostituire le loro voci, a sostenere quell’atmosfera e a renderla incredibilmente viva e rumorosa nel suo lineare silenzio. Rimasero assieme una ventina di minuti, all’incirca, dei quali quasi quindici furono occupati dal silenzio, ma sia per Kagome che per Inuyasha furono i venti minuti più incredibili mai passati con qualcuno.


Lei non sentiva la voce della sua coscienza insultarla come al solito, non sentiva i polsi bruciarle e non sentiva nemmeno il leggero sudore colare sotto la parrucca.


Lui poteva tirare un po’ il fiato dalla sua tipica giornata, non era stato costretto a scappare via subito dal tempio come al cambio della guardia svizzera: in teoria avrebbe dovuto farlo se non avrebbe voluto ritrovarsi col fiato sul collo quella sera, ma la prospettiva di vedere Kagome dopo alcuni giorni aveva vinto su tutto. Oltretutto, lei lo aiutava a non pensare a tutto il resto, a tutto quel resto che gli pesava terribilmente.


Quello era tutto ciò che contava davvero.


Si congedarono con la promessa di un altro thé per l’indomani, solita ora; Kagome era riuscita a strapparla ad Inuyasha senza alcuna fatica e non poteva proprio chiedere di meglio.


Si salutarono sorridendo; mentre Inuyasha usciva di corsa, indossando il cappotto della divisa scolastica e tenendo un manico della borsa tra i denti, Kagome pose vassoio e tazze nel lavabo per lavare il tutto.


Non seppe proprio spiegarsi se fosse stato per sincronia o per sfiga, ma come il ragazzo se n’era andato, in cucina era entrata sua madre di ritorno dal lavoro. La donna assunse un’espressione di stupore, si immaginava la figlia a letto a riposare, non giù in cucina con le braccia immerse nell’acqua intenta a lavare dei piatti.


“Ciao Kagome…” si azzardò a dire


“Ciao…” si limitò a rispondere stizzita, senza voltarsi e senza smettere di lavare le tazze.


Non ce la fai proprio, vero?


Non ci riesci…



Eccola, era tornata.


Finì di lavare in fretta, senza lasciare il tempo alla madre di aiutarla; lasciò tutto sul colapiatti in metallo, si asciugò in fretta le mani nel golfino e si diresse in camera sua senza dire altro.


E’ inutile, lo sai.


Giunta in camera, fu accolta da una ventata d’aria gelida: aveva completamente dimenticato le finestre aperte.


“Eh, ma che cazzo!!” urlò rabbiosa, portandosi una mano dietro la nuca.


Sbatté con un gesto secco la porta alle sue spalle per poi rivolgersi alla finestra, chiudendola con un altrettanto secco gesto di entrambe le mani. Si sedette sul letto, confusa e infreddolita.


E’ incredibile…


Socchiuse gli occhi e sospirò rassegnata.


…quanto tu la odi.


E’ quasi encomiabile, direi.



Strinse le mani a pugno e cominciò a usarle per darsi dei colpi alle ginocchia.


E dire che Inuyasha


Digrignò i denti.


…era persino riuscito a zittirmi.


La testa ricominciò a pulsare.


Dì un po’.


A pulsare…


E’ il tuo odio verso tua madre che è troppo forte o il tuo affetto verso Inuyasha che è troppo blando?


Vertigini…


Forse tu ti stai illudendo che quest’ultimo sia vero.


Si alzò lentamente, le gambe iniziarono a tremare.


Si diresse verso la scrivania e osservò il cellulare, che aveva riposto lì prima di scendere in cucina.


Sei una povera illusa.


Ti illudi. Pensi di vivere quello che vorresti vivere.



Un messaggio di Sango, uno di Miroku.


Ma non potrai mai viverlo.


Il ricordo della gita. Il ricordo dell’ospedale. Il ricordo di Kikyo.


Un messaggio…


Allora?


Un messaggio di Inuyasha…?



Il vuoto...


Ma ti vedi?


A malapena ti ricordi di avere il suo numero!



Apertura in corso


Ti ricordi quando vi siete scambiati il numero?


No, vero?



Ehi, ciao! Grazie mille per il thè! Mi raccomando, Kagome, riprenditi presto e per bene! Non strafare! Inuyasha


Non riuscì a rispondere.


Hai un vuoto di memoria?


No vero?



Iniziò a respirare affannosamente.


La sai la verità?


Tu la vuoi vivere, quella vita.


Ma non puoi.



E con brevi scatti, rieccola. Riecco la sua ancora di salvezza, riecco la sua via di fuga. Rieccola, lucente, fiera e brillante come piace a lei e come la vuole lei. E non può far altro che accasciarsi a terra, come sempre, maledicendo la nuda e cruda verità dei fatti esplosa come un boato a ciel sereno. Nascondersi dietro qualcos’altro. Soffrire per non soffrire. Perdere il conto dei fallimenti di mantenere un po’ di sana lucidità e capire che ci sarebbero altri modi. Rendersi conto che può essere solo così: soffrire per non soffrire.


Kagome trattenne un conato di vomito, stringendo forte a sé i polsi doloranti.


Così impari ad abbassare la guardia e ad illuderti, Kagome…





Nota dell'autrice: scusate per questo schifo ç_ç Chiedo veramente, umilmente scusa. Mi faccio attendere una vita, come sempre, per poi portare questa schifezza. Non mi piace come è scritta, come è sviluppata, boh... Non mi piace in generale. Peggio del solito. E dire che ci sono un paio di passaggi a cui tenevo... Sigh... Non sono molto soddisfatta, ecco ._. Avrei potuto fare molto meglio. Ad ogni modo: in questo capitolo viene trattato il momento post-chemioterapia, a volte più pesante della terapia stessa. La solitudine, la cocciutaggine, le situazioni assurde... vi assicuro, sono tutte vere e tutte provate, non nascondo che non c'è niente di inventato in questo capitolo, nemmeno la scusa della parrucca è fasulla o ai fini della trama. Un altro pezzo forse un pò pesante è quello finale, con la coscienza di Kagome che non è esattamente il massimo della carineria. Fate molta attenzione alle parole che Kagome rivolge a sè stessa, sono molto importanti al fine dello sviluppo del suo rapporto con Inuyasha che, finalmente, inizia a delinearsi un pò *_* Ecco, di questo sono contenta! Dal prossimo capitolo inizieranno a muoversi altre cose, ho un sacco di idee per la testa, devo riuscire a ordinarle con calma senza farmi sopraffare dall'entusiasmo ed evitare di sfornare schifezze del genere ._. Ed è per questo che faccio una richiesta seria: avrei bisogno di un betareader, una persona che mi aiuti con la revisione grammaticale di Aoki e che abbia anche voglia (ma questo pezzo è facoltativo) di ascoltare le idee che ho in mente e che mi possa aiutare su alcuni punti "in dubbio" o "in sospeso". Se siete interessati non esitate a contattarmi tramite il form di efp! (mi raccomando, uno alla volta! XD) Per finire... io ne approfitto anche per farvi gli auguri di Natale, visto che dubito fortemente di riuscire a postare il prossimo capitolo entro dieci giorni :P Ci sentiamo nelle note del prossimo capitolo!


L'autrice risponde alle recensioni:
Beverly Rose: grazie per la tua segnalazione! *_* Non hai idea dei metri fatti nel balzare sulla sedia vedendo che Aoki è tra le storie scelte! Grazie, grazie, grazie davvero! *Ti spupazzo tutta io* XD Sono contenta che l'intermezzo ti sia piaciuto, per me è stato in assoluto quello più difficile da scrivere °-°" Io non sono nella testa di chi mi è accanto, mi sono mossa osservando molto i miei familiari e le mie amiche, è stato un vero e proprio parto! Spero ti piaccia il capitolo, un bacio!
ryanforever: grazie per la recensione *_* Come detto sopra, l'intermezzo di Sango è stato davvero difficile da scrivere, ma credo nel complesso di aver centrato quello che molte persone che stanno accanto ai malati oncologici pensano. Ho spezzato un pò il clima pesante di Kagome, che è tornato in tutto il suo "splendore" in questo capitolo... Spero ti piaccia! ^^ I miei esami settembrini sono andati bene, considerato che ho studiato tutto il tempo in ospedale, non potevo chiedere di meglio :D Anche la mia migliore amica frequenta la tua stessa facoltà! Solo che lei è al terzo anno, come me ^^ Un bacio!
Darkina: sì, "menestrello triste" si collega alla "musica triste"! Nel senso che Sango canta la sua tristezza nel non poter essere vicina alla sua migliore amica in un momento molto fragile, si sente in colpa perchè lei può andare avanti con la sua vita mentre Kagome no. Hai capito il senso, bravissima! ^^ E ti sei anche fatta capire, tranquilla! :D Con questo capitolo iniziano a muoversi alcune cose, vedrai con i prossimi! Spero sarà tutto di tuo gradimento! :) Un bacione, alla prossima!


Come sempre, i miei ringraziamenti vanno a tutti voi che leggete, che recensite (ecco, mi raccomando, recensite XD Un bel feedback - positivo o negativo - fa sempre piacere... *fa occhi dolci dolci*), che aggiungete Aoki tra i preferiti o tra le storie da seguire! Grazie, grazie, grazie! Ci sentiamo nel prossimo capitolo!
  
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