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Autore: Dazel    15/12/2009    5 recensioni
Chiuse prepotentemente gli occhi, gli si erano improvvisamente annacquati, con forza, e anche se in casa c'era solo lui odiava fare una cosa da deboli come piangere – temeva sempre che qualcuno potesse sbucare dal nulla o suonare alla sua porta e vederlo in quello stato – Inghilterra era un conquistatore, Inghilterra era un temibile pirata, Inghilterra era una nazione forte a cui l'Europa portava un grande rispetto, Inghilterra non piangeva e non soffriva la solitudine – se lo ripeteva, se lo ripeteva e se lo ripeteva ancora, eppure non riusciva proprio a convincersi e quel silenzio diventava solo più insopportabile.
Fanfiction scritta per il contest natalizio, ovviamente, Us/Uk♥
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Slash, Yaoi | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quel natale lo avrebbe passato semplicemente ricordando ciò che aveva perduto. Arthur rimase a fissare il buio calare fuori dalla finestra della sua villa e la neve addensarsi contro il vetro. Ogni anno che passava, quella casa sembrava ingigantirsi e il silenzio che si creava sembrava ingoiarlo – Arthur, alcune volte, aveva desiderato di impazzire pur di non sentire la presenza di quell'angosciante silenzio. Aveva addirittura comprato dei vinili di gruppi musicali come i Beatles e i Queen, li teneva a tutto volume, anche a costo di farsi venire il mal di testa, pur di colmare quell'odioso silenzio. Ma anche con la musica, anche con le chiacchiere della gente, anche i borbottii della televisione o il fischio della teiera, era sempre lì, quel terribile silenzio. Col passare del tempo l'inglese aveva capito che quella strana angoscia non era dettato dal silenzio che “sentiva” solo lui, ma da una assenza.
Non era il silenzio in sé, a spaventarlo, ma l'assenza dell'unico
rumore lo facesse sentire vivo.
Chiuse prepotentemente gli occhi, gli si erano improvvisamente annacquati, con forza, e anche se in casa c'era solo lui odiava fare una cosa da deboli come piangere – temeva sempre che qualcuno potesse sbucare dal nulla o suonare alla sua porta e vederlo in quello stato – Inghilterra era un conquistatore, Inghilterra era un temibile pirata, Inghilterra era una nazione forte a cui l'Europa portava un grande rispetto, Inghilterra non piangeva e non soffriva la solitudine – se lo ripeteva, se lo ripeteva e se lo ripeteva ancora, eppure non riusciva proprio a convincersi e quel silenzio diventava solo più insopportabile.

Quella mattina si era svegliato prima del sole per preparare biscotti natalizi mangiabili – Alfred non lo avrebbe mai saputo, ma aveva fatto svegliare Francis alle quattro quella mattina per aiutarlo a cucinare e non appena avevano tirato fuori i dolci dal forno lo aveva cacciato borbottando un grazie e qualcosa come “te ne porterò qualcuno, forse”.
Era fiero di sé stesso – certo, i suoi biscotti non erano perfettamente rotondi e decorati ad arte come quelli fatti da Francis, ma l'impasto gli era venuto buono ed avevano un buon sapore. Questo, avrebbe sicuramente stupito Alfred, sarebbe stato anche quel Natale fiero di lui e avrebbe detto che era il migliore del mondo.
Ad Arthur, in fondo, bastava quella vocina un po' acuta, felice e sorpresa che lo elogiava per sentirsi sinceramente felice.
Sentì dei passi veloci scendere le scale e cercò – con scarsi risultati – di spegnere quello stupido sorrisetto che si era impadronito delle sue labbra, curvandole in un'allegra parentesi – non fece in tempo a voltarsi che America era già lì, con quel pigiamino un po' troppo lungo per il suo corpo ancora piccolo gracile (anche se nascondeva una forza notevole, o forse era Inghilterra ad essere troppo debole, in ogni caso, Arthur preferiva pensare di essere poco forzuto che accettare l'idea che il suo scricciolo stesse crescendo).
«Inghilterra!» Aveva detto Alfred iniziando a saltellare «è Natale! È Natale!»
Arthur rise di cuore – probabilmente quella per lui sarebbe stata solo un altro giorno in rosso sul suo calendario, senza la gioia del bambino «Attento, che mi consumi il pavimento»
«Fa niente Igirisu! Mi perdonerai tutto! È Natale!»
Arthur si avvicinò ad Alfred e lo prese in braccio, tenendolo abbastanza saldamente «Mmh. Alfred, non senti anche tu un buon odorino?» Aveva detto spingendo la punta del naso nella guancia del piccolo America.
«Pensavo di starmelo sognando! Francis ci ha portato qualcosa di buono?»

Arthur si zittì «No. Mi sono alzato prestissimo per cucinare, grazie per la fiducia!», Alfred lo strinse e lo fissò con quei suoi occhioni azzurri, e poi gonfiò le labbra «Tu, Arthur, hai cucinato qualcosa con un odore così buono?!»
«Ne dubitavi, forse, piccola peste?» Disse pizzicandolo piano e poi prendendolo a solleticare – Alfred rise – era una risata così bella. In quel momento Arthur la reputò stupenda ma semplice, non avrebbe mai sospettato gli sarebbe rimasta nel cuore per sempre.

Nemmeno la folta trama di ciglia a quel ricordo riuscì a frenare una lacrima, che coraggiosa si era spinta fuori dai suoi occhi – Arthur decise di smettere di preoccuparsi, smettere di contenersi. Nessuno quel Natale, come per quelli passati, avrebbe bussato alla sua porta, nessuno lo avrebbe visto così, in quello stato.
Arthur voleva farsi quel regalo – voleva permettersi di essere umano, per una volta.
Smise di opporre resistenza a tutte quelle emozioni, a quel rancore, a quella tristezza, a quella solitudine, a quel batticuore insistente e prepotente e a quella rabbia, si fece coinvolgere e con un grosso – e tanto patetico, secondo lui – singhiozzo iniziò a piangere, come un bambino che non aveva trovato i soldatini sotto l'albero. Oh, anche quel pensiero – i soldatini e un certo bambino felice di riceverli – lo aiutarono a liberarsi di uno stupido pianto disperato.
Smise di lacrimare solo quando sentì degli strani tonfi – il cuore gli si fermò per un secondo e poi riprese a battere velocemente – li risentì, e si mise in allerta – sentì altri tre tonfi, più veloci, e una voce chiamare il suo nome, solo allora si rese conto che non erano misteriosi rumori associabili a un ladro che voleva derubarlo, ma qualcuno che bussava alla sua porta.
Dannazione, lo sapeva di non dover mettersi a piangere.
Si sfregò gli occhi velocemente contro le maniche della maglia e tirò su col naso – al diavolo, era dicembre e faceva freddo, avrebbe detto a chiunque ci fosse dietro quella stupida porta che aveva il raffreddore.
Con passi veloci giunse alla porta e la spalancò «Se mi vuoi vendere qualcosa di inutile vattene al diavolo!» Quasi urlò, con un tono un po' nasale.
«Non credo di aver portato qualcosa da poterti vendere, Inghilterra – hai pianto?»
Arthur aprì gli occhi e avvertì il pavimento cedergli sotto i piedi, o forse erano le gambe ad aver tremato forte – oh, probabilmente era morto ed era in paradiso, o stava sognando e tra pochi minuti si sarebbe svegliato con la faccia premuta contro in parquet gelido, o forse aveva un tumore al cervello e stava avendo delle bizzarre allucinazioni – tutto poteva essere possibile, tutto tranne quello che stava vedendo.
«Alfred» sussurrò piano, aveva la bocca spalancata per metà e un espressione veramente tanto stupida stampata in faccia. Si sentiva ridicolo – indossava un vecchio pigiamone in fantasia scozzese verde e rosso, con delle palline di natale e agrifoglio stampate sopra le maniche – gli bastava un cappello e le orecchie a punta per sembrare uno stupidissimo elfo. L'americano avrebbe dovuto avvisare, dannazione!
«ho il raffreddore-» Disse poi e afferrò la maniglia della porta, velocemente – Alfred per un secondo pensò volesse sbattergliela in faccia, sperò davvero non lo facesse, aveva preso l'aereo e si era annoiato per nove ore solo per vedere la sua faccia sorpresa e imbarazzata per il pigiamone che, quando Alfred gli avrebbe fatto la “sorpresa” l'inglese avrebbe portato addosso (e infatti era stato così).
«Aspetta!» Aveva detto dunque, piazzando la mano davanti a se, fino quasi a toccare il petto dell'inglese «non chiudere! Hai idea di quante ore di viaggio io mi sia fatto per venire fin qui?!»
Arthur aggrottò la fronte «Non volevo chiudere, idiota.» rimasero per un po' a fissarsi, zitti, senza dire nulla, finché una folata di vento piuttosto gelida non fece rabbrividire Arthur, a quel punto si ricordò di essere in pigiama e che, se non fosse entrato subito un raffreddore se lo sarebbe beccato davvero.
«Entra- ti preparo un tea» aveva detto poi, spostandosi dall'uscio e allontanandosi velocemente, dirigendosi verso la cucina. Era quasi certo che Alfred ricordasse ancora com'era fatta la casa in cui era cresciuto, a meno che la sua arrogante ingratitudine non avesse rimosso tutti i ricordi che, almeno per Arthur, erano stati i più belli della sua esistenza. Accese il fornello e riempì la teiera, per poi metterla sul fuoco. Da quando aveva aperto la porta aveva avuto un costante batticuore come colonna sonora dentro di sé – era incredibile. Il silenzio era sparito, eppure nessuno stava parlando.
Arthur sapeva che Alfred era lì, in casa sua, questo bastava a calmarlo e a farlo sentire sereno, questo era bastato a sconfiggere quell'orribile sensazione che da anni lo attanagliava. Per un secondo la parte infantile di sé pensò di chiedere ad Alfred di rimanere lì con lui per sempre, ma quella razionale escluse la possibilità a priori. Nemmeno sapeva perché era andato lì.

Fissò la teiera con insistenza, il tea era pronto da diversi minuti ma lui proprio non aveva il coraggio di andare in sala e portare una tazza all'americano. Improvvisamente si sentiva fragile e insicuro. Aveva paura che il stargli vicino, non sarebbe stato affatto una medicina, ma tutt'altro. Aveva paura che guardare il suo sorriso fiero o vedere le sue labbra appoggiarsi alla tazza dove ogni mattina l'inglese appoggiava le sue, e poi vederlo sparire e tornare in America, sarebbe stato come far annusare la Marijuana a un tossico-dipendente. Frustrante, una tortura.
Arthur sperò seriamente l'americano si spazientisse e se ne andasse, avrebbe potuto dimenticare di averlo visto per qualche secondo o auto-convincersi fosse stato davvero solo un sogno. Chiuse gli occhi e sospirò profondamene.
Cavolo, che idiota che era – era idiota e tremendamente debole.
Sentì un forte calore sopra la schiena, qualcosa cingergli la vita e un peso sospetto sulla spalla – avvampò per mezzo secondo, giusto il tempo per rendersi conto che Alfred lo aveva abbracciato.
«Questo è il tea più lungo della storia del mondo» aveva detto, con un tono di voce basso.
«È un'antica ricetta inglese» aveva detto in un borbottio Arthur, assolutamente certo che Alfred non l'avrebbe mai bevuta. Quel calore che lo avvolgeva era tremendamente appagante – era come se non avesse desiderato nient'altro, ok, in fondo era così, ma in quel momento gli era sembrato assurdamente importante e speciale, più speciale di come lo avrebbe inteso in un qualsiasi altro momento o in una qualsiasi altra circostanza.
Era come se quell'abbraccio, da parte sua, non fosse uno scambio di affetto fraterno ma un gesto dolce tra amanti. Avvampò fino alle orecchie – quei pensieri non erano proprio da lui.
«Cristo, Alfred» Disse, e la voce gli si incrinò pericolosamente «Se sei venuto fin qui per dirmi buon natale, darmi uno stupidissimo regalo e andartene, ti prego, vattene ora, perché – cristo non capisci un cazzo e- dio, se sei venuto per sparire per altri cinque anni ti prego di andartene ora.»
Alfred rimase zitto e immobile – ora, quello sorpreso era lui. Non aveva nessuno
stupidissimo regalo con sé, non però nemmeno intenzione di trasferirsi da Arthur, non era andato lì per restare né per dare qualcosa all'inglese che non fosse una stupidissima e fragile proposta. Qualcosa che non si aspettava l'altro accettasse, effettivamente.
Quella reazione, in ogni caso, lo aveva quasi spaventato – non perché avesse paura dell'inglese, aveva solo paura di essere stato troppo
stronzo con l'inglese. Non era stato corretto sparire per tutto quel tempo senza farsi mai sentire, era vero, ma aveva le sue giustificazioni. Alfred aveva avuto bisogno di crescere.
«Non ho nessun regalo con me» aveva detto. Arthur teneva lo sguardo contro la finestra – il vetro lo rifletteva ed Alfred poteva vedere la tristezza miscelata con la rabbia che celavano
«- e non sono nemmeno qui per restare» aveva aggiunto poi con filo di voce. Aveva sentito il corpo di Arthur irrigidirsi sotto il suo e poi divincolarsi.
Ecco, ora lo avrebbe cacciato, ne era certo.
«Aspetta!» Aveva detto Alfred, Arthur nel frattempo si era rigirato nell'abbraccio, ed erano uno difronte all'altro – non c'era nessun vetro che rifletteva lo sguardo di Arthur, ora erano lì, furiosi e delusi davanti ai suoi, e non poteva scapparci.

«Sono un uomo, adesso» Inghilterra aveva sentito dire quella frase un milione di volte dall'americano, durante i summit. La ripeteva in continuazione, a chiunque gli facesse un complimento. “L'America è molto forte, complimenti Alfred” “Sono un uomo adesso!” - “Il tuo paese è davvero figo!” “Sono un uomo adesso!” - “Ehi, Alfred, che bella giacca” “Sono un uomo adesso!” - ed Arthur non aveva potuto fare a meno che detestarla. Era vero, ora Alfred era un uomo e non lo era di certo diventato grazie a lui. Lui non aveva mai finito il suo lavoro, aveva fallito- ed Alfred ogni volta che diceva quella stupida ed irritante frase non poteva fare a meno di ricordarglielo.
«Lo so-» aveva detto Arthur, alzando un po' la voce «sei un uomo adesso, sai farcela da solo adesso, l'America è davvero potente e il mondo è praticamente alla tua mercé, adesso!» aveva detto, la voce gli si era incrinata e Alfred si aspettava quasi che l'altro si mettesse a piangere – ma l'inglese non gli avrebbe mai e poi mai dato una soddisfazione simile.
«Arthur! Piantala di interrompermi!» aveva sbottato Alfred – che diamine andava a farfugliare, quell'idiota?! «Non intendevo questo-»
«E cosa?!»
Alfred stava perdendo la pazienza «interrompimi ancora e me ne vado.» Arthur aprì la bocca e poi la richiuse – non voleva che se ne andasse così. Prima voleva sentire quale assurdità aveva da dirgli e poi sarebbe stato lui stesso a cacciarlo fuori casa a suon di calci nel sedere.
Alfred stette zitto e fissò Arthur, qualcosa nella sua espressione sembrò mutare e rilassarsi, a un certo punto chiuse gli occhi e Arthur si chiese se si fosse addormentato, ma poi li riaprì e con un tono di voce sorprendentemente dolce disse «vieni a vivere da me»
«...cosa?» Chiese Arthur con le labbra socchiude e uno sguardo davvero molto sorpreso. Alfred non attese una risposta, e, senza nemmeno preoccuparsi si quale sarebbe stata la reazione dell'inglese si chinò, e con dolcezza posò un bacio sulle sue labbra calde.
Arthur pensò beatamente che quello era davvero il Natale più bello della sua vita.

Vivere in America alla fine non era stato così terribile o traumatico come, per i mesi precedenti alla partenza, l'inglese aveva pensato. Alla fine gli americani non erano nemmeno tanto rozzi e incivili come aveva pensato – anzi, alcuni di loro erano anche simpatici e altri – questo lo aveva davvero sorpreso – addirittura eleganti e intelligenti. Probabilmente, anche se fosse stata terribile come si immaginava se la sarebbe fatta piacere a forza. Lì c'era l'unica persona di cui gli importava veramente – del posto e della gente gli importava ben poco.
Sonnecchiava abbracciato all'americano, in dormiveglia, usando il suo petto come cuscino. Era stranamente spigolo e appuntito, effettivamente. E freddo. Aprì un occhio, e poi l'altro, e poi scoprì che quello che abbracciava non era Alfred ma un enorme pacco regalo, con una carta blu e rossa luccicante.
«Ma … che diavolo-»
Alfred, dall'altra stanza, doveva averlo sentito imprecare, perché era scoppiato in una serena risata ed era entrato in camera con un vassoio «Buon natale, Arthur» aveva detto, e poi si era seduto sul bordo del loro nido d'amore. Arthur borbottò qualcosa che assomigliavano a degli auguri di rimando, e poi fissò il vassoio.
«Che diavolo sono quelli?»
«Hamburger di Natale!» aveva esclamato, come se fosse stata la cosa più ovvia del mondo. Arthur aveva sgranato gli occhi, aveva guardato la sveglia, l'aveva presa in mano e l'aveva spinta verso Alfred «Che ore sono?» aveva detto.
«Le nove e mezza» ridacchiò Alfred. O Arthur era strano o lo era Alfred, pensò fosse più probabile la seconda, nessuno in Inghilterra – né, a quanto ne sapeva, in nessun'altra parte del mondo – mangiava appena sveglio un hamburger.
«Chi è che mangia hamburger a quest'ora?!» aveva chiesto inquietato.
«Noi» aveva detto spingendone uno tra le labbra di Arthur che, solo per un senso di cortesia reduce da anni e anni di galateo addentò e ingurgitò.
«Mi sono impegnato per farli- ho pensato di dover batterti sul tempo prima che tu preparassi i tuoi orribili scones» aveva detto ridacchiando.
Arthur avrebbe tanto voluto offendersi per quella frase – o almeno fingere di essersi offeso – ma non ce la fece. La situazione in sé lo rendeva felice, non era il Natale né il fatto che Alfred gli avesse preparato qualcosa di grasso e poco salutare come gli hamburger come colazione, ma il fatto che Alfred fosse lì con lui, solo per lui e completamente suo.
Era il fatto che, davanti a lui c'erano mille e mille giorni di felicità affianco all'unica persona che in tutta la sua lunga e noiosa vita si era concesso di amare, aveva sempre amato Alfred in fondo, anche quando aveva creduto di odiarlo. Lo aveva amato quando era il suo scricciolo, lo aveva amato quando non era più al suo fianco e gli mancava come l'aria, e lo aveva amato quando quel Natale di un anno esatto prima, lo aveva baciato rubandogli le parole.

Alfred era entrato nel suo cuore e lo aveva conquistato per sempre.


Note dell'autrice: Le mie capacità attualmente mi impediscono di scrivere delle note con un senso compiuto, incompiuto o quello che è, oneshot partecipante al contest indetto dal Fan-Fiction (cliccate il bannerino sotto se siete curiosi ;P) e - scritta in anticipo e postata oggi che è la data in cui praticamente si poteva iniziare a postare. Ok, ringrazio tutti quelli che leggeranno, quelli che metteranno trai preferiti ma sopratutto chi commenterà dato che, ragazzi/e/* siete davvero la mia forza - tipo spinaci e braccio di ferro, intesi? ;D. Ora torno ad agonizzare nel mio- stupido e pigro stato comatoso. Byez!

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