Quel
natale lo avrebbe passato semplicemente ricordando ciò che
aveva
perduto. Arthur rimase a fissare il buio calare fuori dalla finestra
della sua villa e la neve addensarsi contro il vetro. Ogni anno che
passava, quella casa sembrava ingigantirsi e il silenzio che si
creava sembrava ingoiarlo – Arthur, alcune volte, aveva
desiderato
di impazzire pur di non sentire la presenza
di quell'angosciante silenzio. Aveva addirittura comprato dei vinili
di gruppi musicali come i Beatles e i Queen, li teneva a tutto
volume, anche a costo di farsi venire il mal di testa, pur di colmare
quell'odioso silenzio. Ma anche con la musica, anche con le
chiacchiere della gente, anche i borbottii della televisione o il
fischio della teiera, era sempre lì, quel terribile
silenzio. Col
passare del tempo l'inglese aveva capito che quella strana angoscia
non era dettato dal silenzio che “sentiva” solo
lui, ma da una
assenza.
Non era il silenzio in sé, a spaventarlo, ma l'assenza
dell'unico rumore lo
facesse sentire vivo.
Chiuse prepotentemente gli occhi, gli si
erano improvvisamente annacquati, con forza, e anche se in casa c'era
solo lui odiava fare una cosa da deboli come piangere –
temeva
sempre che qualcuno potesse sbucare dal nulla o suonare alla sua
porta e vederlo in quello stato – Inghilterra era un
conquistatore,
Inghilterra era un temibile pirata, Inghilterra era una nazione forte
a cui l'Europa portava un grande rispetto, Inghilterra non piangeva e
non soffriva la solitudine – se lo ripeteva, se lo ripeteva e
se lo
ripeteva ancora, eppure non riusciva proprio a convincersi e quel
silenzio diventava solo più insopportabile.
Quella
mattina si
era svegliato prima del sole per preparare biscotti natalizi
mangiabili – Alfred non lo avrebbe mai saputo, ma aveva fatto
svegliare Francis alle quattro quella mattina per aiutarlo a cucinare
e non appena avevano tirato fuori i dolci dal forno lo aveva cacciato
borbottando un grazie e qualcosa come “te ne
porterò qualcuno,
forse”.
Era fiero di sé stesso – certo, i suoi biscotti
non
erano perfettamente rotondi e decorati ad arte come quelli fatti da
Francis, ma l'impasto gli era venuto buono ed avevano un buon sapore.
Questo, avrebbe sicuramente stupito Alfred, sarebbe stato anche quel
Natale fiero di lui e avrebbe detto che era il migliore del mondo.
Ad
Arthur, in fondo, bastava quella vocina un po' acuta, felice e
sorpresa che lo elogiava per sentirsi sinceramente felice.
Sentì
dei passi veloci scendere le scale e cercò – con
scarsi risultati
– di spegnere quello stupido sorrisetto che si era
impadronito
delle sue labbra, curvandole in un'allegra parentesi – non
fece in
tempo a voltarsi che America era già lì, con quel
pigiamino un po'
troppo lungo per il suo corpo ancora piccolo gracile (anche se
nascondeva una forza notevole, o forse era Inghilterra ad essere
troppo debole, in ogni caso, Arthur preferiva pensare di essere poco
forzuto che accettare l'idea che il suo scricciolo stesse
crescendo).
«Inghilterra!» Aveva detto Alfred iniziando a
saltellare «è Natale! È
Natale!»
Arthur rise di cuore –
probabilmente quella per lui sarebbe stata solo un altro giorno in
rosso sul suo calendario, senza la gioia del bambino
«Attento, che
mi consumi il pavimento»
«Fa niente Igirisu! Mi perdonerai
tutto! È Natale!»
Arthur si avvicinò ad Alfred e lo prese in
braccio, tenendolo abbastanza saldamente «Mmh. Alfred, non
senti
anche tu un buon odorino?» Aveva detto spingendo la punta del
naso
nella guancia del piccolo America.
«Pensavo di starmelo
sognando! Francis ci ha portato qualcosa di buono?»
Arthur
si zittì «No. Mi sono alzato prestissimo per
cucinare, grazie per
la fiducia!», Alfred lo strinse e lo fissò con
quei suoi occhioni
azzurri, e poi gonfiò le labbra «Tu, Arthur, hai
cucinato qualcosa
con un odore così buono?!»
«Ne
dubitavi, forse, piccola peste?» Disse pizzicandolo piano e
poi
prendendolo a solleticare – Alfred rise – era una
risata così
bella. In quel momento Arthur la reputò stupenda ma
semplice, non
avrebbe mai sospettato gli sarebbe rimasta nel cuore per sempre.
Nemmeno
la folta trama di ciglia a quel ricordo riuscì a frenare una
lacrima, che coraggiosa si era spinta fuori dai suoi occhi –
Arthur
decise di smettere di preoccuparsi, smettere di contenersi. Nessuno
quel Natale, come per quelli passati, avrebbe bussato alla sua porta,
nessuno lo avrebbe visto così, in quello stato.
Arthur voleva
farsi quel regalo – voleva permettersi di essere umano, per
una
volta.
Smise di opporre resistenza a tutte quelle emozioni, a quel
rancore, a quella tristezza, a quella solitudine, a quel batticuore
insistente e prepotente e a quella rabbia, si fece coinvolgere e con
un grosso – e tanto patetico, secondo lui –
singhiozzo iniziò a
piangere, come un bambino che non aveva trovato i soldatini sotto
l'albero. Oh, anche quel pensiero – i soldatini e un certo
bambino
felice di riceverli – lo aiutarono a liberarsi di uno stupido
pianto disperato.
Smise di lacrimare solo quando sentì degli
strani tonfi – il cuore gli si fermò per un
secondo e poi riprese
a battere velocemente – li risentì, e si mise in
allerta – sentì
altri tre tonfi, più veloci, e una voce chiamare il suo
nome, solo
allora si rese conto che non erano misteriosi rumori associabili a un
ladro che voleva derubarlo, ma qualcuno che bussava alla sua
porta.
Dannazione, lo sapeva di non dover mettersi a
piangere.
Si sfregò gli
occhi velocemente contro le maniche della maglia e tirò su
col naso
– al diavolo, era dicembre e faceva freddo, avrebbe detto a
chiunque ci fosse dietro quella stupida porta che aveva il
raffreddore.
Con passi veloci giunse alla porta e la spalancò
«Se
mi vuoi vendere qualcosa di inutile vattene al diavolo!»
Quasi urlò,
con un tono un po' nasale.
«Non credo di aver portato qualcosa da
poterti vendere, Inghilterra – hai pianto?»
Arthur aprì gli
occhi e avvertì il pavimento cedergli sotto i piedi, o forse
erano
le gambe ad aver tremato forte – oh, probabilmente era morto
ed era
in paradiso, o stava sognando e tra pochi minuti si sarebbe svegliato
con la faccia premuta contro in parquet gelido, o forse aveva un
tumore al cervello e stava avendo delle bizzarre allucinazioni
–
tutto poteva essere possibile, tutto tranne quello che stava
vedendo.
«Alfred» sussurrò piano, aveva la bocca
spalancata per
metà e un espressione veramente tanto stupida stampata in
faccia. Si
sentiva ridicolo – indossava un vecchio pigiamone in fantasia
scozzese verde e rosso, con delle palline di natale e agrifoglio
stampate sopra le maniche – gli bastava un cappello e le
orecchie a
punta per sembrare uno stupidissimo elfo. L'americano avrebbe dovuto
avvisare, dannazione!
«ho il raffreddore-» Disse poi e afferrò
la maniglia della porta, velocemente – Alfred per un secondo
pensò
volesse sbattergliela in faccia, sperò davvero non lo
facesse, aveva
preso l'aereo e si era annoiato per nove ore solo per vedere la sua
faccia sorpresa e imbarazzata per il pigiamone che, quando Alfred gli
avrebbe fatto la “sorpresa” l'inglese avrebbe
portato addosso (e
infatti era stato così).
«Aspetta!» Aveva detto dunque,
piazzando la mano davanti a se, fino quasi a toccare il petto
dell'inglese «non chiudere! Hai idea di quante ore di viaggio
io mi
sia fatto per venire fin qui?!»
Arthur aggrottò la fronte «Non
volevo chiudere, idiota.» rimasero per un po' a fissarsi,
zitti,
senza dire nulla, finché una folata di vento piuttosto
gelida non
fece rabbrividire Arthur, a quel punto si ricordò di essere
in
pigiama e che, se non fosse entrato subito un raffreddore se lo
sarebbe beccato davvero.
«Entra- ti preparo un tea» aveva detto
poi, spostandosi dall'uscio e allontanandosi velocemente, dirigendosi
verso la cucina. Era quasi certo che Alfred ricordasse ancora com'era
fatta la casa in cui era cresciuto, a meno che la sua arrogante
ingratitudine non avesse rimosso tutti i ricordi che, almeno per
Arthur, erano stati i più belli della sua esistenza. Accese
il
fornello e riempì la teiera, per poi metterla sul fuoco. Da
quando
aveva aperto la porta aveva avuto un costante batticuore come colonna
sonora dentro di sé – era incredibile. Il silenzio
era sparito,
eppure nessuno stava parlando.
Arthur sapeva che Alfred era lì,
in casa sua, questo bastava a calmarlo e a farlo sentire sereno,
questo era bastato a sconfiggere quell'orribile sensazione che da
anni lo attanagliava. Per un secondo la parte infantile di
sé pensò
di chiedere ad Alfred di rimanere lì con lui per sempre, ma
quella
razionale escluse la possibilità a priori. Nemmeno sapeva
perché
era andato lì.
Fissò
la teiera con insistenza, il tea era pronto da diversi minuti ma lui
proprio non aveva il coraggio di andare in sala e portare una tazza
all'americano. Improvvisamente si sentiva fragile e insicuro. Aveva
paura che il stargli vicino, non sarebbe stato affatto una medicina,
ma tutt'altro. Aveva paura che guardare il suo sorriso fiero o vedere
le sue labbra appoggiarsi alla tazza dove ogni mattina l'inglese
appoggiava le sue, e poi vederlo sparire e tornare in America,
sarebbe stato come far annusare la Marijuana a un tossico-dipendente.
Frustrante, una tortura.
Arthur sperò seriamente l'americano si
spazientisse e se ne andasse, avrebbe potuto dimenticare di averlo
visto per qualche secondo o auto-convincersi fosse stato davvero solo
un sogno. Chiuse gli occhi e sospirò profondamene. Cavolo,
che idiota che era – era idiota e tremendamente debole.
Sentì
un forte calore sopra la schiena, qualcosa cingergli la vita e un
peso sospetto sulla spalla – avvampò per mezzo
secondo, giusto il
tempo per rendersi conto che Alfred lo aveva abbracciato.
«Questo
è il tea più lungo della storia del
mondo» aveva detto, con un
tono di voce basso.
«È un'antica ricetta inglese» aveva
detto
in un borbottio Arthur, assolutamente certo che Alfred non l'avrebbe
mai bevuta. Quel calore che lo avvolgeva era tremendamente appagante
– era come se non avesse desiderato nient'altro, ok, in fondo
era
così, ma in quel momento gli era sembrato assurdamente
importante e
speciale, più speciale di come lo avrebbe inteso in un
qualsiasi
altro momento o in una qualsiasi altra circostanza.
Era
come se quell'abbraccio, da parte sua, non fosse uno scambio di
affetto fraterno ma un gesto dolce tra amanti. Avvampò fino
alle
orecchie – quei pensieri non erano proprio da lui.
«Cristo,
Alfred» Disse, e la voce gli si incrinò
pericolosamente «Se sei
venuto fin qui per dirmi buon natale, darmi uno stupidissimo regalo e
andartene, ti prego, vattene ora, perché – cristo
non capisci un
cazzo e- dio, se sei venuto per sparire per altri cinque anni ti
prego di andartene ora.»
Alfred rimase zitto e immobile – ora,
quello sorpreso era lui. Non aveva nessuno stupidissimo
regalo con sé, non però nemmeno intenzione di
trasferirsi da
Arthur, non era andato lì per restare né per dare
qualcosa
all'inglese che non fosse una stupidissima e fragile proposta.
Qualcosa che non si aspettava l'altro accettasse,
effettivamente.
Quella reazione, in ogni caso, lo aveva quasi
spaventato – non perché avesse paura dell'inglese,
aveva solo
paura di essere stato troppo stronzo con
l'inglese. Non era stato corretto sparire per tutto quel tempo senza
farsi mai sentire, era vero, ma aveva le sue giustificazioni. Alfred
aveva avuto bisogno di crescere.
«Non ho nessun regalo con me»
aveva detto. Arthur teneva lo sguardo contro la finestra – il
vetro
lo rifletteva ed Alfred poteva vedere la tristezza miscelata con la
rabbia che celavano «-
e non sono nemmeno qui per restare» aveva aggiunto poi con
filo di
voce. Aveva sentito il corpo di Arthur irrigidirsi sotto il suo e poi
divincolarsi.
Ecco, ora lo avrebbe cacciato, ne era
certo.
«Aspetta!» Aveva detto Alfred, Arthur nel frattempo
si
era rigirato nell'abbraccio, ed erano uno difronte all'altro
– non
c'era nessun vetro che rifletteva lo sguardo di Arthur, ora erano
lì,
furiosi e delusi davanti ai suoi, e non poteva scapparci.
«Sono
un uomo, adesso» Inghilterra aveva sentito dire quella frase
un
milione di volte dall'americano, durante i summit. La ripeteva in
continuazione, a chiunque gli facesse un complimento.
“L'America è
molto forte, complimenti Alfred” “Sono un uomo
adesso!” - “Il
tuo paese è davvero figo!” “Sono un uomo
adesso!” - “Ehi,
Alfred, che bella giacca” “Sono un uomo
adesso!” - ed Arthur
non aveva potuto fare a meno che detestarla. Era vero, ora Alfred era
un uomo e non lo era di certo diventato grazie a lui. Lui non aveva
mai finito il suo lavoro, aveva fallito- ed Alfred ogni volta che
diceva quella stupida ed irritante frase non poteva fare a meno di
ricordarglielo.
«Lo so-» aveva detto Arthur, alzando un po' la
voce «sei un uomo adesso, sai farcela da solo adesso,
l'America è
davvero potente e il mondo è praticamente alla tua
mercé, adesso!»
aveva detto, la voce gli si era incrinata e Alfred si aspettava quasi
che l'altro si mettesse a piangere – ma l'inglese non gli
avrebbe
mai e poi mai dato una soddisfazione simile.
«Arthur!
Piantala di interrompermi!» aveva sbottato Alfred –
che diamine
andava a farfugliare, quell'idiota?! «Non intendevo
questo-»
«E
cosa?!»
Alfred
stava perdendo la pazienza «interrompimi ancora e me ne
vado.»
Arthur aprì la bocca e poi la richiuse – non
voleva che se ne
andasse così. Prima voleva sentire quale
assurdità aveva da dirgli
e poi sarebbe stato lui stesso a cacciarlo fuori casa a suon di calci
nel sedere.
Alfred stette zitto e fissò Arthur, qualcosa nella
sua espressione sembrò mutare e rilassarsi, a un certo punto
chiuse
gli occhi e Arthur si chiese se si fosse addormentato, ma poi li
riaprì e con un tono di voce sorprendentemente dolce disse
«vieni a
vivere da me»
«...cosa?»
Chiese Arthur con le labbra socchiude e uno sguardo davvero molto
sorpreso. Alfred non attese una risposta, e, senza nemmeno
preoccuparsi si quale sarebbe stata la reazione dell'inglese si
chinò, e con dolcezza posò un bacio sulle sue
labbra calde.
Arthur
pensò beatamente che quello era davvero il Natale
più bello della
sua vita.
Vivere
in America alla fine non era stato così terribile o
traumatico come,
per i mesi precedenti alla partenza, l'inglese aveva pensato. Alla
fine gli americani non erano nemmeno tanto rozzi e incivili come
aveva pensato – anzi, alcuni di loro erano anche simpatici e
altri
– questo lo aveva davvero sorpreso – addirittura
eleganti e
intelligenti. Probabilmente, anche se fosse stata terribile come si
immaginava se la sarebbe fatta piacere a forza. Lì c'era
l'unica
persona di cui gli importava veramente – del posto e della
gente
gli importava ben poco.
Sonnecchiava abbracciato all'americano, in
dormiveglia, usando il suo petto come cuscino. Era stranamente
spigolo e appuntito, effettivamente. E freddo. Aprì un
occhio, e poi
l'altro, e poi scoprì che quello che abbracciava non era
Alfred ma
un enorme pacco regalo, con una carta blu e rossa luccicante.
«Ma
… che diavolo-»
Alfred, dall'altra stanza, doveva averlo
sentito imprecare, perché era scoppiato in una serena risata
ed era
entrato in camera con un vassoio «Buon natale,
Arthur» aveva detto,
e poi si era seduto sul bordo del loro nido d'amore. Arthur
borbottò qualcosa che assomigliavano a degli auguri di
rimando, e
poi fissò il vassoio.
«Che diavolo sono quelli?»
«Hamburger
di Natale!» aveva esclamato, come se fosse stata la cosa
più ovvia
del mondo. Arthur aveva sgranato gli occhi, aveva guardato la
sveglia, l'aveva presa in mano e l'aveva spinta verso Alfred
«Che
ore sono?» aveva detto.
«Le nove e mezza» ridacchiò Alfred. O
Arthur era strano o lo era Alfred, pensò fosse
più probabile la
seconda, nessuno in Inghilterra – né, a quanto ne
sapeva, in
nessun'altra parte del mondo – mangiava appena sveglio un
hamburger.
«Chi è che mangia hamburger a
quest'ora?!» aveva
chiesto inquietato.
«Noi» aveva detto spingendone uno tra le
labbra di Arthur che, solo per un senso di cortesia reduce da anni e
anni di galateo addentò e ingurgitò.
«Mi sono impegnato per
farli- ho pensato di dover batterti sul tempo prima che tu preparassi
i tuoi orribili scones» aveva detto ridacchiando.
Arthur avrebbe
tanto voluto offendersi per quella frase – o almeno fingere
di
essersi offeso – ma non ce la fece. La situazione in
sé lo rendeva
felice, non era il Natale né il fatto che Alfred gli avesse
preparato qualcosa di grasso e poco salutare come gli hamburger come
colazione, ma il fatto che Alfred fosse lì con lui, solo per
lui e
completamente suo.
Era il fatto che, davanti a lui c'erano mille e
mille giorni di felicità affianco all'unica persona che in
tutta la
sua lunga e noiosa vita si era concesso di amare, aveva sempre amato
Alfred in fondo, anche quando aveva creduto di odiarlo. Lo aveva
amato quando era il suo scricciolo, lo aveva amato
quando non
era più al suo fianco e gli mancava come l'aria, e lo aveva
amato
quando quel Natale di un anno esatto prima, lo aveva baciato
rubandogli le parole.
Alfred
era entrato nel suo cuore e lo aveva conquistato per
sempre.