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Autore: RobyLupin    18/12/2009    3 recensioni
Matteo non riusciva a togliersi Bassi dalla testa. O meglio, la storia che fosse una strega.
L’idea stessa era completamente assurda, e lo sapeva: era un futuro medico, un uomo di scienza, e la sola idea che la magia potesse esistere realmente non era ammissibile nella sua visione del mondo. [...] Con uno scatto improvviso si rizzò a sedere sul letto su cui stava sdraiato. Bene, aveva deciso: per il bene della scienza e per la salvezza dei creduloni presenti nella sua scuola, avrebbe fatto luce sulla questione, portando prove certe dell’infondatezza di quella storia assurda. E, se si fosse rivelata una truffa architettata da Bassi, avrebbe agito di conseguenza e l’avrebbe denunciata a chi di dovere, altrimenti avrebbe contribuito a liberarla da quei pettegolezzi. In fondo, bastava tenerla d’occhio per un po’ di tempo, no?

Prima classificata al contest "Streghe e Stregoni" indetto da Writers Arena.
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: La strega della prima C
Autrice: RobyLupin
Rating: Per tutti
Tipologia: One-Shot
Lunghezza: 8950 parole (circa 15 pagine)
Avvertimenti: Nessuno
Genere: Commedia
Disclaimer: I personaggi e le situazioni sono mia totale invenzione, quindi non è possibile riprodurli altrove senza il mio permesso esplicito. E credetemi sono molto pignola su quell’esplicito.
Non altrettanto sono i luoghi, che sono di proprietà di chi di dovere; io li uso solo per bieca convenienza.
Note dell'autrice: La storia è ambientata a Milano. Ho cercato di riprodurre il più fedelmente possibile i luoghi descritti – per quanto la mia memoria mi consente, almeno. L’articolo davanti al nome di persona che faccio usare ai personaggi è tipico di Milano (e non solo, ma sono dettagli irrilevanti), quindi è voluto, nonostante non sia propriamente italiano.
Il Berchet è un liceo classico veramente esistente, e credo che in molti lo conoscano. Ci tengo a specificare che io non l'ho mai frequentato né conosco gente che invece l'abbia fatto, quindi qualunque somiglianza con la realtà è totalmente frutto del caso. Io lo uso solo perchè fisicamente vicino alla location di parte dei fatti narrati. Inoltre, per chi non lo sapesse, le classi del liceo classico non corrispondono a quelle normalmente vigenti nelle altre scuole, ma sono così ripartite: quarto ginnasio, quinto ginnasio, primo liceo, secondo liceo, terzo liceo. Il perché di questa cosa è ancora un mistero, ma vabbé, facciamo finta di nulla e via. XD
Altre note a fondo pagina.
Introduzione alla Storia:
Matteo non riusciva a togliersi Bassi dalla testa. O meglio, la storia che fosse una strega.
L’idea stessa era completamente assurda, e lo sapeva: era un futuro medico, un uomo di scienza, e la sola idea che la magia potesse esistere realmente non era ammissibile nella sua visione del mondo. [...] Con uno scatto improvviso si rizzò a sedere sul letto su cui stava sdraiato. Bene, aveva deciso: per il bene della scienza e per la salvezza dei creduloni presenti nella sua scuola, avrebbe fatto luce sulla questione, portando prove certe dell’infondatezza di quella storia assurda. E, se si fosse rivelata una truffa architettata da Bassi, avrebbe agito di conseguenza e l’avrebbe denunciata a chi di dovere, altrimenti avrebbe contribuito a liberarla da quei pettegolezzi. In fondo, bastava tenerla d’occhio per un po’ di tempo, no?



La strega delle Prima C



Il liceo classico Berchet di Milano è, fin dai tempi della sua fondazione, uno dei più importanti della città. La fauna al suo interno comprende alcune delle specie più comuni tra gli adolescenti moderni, rigidamente divisi secondi gli usi in voga in qualunque telefilm americano. La prova pratica che la televisione condiziona le vite dei giovani, insomma. Oppure, che fatti come la Rivoluzione Francese sono solo parentesi storiche senza conseguenze pratiche dato che, anche nelle piccole società come quelle scolastiche, è tutt’ora una ristretta classe composta dalla minoranza delle persone a governare. Solitamente, a rimetterci di più è chi, ovviamente, non rientra in determinate categorie stabilite dall’elite dominante in quel determinato periodo. Matteo Carinni, studente diciassettenne della prima C, era uno di loro.
Non troppo alto, magro e dinoccolato, Matteo era quello che, in America, si sarebbe potuto definire un nerd alla fase iniziale. In italiano si potrebbe semplice tradurre con ‘secchione’ o ‘sfigato’, ma diciamocelo, l’inglese fa più tendenza, e la classe dominante al Berchet – e, molto probabilmente, non solo – in quel periodo faceva dell’essere alla moda un punto fermo.
Ape Regina della situazione era tale Jessica Carsi, prima C anch’essa e dall’ego inversamente proporzionale alla sua sete di conoscenza. Il che era un vero peccato perché il cervello in sé non le mancava, almeno stando alle interrogazioni in cui riusciva sempre a cavarsela egregiamente. Di certo sapeva come gestire le altre armi che le aveva assegnato Madre Natura, piuttosto benigna nell’assegnarle boccolosi capelli castani e occhioni da cerbiatto indifeso, oltre ad una bella pelle e ad un altro paio di… argomenti certamente graditi al genere maschile. E Matteo lo sapeva perfettamente, dato che negli ultimi tre anni quegli argomenti l’avevano sempre puntualmente convinto a offrirle la sua piena collaborazione durante i compiti in classe. Piuttosto patetico, sì; lui stesso non mancava di dirselo, ogni tanto, così da non dimenticarsene. Soprattutto quando si ritrovava a pensare che lui, rappresentante del gradino più basso della scala sociale del liceo, aveva una vera e propria cotta per l’Ape Regina dalle medie, come se potesse avere anche una minima speranza con lei.
Questo pensava fino a quel ventisei gennaio in cui inizia la nostra storia.
La scuola era appena finita e, come al solito, stava raggiungendo la metropolitana in compagnia di Mattia e Luca, altri due degni rappresentanti della categoria sociale di cui faceva parte. Stava più che altro spaziando con la mente, pensando alla versione di greco che doveva preparare, e riflettendo se era più conveniente iniziare con quella o con le trenta pagine di filosofia su cui sarebbe stato interrogato il giorno dopo. Stava già optando per la versione di greco – la professoressa Merisi sapeva essere più spaventosa di qualunque interrogazione – quando le sue orecchie captarono una parola uscita dalla bocca di Luca che lo stupì.
“Cosa stai dicendo, scusa?”
Quello lo guardò interrogativo, come se non s’aspettasse un suo intervento.
“Stavamo discutendo sulla nuova arrivata.”
“Chi, la Bassi?”
“Ah-ha.” Confermò, scendendo le scale all’entrata della metro e prendendo il portafoglio in cui stava il suo abbonamento; Matteo lo imitò e superò il tornello.
“E che ha fatto?” Chiese, dopo aver mentalmente riepilogato ciò che sapeva su di lei: era arrivata nella sua classe a Settembre, trasferendosi dal suo vecchio liceo, ma ignorava il motivo per cui l’aveva fatto. Non aveva avuto molte occasioni per parlarle, se non le quattro parole che si scambiano inevitabilmente quando si trascorrono sei ore al giorno insieme per sei giorni alla settimana.
“Ma come, non lo sai, Teo? Del motivo per cui s’è trasferita qui. Ne parla tutta la scuola, ultimamente.” Stava intanto dicendo Mattia, infilandosi nella conversazione. Matteo alzò un sopracciglio, confuso, e l’amico ghignò appena. Entrarono sul treno della metro, cercando di non soffocare nel mare di gente che come sempre l’affollava, quindi si chinò verso di lui, mormorando: “Bassi è una strega.”
Matteo spalancò lievemente gli occhi, sorpreso, senza sapere bene cosa dire davanti al ghigno che i suoi amici gli stavano mostrando. Un attimo dopo, entrambi ridevano senza ritegno, attirando l’attenzione dei passeggeri attorno a loro.
“Ma che divertenti.” Sbuffò Matteo, poggiandosi di schiena alla parete. “E pensare che credevo fosse successo qualcosa di serio.”
“Però a scuola ne parlano davvero. È la notizia della settimana: si dice che si sia dovuta trasferire perché era stata scoperta dai professori. A quanto pare vendeva amuleti e cose del genere agli studenti, e si dice anche che facesse incantesimi e preparasse pozioni nei bagni.”
Matteo alzò gli occhi al cielo.
“Quello è Harry Potter, Mattia. Cerca di distinguere meglio i libri dalla realtà, per favore.” Sbuffò di nuovo, tirandosi indietro un ciuffo di capelli neri che gli era caduto sugli occhi. “Comunque spero che non ci crediate veramente. Insomma… Una strega! Come no, se Bassi è una strega io sono il Cappellaio Matto.”
Luca ridacchiò.
“Ovviamente lo sappiamo che è tutta una panzana. Tutti lo sanno, ciò non toglie che se ne parla. In fondo, era da un po’ che non accadeva praticamente nulla.”
“Che stupidaggine.” Ribatté Matteo, guardando fuori dal finestrino. “Sono arrivato. A domani.” Salutò e scese velocemente, seguendo il flusso di gente che, come lui, scendeva alla stazione del Duomo. Percorse velocemente i corridoi della metro, in modo da cambiare la linea per arrivare a casa, cercando di non pensare a quello a cui la gente era disposta ad attaccarsi pur di non annoiarsi.

Nonostante avesse decisamente preferito pensare a tutt’altro, Matteo non riusciva a togliersi Bassi dalla testa. O meglio, la storia che fosse una strega.
L’idea stessa era completamente assurda, e lo sapeva: era un futuro medico, un uomo di scienza, e la sola idea che la magia potesse esistere realmente non era ammissibile nella sua visione del mondo. Visione lievemente ristretta, forse, ma fondamentalmente giusta, e su questo non ci pioveva. Eppure c’era, come da migliore tradizione, un grande e grosso ‘ma’: odiava anche solo pensarlo, ma c’era una parte di lui che si era soffermata sull’espressione ‘filtri d’amore’ e non voleva distoglierne l’attenzione. Patetico.
Si fregò con forza la mano sul volto, cercando di smetterla di essere così… credulone: era scientificamente dimostrato che sciocchezze come magia et similia non esistevano, e che erano utili solo per produrre romanzi. Forse.
Certo, c’era in giro un sacco di gente che credeva veramente a maghi e compagnia, ma ammettiamolo, lui era troppo razionale per essere uno di loro. Decisamente. Chissà quanti c’erano nella sua scuola, però, che avrebbero potuto farsi ingannare. Dopotutto, nonostante la Bassi non gli sembrasse una cattiva persona, non si poteva mai dire; in fondo, non la conosceva, no? E se fosse stata lei a mettere in giro quelle voci – eventualità remota ma lo stesso possibile – in modo da guadagnarci sopra qualcosa?
Con uno scatto improvviso si rizzò a sedere sul letto su cui stava sdraiato. Bene, aveva deciso: per il bene della scienza e per la salvezza dei creduloni presenti nella sua scuola, avrebbe fatto luce sulla questione, portando prove certe dell’infondatezza di quella storia assurda. E, se si fosse rivelata una truffa architettata da Bassi, avrebbe agito di conseguenza e l’avrebbe denunciata a chi di dovere, altrimenti avrebbe contribuito a liberarla da quei pettegolezzi. In fondo, bastava tenerla d’occhio per un po’ di tempo, no?
Annuì con convinzione, quindi prese il libro di greco e lo aprì sulla versione odierna, senza poter evitare ad una parte della sua mente di immaginare gli occhi ammirati di Jessica che si posavano su di lui una volta resasi conto di quanto valeva.

Matteo sbuffò sonoramente, poggiando la schiena al muro e osservando la ragazza entrare nel portone del suo palazzo. Era già una settimana che la teneva d’occhio, ma non era ancora riuscito a notare nulla di particolarmente anormale in quello che faceva: Erica Bassi andava a scuola la mattina alle sette e trenta, seguiva le lezioni e quindi rientrava per pranzo, dato che non seguiva nessun corso pomeridiano. Un paio di volte – come in quel caso – era uscita per andare alla panetteria poco distante da casa ma, a parte quello, non l’aveva ancora vista uscire. Probabilmente studiava molto e, data la media alta che la ragazza riusciva a mantenere, la cosa non lo stupiva più di tanto.
Si passò una mano tra i capelli e poggiò anche la nuca alla parete, ignorando la vocina nella sua testa che gli ricordava come non fosse esattamene igienico poggiare alcunché ad una qualunque superficie presente nel centro di Milano. Gettò un’occhiata all’ingresso della metropolitana poco distante da lui, desideroso di lasciar perdere quell’assurdità e tornarsene a casa e mangiare qualcosa di caldo, quindi sospirò: altri dieci minuti, decise. Dopotutto, il bene della scienza veniva prima di tutto.
E fu anche abbastanza bravo, in fondo: aveva certo aspettato ben più del tempo prefissatosi, quando si decise a darsi una leggera spinta in avanti e si diresse verso la metropolitana. Nel farlo, però, urtò qualcosa – o meglio, qualcuno – e lo fece finire a terra. Tipico di lui.
“Mi scusi, signora.” Mormorò automaticamente, chinandosi e tendendo la mano per aiutarla. Quella lo fissò un paio di secondi con i suoi occhi nocciola, e lui distolse automaticamente lo guardo. Sì, decisamente patetico, ma inutile ripeterlo. Un lieve sbuffo dal basso attirò di nuovo la sua attenzione, e si voltò giusto in tempo per vedere la donna alzarsi da sola e darsi lievi pacche sul cappotto per pulirlo, lanciandogli al contempo un’occhiata esasperata.
“Ragazzo, chiudi quella bocca o ci entreranno nugoli di mosche.” Matteo la chiuse meccanicamente; non si era nemmeno accorto di averla socchiusa. “E non startene lì impalato, per favore. Aiutami a raccogliere le mie borse, su!”
La fissò inebetito per qualche secondo, senza sapere cosa rispondere. Grosso errore: gli indugi hanno fini pericolose, dicono i saggi, e questo non fece certo eccezione.
La strana donna sbuffò di nuovo, quindi raccolse una busta di plastica e gliela infilò senza tanti complimenti tra le braccia. Quindi raccolse l’altra busta e il bastone, che inizialmente Matteo non aveva notato, e gli indicò un portone poco distante con la punta. E dato che, come sfiga vuole, se qualcosa può andar male, lo farà certamente e nel peggior modo possibile, il portone era ovviamente quello in cui la Bassi era appena entrata.
“Abito al quinto piano,” lo informò, iniziando ad avviarsi. Zoppicava lievemente, notò Matteo, e questo lo fece sentire tremendamente in colpa. La donna – sulla sessantina, notò osservandola meglio – si voltò e lo squadrò un attimo. “Hai intenzione di startene tutto il giorno fermo sul marciapiede, ragazzo?”
‘Gira con un bastone, è anziana e hai rischiato di farle rompere qualche osso. Ringrazia di essertela cavata solo con una borsa della spesa da portare per qualche piano.’ Sospirò pesantemente, passandosi una mano tra i riccioli disordinati e avviandosi verso il famigerato palazzo.
Seguì quindi docilmente la donna oltre l’ingresso, dirigendosi automaticamente verso l’ascensore.
“Le scale, ragazzo!” sbottò quella, facendolo bloccare.
“Ma…”
“Se posso fare io, che ho più di sessant’anni, cinque piani a piedi, a maggior ragione non vedo perché tu non possa fare altrettanto. Se non altro ti irrobustirai un po’.” E iniziò a salire.
Matteo la guardò senza parole per qualche secondo, quindi sospirò e le si fece dietro. Arrivati al quinto – e ultimo – piano tirò finalmente il fiato: non era mai stato granché nelle attività fisiche. D’accordo, diciamo pure che si sarebbe tagliato una gamba pur di poter evitare l’ora di educazione fisica a scuola, ma non sottilizziamo: il punto era che lo sport non gli piaceva e, grazie al suo metabolismo da cavalletta, come l’aveva ribattezzato sua madre, non ne aveva nemmeno bisogno per restare in forma, quindi non aveva mai visto il motivo per cui avrebbe dovuto mantenersi in allenamento. In quel momento, però, quando quella strana vecchia che pareva non sentire la minima stanchezza, gli lanciò un’occhiata piena di sufficienza davanti al suo affanno, desiderò ardentemente per la prima volta di avere muscoli più sviluppati. Non molto: giusto il minimo sindacabile.
“Posa pure la borsa sul tavolo, ragazzo. E siediti un attimo, sembri reduce da una maratona. Ah, i giovani d’oggi…”
Pareva più un ordine che un invito, notò Matteo con un certo disappunto mentre attraversava la soglia d’ingresso. Inoltre una vocina, dentro di lui, gli diceva che non era una grande idea fermarsi a casa di una totale sconosciuta quando nessuno sapeva dov’era. Ma il divano pareva comodo, e non riusciva davvero a credere che quella donna, per quanto scorbutica, potesse fargli qualcosa di male. Anche perché, d’accordo, dire che era deboluccio era un eufemismo, ma non tanto da farsi eventualmente sopraffare da un’anziana. In teoria, almeno.
Si sedette, chiudendo gli occhi e godendosi i morbidi cuscini per qualche secondo, quindi la sua indole curiosa ebbe la meglio e si guardò attorno, studiando meglio l’ambiente. L’arredamento era vecchio stile, con mobili di legno scuro dall’aspetto pesante; inoltre la signora doveva avere il pollice verde, perché c’erano varie piante nei pressi del balcone. Insomma, un ambiente assolutamente nella norma, senza nulla di speciale. Perfino il gatto rosso acciambellato sul cuscino della poltrona pareva parte integrante dell’arredamento. Si mise a fissarlo assorto, il ventre che si alzava ed abbassava a ritmo del suo respiro regolare.
“Ehm, ehm.”
Matteo si riscosse, spostando la sua attenzione sulla padrona di casa che, stranamente, stava sorridendo.
“Ti piacciono i gatti, ragazzo?” chiese, poggiando su tavolino davanti a lui un vassoio con due tazze da the, zuccheriera, teiera e biscotti.
“Abbastanza.” Confermò lui, osservandola prendere in braccio l’animale e sedersi al suo posto. “Ne ho uno a casa, anche se è abbastanza vecchio ormai.”
Il gatto rosso si guardò attorno, assonnato, mentre la padrona lo accarezzava distrattamente, quindi si stiracchiò e iniziò a lisciarsi il pelo.
“Allora… Gradisci del the, ragazzo?”
“Matteo,” ribatté lui istintivamente. “Ma a dire il vero non sono un grande amante del t-”
“Perfetto, ragazzo.” L’interruppe, iniziando a versare la bevanda in una tazza. “Quante zollette di zucchero gradisci?”
“Ma veramente…”
“Una? Due?”
Matteo sospirò, rassegnato, quindi alzò quattro dita: così, se non altro, non sarebbe stato troppo amaro.
“Ecco qui, ragazzo.” Rispose lei, piazzandogli davanti la tazza e porgendogli il piatto. “Biscotto?”
Matteo li guardò: erano i tipici biscotti preconfezionati dei supermercati e sembravano appetibili, ma preferiva bere in fretta il suo the e tornarsene a casa. Quella vecchia era pazza; meno le stava vicino, meglio era.
“Ehm, mia madre mi ha sempre detto di non accettare cibo dagli sconosciuti.” Tentò.
“Chiara Vanni, molto piacere.” Ribatté prontamente lei. “Biscotto?”
Lui sospirò, alzò la mano e ne prese uno a caso, iniziando a sgranocchiarlo distrattamente. L’altra sorrise soddisfatta.
“Sei un bravo ragazzo, in fondo. E dire che parevi così sospetto, dopo una settimana sotto al palazzo ad attendere chissà che.” Matteo quasi si strozzò col biscotto: era stato scoperto?! “Cosa ci facevi, a proposito?” Inghiottì a vuoto, cercando una scusa qualunque, ma quella lo precedette. “Oh, giusto…” Che? Giusto cosa, esattamente? Iniziava a temere seriamente le sue trovate improvvise. “Stavi aspettando una qualche ragazza, vero? Come dite voi giovani… ? Ah, ecco: le stavi facendo la posta, giusto?”
Era ufficiale: voleva morire. Istantaneamente, se possibile.
Il campanello lo salvò in corner, attirando l’attenzione della signora.
“Ah, quella benedetta ragazza. E dire che ha le chiavi.” E si alzò, dirigendosi verso l’ingresso. Matteo sospirò, sollevato, mentre il gatto gli si avvicinava e lo annusava brevemente. Gli toccò il naso con la punta dell’indice, facendolo arretrare, e decise che la sua visita era stata fin troppo lunga; non appena la signora fosse tornata, se la sarebbe svignata.
“Ce l’ho in studio; vado a prendertelo subito, cara.” Stava intanto dicendo quella. “Accomodati pure in soggiorno, intanto. Almeno terrai compagnia al mio giovane ospite mentre ti cerco il libro.”
“D’accordo, zia.” Rispose un’altra voce. Matteo rizzò le orecchie: gli pareva di averla già sentita, da qualche parte. Spalancò gli occhi, quando realizzò a chi apparteneva.
Alzò gli occhi appena in tempo per vedere Erica Bassi sull’ingresso del salotto che lo fissava confusa, levandosi una ciocca di capelli rossi dal viso.
“E che ci fai qui, Carinni?”
’Merda.’
“Vi conoscete, cara?” chiese Chiara, lievemente confusa.
“È un compagno di classe.”
“Oh. Oh!” parve improvvisamente realizzare una cosa, e Matteo sussultò interiormente: l’espressione di improvvisa comprensione che le si era dipinta in volto non prometteva nulla di buono.
“Come mai sei qui, Carinni?” ripeté Erica.
“Ti faceva la posta, cara.” Rispose la zia per lui, lasciandolo completamente senza parole mentre se ne andava chissà dove. Spostò gli occhi da Bassi, vergognandosi come un ladro: voleva morire. Di nuovo. Voleva morire per poi resuscitare e morire di nuovo. Non chiedeva poi molto, no?
“Allora… sei qui per farmi la posta, eh?”
“No!” sbottò subito, alzando la testa di scatto. “C’è un malinteso! È quella che…” ma s’interruppe di colpo: Bassi lo guardava divertita, trattenendosi a stento dallo scoppiargli a ridere in faccia. Lui chinò la testa e alzò la mano destra in segno di resa. “Immagino lo sapessi già.”
“Diciamo che non sei il primo sventurato che mia zia rapisce per farle da portaborse.” Ridacchiò, sedendosi sulla poltrona. Il gatto le si fece subito vicino, iniziando a fare le fusa mentre lei lo coccolava.
“Lo fa tutti i giorni?”
“Nah, solo il sabato, quando fa la spesa per la settimana. Di solito riesco a raggiungerla in tempo per evitare che assalti qualcuno, ma oggi è arrivata in anticipo.”
“Sono sempre puntualissima, io.” Ribatté la zia, entrando improvvisamente nella stanza e porgendole un libro; pareva divertita, notò Matteo, e la cosa lo preoccupava non poco. “E comunque non faccio nulla di immorale, anzi: aiutare una vecchia signora zoppa a portare le borse per cinque piani di scale non potrà portare che bene all’altra persona.”
“Zia, tu non sei zoppa e quel bastone te l’ho regalato io per prenderti in giro al tuo ultimo compleanno.”
“Ed è stato il migliore regalo che tu mi abbia mai fatto da che sei al mondo, cara.” Ribatté prontamente, sorridendole gentilmente e con una punta di orgoglio ben visibile. “Ma lasciamo perdere i dettagli che mi fanno passare quasi per una truffatrice seriale e ricordiamoci che sotto inchiesta qui non sono io, ma il ragazzo che ti faceva la posta sotto al palazzo.”
“Carinni è qui per prendere un libro in prestito, zia. Me l’ha chiesto stamattina ed è arrivato in anticipo. Aspettava giù che scendessi io perché non sapeva a quale piano abitassi e non ha il mio numero di cellulare.”
“E, ovviamente, i citofoni non esistono.”
“Non con il mio cognome. C’è ancora solo quello di mamma sul nostro, ricordi?”
La donna la guardò palesemente scettica, ma si limitò ad incrociare le braccia al petto e non fece commenti.
“Su, Carinni, andiamo ora: abito su questo pianerottolo, ci metteremo due minuti a prendere il libro.”
Matteo non si sarebbe mai aspettato che gli venisse lanciata un’ancora di salvezza. Se non avesse temuto di perdere la già poca autostima che aveva, avrebbe potuto commuoversi seriamente.
Si alzò rapidamente, salutando l’anziana donna con un cenno del capo.
“Arrivederci, signora. È stato un… uhm, piacere conoscerla.”
Lei sospirò, guardandolo con espressione scettica.
“Ragazzo, sappiamo entrambi che non vedi l’ora di andartene da qui, quindi vai pure in pace e grazie dell’aiuto.” E gli porse la mano; Matteo la strinse titubante. “E torna pure a fare la posta a mia nipote, sabato prossimo. Un po’ d’esercizio fisico non ti farebbe male, e le borse della spesa pesano.” Lui ridacchiò nervosamente. “Dico sul serio, ragazzo. Sei gracilino.”
Erica rise apertamente e si avvicinò alla zia, baciandola sulle guance.
“Ciao, zia. E grazie per il libro.”
“Di nulla, cara.” Rispose, accompagnandoli verso l’uscita.
Una volta che la pesante porta di legno si fu richiusa dietro di loro, Matteo si permise di tirare un sospiro di sollievo.
“Grazie, Bassi, ti devo un favore. Ci vediamo lunedì a scuola.” Borbottò, facendo per scendere le scale. La voce di Erica lo bloccò.
“Dove vai ora?”
“A casa?” fece lui, dubbioso, voltandosi verso di lei che aveva un mazzo di chiavi in mano.
“Carinni, entra che ti do il libro.”
“Ma…”
“Andiamo, Carinni, non farti pregare. Non avrai paura che ti mangi, spero.”
Come ogni altro uomo su questo pianeta, anche Matteo soffriva di quel male orribile chiamato ‘orgoglio maschile’ che, quando viene pungolato, fa più danni dell’uragano Cathrina. Inoltre, rifletté velocemente, osservare semplicemente una persona dall’esterno non bastava certo a comprenderla. Avvicinarsi al suo ambiente poteva non essere male. Sempre per il bene della scienza, ovviamente. E sì, era anche curioso, ma questo era un dettaglio irrilevante.
Quindi si avvicinò alla porta dell’appartamento di Bassi e aspettò pazientemente che lei aprisse.
“Ti avverto, è tutto in un disordine osceno. D’altronde, non aspettavo ospiti oggi.”
“Non hai mai visto la mia stanza.” Lei ridacchiò e girò la chiave nella toppa, aprendo.
La prima impressione che Matteo ebbe di casa Bassi fu di un turbine caotico di colori. Permeavano tutto: dai mobili ai quadri astratti appesi alle pareti, e perfino il pavimento, erano un tripudio di giallo, rosso, blu e arancione. Per certi versi, gli dava l’impressione della casa di un artista con evidenti ispirazioni hippie.
“Tua madre è un artista, Bassi?” chiese, seguendola attraverso il salotto e guardandosi in giro, curioso.
“Nah.”
“Musicista?”
“Cardiochirurgo.” Rispose, entrando in quella che Matteo ritenne essere la sua camera: rispetto a quello che aveva visto finora era piuttosto semplice e decisamente più sobria, in cui i colori vivaci lasciano spazio ad un più rilassante azzurro. Erica si avvicinò alla libreria, cercando velocemente un tomo e prendendolo, per poi sfogliarlo velocemente.
“Ah.” Fece lui, sorpreso. “Allora lo è tuo padre?”
“Nah, è un professore. E la casa l’ha arredata mia madre.”
“Oh.”
Lei fece spallucce.
“Ama gli anni sessanta ed è affascinata dallo stile di vita hippie. E no, non chiedermi cosa possa trovarci un cardiochirurgo nei figli dei fiori perché ancora non l’ho capito nemmeno io.” Chiuse il libro e glielo porse. Lui fece per prenderlo, ma lei lo ritrasse.
“Prima mi dici perché eri fuori dal mio palazzo alle quattro del sabato pomeriggio.”
Matteo si accigliò al suo tono sospettoso.
“Passeggiavo.” D’accordo, mentire non era politicamente corretto, ma piuttosto che dirle la verità si sarebbe auto appeso per i pollici in una cantina umida.
“Tu abiti vicino a Porta Venezia, Carinni. È un po’ lunga come passeggiata, da lì fino a Crocetta.”
“Aspettavo un amico.”
“I tuoi amici abitano vicino a Lambrate. Se ti inventi una balla evita di sottovalutare così la mia intelligenza ed inventatene una migliore, per favore. Così è umiliante.”
Lui distolse automaticamente gli occhi e storse il naso, ma non disse nulla. Calò per qualche secondo il silenzio, interrotto poi da Erica.
“Oh.”
“Cosa?”
“Oh!”
Matteo alzò scocciato gli occhi: la Bassi lo guardava con sguardo furbo e le braccia incrociate al petto.
“Sei venuto a controllare se mi divertivo a volarmene in giro a cavallo di una scopa, ammettilo!”
“Non dire assurdità, Bassi.” Sbottò, senza potersi impedire di distogliere lo sguardo e arrossire imbarazzato.
“Beccato, Carinni.” Ridacchiò divertita, sedendosi sul piano della scrivania e guardandolo ironica. “Allora, non me lo chiedi?”
“Cosa?”
“Se sono una strega o no.”
“Non essere ridicola.”
“E se ti dicessi che lo sono?”
Matteo spalancò gli occhi e glieli fissò addosso.
“Non dire idiozie.”
“Chi ti dice che lo siano?”
“Il fatto che sia assolutamente illogico e antiscientifico.”
“La logica è una cosa puramente soggettiva, Carinni. Quanto alla scienza, il mondo è pieno di cose che ancora non è riuscita a spiegare.”
“Tipo?”
“I cerchi nel grano.”
“Ma quella è palesemente una truffa! Non ci crederai sul serio, spero!”
Lei fece spallucce, senza rispondere davvero. Altro silenzio, quindi:
“Mi stai dicendo che lo sei?”
“Cosa? Una strega?”
“Mh.”
“Certo, e con tutto l’armamentario: bacchetta, amuleti, pozioni puzzolenti… La scopa di saggina al momento è a far revisionare, ma dovrebbero recapitarmela direttamente a casa entro un paio di giorni.”
“Davvero?”
“Certo che no.”
“Mi stai prendendo in giro?”
“Mi pare ovvio.” Matteo la guardò accigliato, e lei ghignò. “Evita di fare l’offeso, Carinni: tra i due quello in torto sei tu. Così la prossima volta eviterai di credere a tutte le idiozie che dice la gente, soprattutto a quelle completamente ‘illogiche e antiscientifiche’.” Lo scimmiottò.
Lui affossò le mani nelle tasche: d’accordo, forse – forse – stavolta aveva ragione lei.
“Scusa.” Borbottò; lei rise.
“Per stavolta passi.” E gli porse di nuovo il libro. “Puoi riportarmelo a scuola quando avrai finito di leggerlo.”
Lui lo prese incerto, quindi la fissò.
“Ma, esattamente, perché me lo presti?”
“Perché, anche se ne dubito io stessa, può essere che mia zia ti controlli. A volte è un po’ iperprotettiva, diciamo. Almeno così hai l’alibi assicurato quando passi sul pianerottolo. O preferisci che, la prossima volta che ti vede, ti chieda in mezzo al mondo e ad alta voce se mi stai ancora facendo la corte?”
Lui dipinse velocemente la scena nella sua mente e si mise il libro sotto braccio, in modo che fosse bene in vista dall’esterno.
“Grazie.”
“A buon rendere. E ora vai: la strega ha fame; potrebbe anche mangiarti, sai?” Matteo rise mentre lo accompagnava all’uscita, quindi ringraziò di nuovo con un cenno e uscì, attraversando velocemente il pianerottolo fino alle scale, ignaro del paio d’occhi che non lo perdeva d’occhio dallo spioncino di una della porte.

Vicino all’uscita della metro di Porta Venezia c’era un grazioso parco in cui Matteo amava trascorrere parte del suo tempo libero in tranquillità. Solitamente si sedeva su una delle panchine poste sul viale, quindi vi si sdraiava sopra poggiando la testa alla borsa, le cuffie dell’iPod nelle orecchie, e non pensava assolutamente a nulla per almeno un’ora. Semplice e rilassante, insomma.
Quella domenica uscì di casa verso le tre, in modo da poter rientrare prima che facesse buio, e in meno di cinque minuti stava entrando nel parco. Si diresse automaticamente verso il suo solito posto, spaziando con la mente verso lidi non meglio definiti. Dovette star spaziando un po’ troppo, però, dato che si ritrovò ad inciampare in qualcuno. Ovviamente, in senso letterale: sia mai che la sua imbranataggine patologica conoscesse il significato del termine ‘metaforico’, se non altro per preservarlo dalle figuracce.
“Mi scusi,” sbottò malamente: insomma, chi era l’idiota che s’inchinava nel mezzo del viale di un parco? Pareva fatto apposta per far cadere la gente.
“Figurati, Carinni. In fondo, era solo la mia schiena, e quindi una cosa assolutamente inutile. Che vuoi che sia se la distruggi? Vorrà dire che prenderò esempio dalla zia e mi farò trasportare su e già per mio palazzo da te, da oggi in poi.”
Matteo chiuse gli occhi, rassegnato, quindi li riportò sulla sua vittima giornaliera. Anche se, forse, ‘vittima’ non era la parola adatta da usare quando si riferiva a lei.
“Scusa, Bassi.” Biascicò quindi, alzandosi in piedi a offrendole una mano per aiutarla. “Ero sovrappensiero.”
Lei fece una smorfia divertita e afferrò la mano offertale, rimettendosi velocemente in piedi.
“Mi chiedi scusa spesso ultimamente o mi sbaglio?”
Lui fece una mezza smorfia.
“Che ci fai qui, comunque?”
“Passeggiavo,” replicò lei, pulendosi alla bell’e meglio il cappotto. Lui sbuffò.
“Ti diverte scimmiottarmi?”
“Abbastanza, sì.” Raccolse la borsa da terra e portò dietro l’orecchia un ricciolo sfuggito alla coda che si era fatta. “Mi allacciavo la scarpa, per la cronaca; si è slacciata mentre passeggiavo. Sai, mi piacciono i parchi.”
“E suppongo che quello vicino a casa tua non andasse bene, giusto?”
“Troppa gente la domenica.”
“Perché qui invece non c’è mai nessuno. Dì la verità, Bassi: mi stai seguendo, per caso?”
“Certo, Carinni, è lo scopo della mia vita diventare la tua stalker di fiducia.”
“Ah, ah.”
“E comunque io vengo qui tutte le domeniche da anni.” Lo informò.
“Impossibile: ti avrei vista una volta o l’altra.”
Lei fece spallucce. “Non sarai un grande osservatore, che devo dirti. Piuttosto, oggi non potrai sdraiarti da nessuna parte: le panchine sono piene.”
“Come?”
“Solo perché tu sei disattento non significa che lo sia anch’io, Carinni. Se vedo in giro qualcuno che conosco ci faccio caso.”
“Avresti anche potuto stabilire un contatto, eh.”
Lei lo guardò stupita.
“E perché, scusa? A scuola ci rivolgevamo a malapena la parola; che senso avrebbe avuto farlo qui fuori?”
“Ma che c’entra, scusa? Si tratta di educazione.”
“Non ha comunque senso.”
Lui si passò una mano sulla faccia, improvvisamente esasperato.
“Tu non sei una grande fan dei rapporti interpersonali, vero?”
“No, non proprio.”
“Già, anche a scuola non si può dire che tu sia una che ricerca la compagnia altrui.” Mormorò, più a se stesso che altro. Quindi la fissò seriamente. “Perché?”
“Cosa?”
“Perché non ami i rapporti interpersonali?”
“Perché la gente è completamente pazza, Carinni, soprattutto durante il liceo. E io, sinceramente, di pazzia ne ho già abbastanza nella mia vita senza doverne cercare anche all’esterno.”
“Quindi non hai volontariamente l’intenzione di trovarti degli amici a scuola?”
“Esatto. Vedi che sei bravo, quando ti impegni?”
“Ma devi passare ancora due anni nella nostra classe!” replicò, ignorandola; lei fece spallucce.
“Due anni passano in fretta.” Mormorò, prendendo un sacchetto e entrando nel prato. Matteo la seguì istintivamente.
“E che stai facendo ora?”
“Che ti pare stia facendo, scusa?” mise una mano nel sacchetto e ne estrasse delle briciole, quindi le lanciò in mezzo ad un gruppo di uccelli poco distante da lei. “Do da mangiare ai piccioni, ovviamente.”
“Vieni qui tutte le domeniche a dar da mangiare a dei piccioni?”
“Sì, e allora?”
“Ma perché?”
“Perché sono carini.”
“Ma portano malattie!”
“Anche tu, ma non per questo ti schifo tanto, Carinni.”
“Mi stai paragonando ad un piccione?”
Lei parve rifletterci attentamente qualche secondo.
“Sì, suppongo si possa vedere anche così.”
“D’accordo, ci rinuncio.” Si arrese, accucciandosi di fianco a lei e osservandola nutrire gli uccelli. Che schifo. “Tu sei tutta pazza.”
“Che novità.” Rispose, ridacchiando; quindi prese una manata di briciole e gliele porse. “Vuoi provare?” Lui la guardò scettico, quindi sospirò e tese la mano. Erica vi versò il contenuto della sua e sorrise. “Su, vedrai che non è così male.”
“Immagino…” commentò, gettando qualche briciola. Subito un gruppo di piccioni gli si avvicinò, in cerca di altro cibo, e lui non poté trattenere una smorfia disgustata.
“Dove hai preso quel ciondolo?” chiese, dopo qualche minuto di silenzio. Lei lo guardò sorpresa.
“Uh, l’hai notato?”
“Lo porti sempre anche a scuola. Non sono così cieco, sai?”
Lei annuì e lo tirò fuori da sotto il cappotto, tenendolo alzato in modo che potesse vederlo meglio.
“Che cosa rappresenta?”
“È un nodo celtico irlandese.”
“Sembrano tre petali intrecciati…”
“È un trifoglio, quindi direi che hai indovinato.” Rise lei, guardando con affetto il monile.
“Sì, beh… È davvero bello, comunque.”
“Mh-mh.”
“Chi te l’ha regalato?”
Lei ghignò appena, rimettendo la collanina a posto sotto al cappotto.
“Senza offesa, Carinni, ma non ti sei ancora guadagnato la possibilità di conoscere i fatti miei.”
“E come potrei farlo, allora?”
“Ah, non ne ho idea, sei tu l’esperto tra i due; io non sono una fan dei rapporti umani, ricordi?”
Matteo inclinò la testa e fece una smorfia, ma non insistette. Rimasero in silenzio per i minuti successivi, finendo il contenuto del sacchetto e attirando sempre più animali intorno a loro. A dispetto del ribrezzo iniziale, alla fine Matteo riuscì quasi a trovarli sopportabili. Quasi.
“Posso farti una domanda?”
“Dimmi.”
“Come mai ieri non hai considerato la possibilità che stessi davvero aspettando sotto casa perché mi interessavi?”
“Sinceramente?”
“Sì.”
“Perché chiunque non abbia due fette di salame sugli occhi e non sia completamente idiota si è accorto che ti piace la Carsi.”
“Merda.” Si passò una mano sulla faccia e sospirò, rassegnato. “Sì, non dirmelo nemmeno: so da solo di essere patetico.”
Erica inclinò la testa, confusa.
“Perché?”
“Beh, so da me di non avere speranze con una del suo livello e che dovrei puntare più in basso.”
Lei fece una smorfia, gettando l’ultima manciata di cibo ai piccioni.
“Io stavo per dirti che dovresti puntare più in alto, ma vabbé.”
“In che senso?”
“Beh, ad una che abbia più neuroni di un batterio, per esempio.”
“I batteri non hanno neuroni.”
“Appunto.”
Di nuovo, Matteo non ribatté nulla, quindi i due ragazzi si rialzarono, pulendosi le mani dalle briciole residue e infilandole poi nelle tasche per proteggerle dal freddo.
“A domani allora, Bassi.”
“Erica, prego: hai dato da mangiare ai piccioni; almeno la possibilità di chiamarmi per nome l’hai meritata.”
Matteo ridacchiò: forse era meno asociale di quanto dava a vedere, in fondo.
“Allora a domani, Erica.”
“A domani, Carinni.”
“Teo, prego: mi hai salvato da tua zia; almeno la possibilità di chiamarmi per nome l’hai meritata.”
“Nah, grazie. Preferisco chiamarti con il nome completo: i diminutivi sono sminuenti.”
Lui alzò un sopracciglio.
“Ti ho già detto che sei pazza, vero?”
“Sì, ma è bello sentirselo ripetere, ogni tanto. Fa bene all’autostima.”
“Contenta tu,” rise lui, avviandosi verso l’uscita del parco e salutandola con un cenno della mano. “A domani, Erica.”
“A domani, Matteo.”

“So chi ti ha regalato quel ciondolo.” Esordì Matteo quel lunedì mattina all’intervallo, sedendosi al banco davanti a quello di Erica. Lei, che stava riguardandosi degli appunti di matematica mentre si mangiava una mela, lo guardò confusa.
“Come, prego?”
“Il ciondolo,” ripeté, indicandolo con l’indice. “So chi te l’ha regalato.”
Lei ghignò con aria di sfida e posò il libro. Diede un grosso morso alla mela, studiandolo.
“Sentiamo.”
Lui rispose al ghigno, sistemandosi meglio gli occhiali e incrociando le braccia al petto.
“Ho fatto una ricerca: quello è il nodo di Tyrone. Le due linee parallele intrecciate che formano il trifoglio simboleggiano la vita di una persona e quella dell’amato. Ergo, te la regalata il tuo fidanzato.”
“Chi ti dice che non l’abbia comprata io, scusa?” e diede un altro morso alla mela, guardandolo ironica. Matteo le puntò l’indice contro, riflettendo.
“D’accordo, questo è possibile.” Concesse. “Ma la mia versione è migliore.”
Lei rise apertamente.
“Poi sono io la pazza, vero?”
“I geni come me sono sempre pazzi.”
“Ah-ah.” Lo studiò qualche secondo, quindi inclinò la testa di lato. “Perché ti interessa sapere chi me l’ha regalato?”
“Perché sono un uomo di scienza, e quindi curioso come una scimmia per natura.”
Erica socchiuse gli occhi e lo guardò attentamente qualche secondo, quindi sospirò, si sistemò meglio sulla sedia e si sporse verso di lui, alzando un dito.
“Normalmente ti concederei una sola domanda ma, dato che ti sei sprecato fare delle ricerche, salgono a quattro; giocatele bene.”
“Mmmh… Dando per scontato che il misterioso fidanzato esista, dove abita?”
“Irlanda.”
“Una relazione a distanza, quindi. E funziona?”
“A quanto pare sì. Fuori due, te ne restano altrettante.”
“Ma… !”
“L’intervallo sta per finire, Matteo. Sbrigati.”
Fece una smorfia e rifletté qualche secondo. “Dati anagrafici?”
Lei ghignò. “Connor Wilde – e no, ti risparmio la domanda, non c’entra nulla con Oscar – diciotto anni, abita nella contea di Waterford. Capelli neri, occhi castani, sembro più irlandese io di lui, a vederci insieme.” Matteo gettò un’occhiata di sfuggita ai capelli rossi e agli occhi verdi della ragazza, quindi alle lentiggini sul viso, e non poté darle torto. “Vuoi anche peso e altezza o posso evitare?”
“Evita pure.”
“Bene, l’ultima domanda?”
“Mmmh… Come l’hai conosciuto? Insomma, l’Irlanda non è esattamente dietro l’angolo…”
“Oh beh, questa è facile: è il nipote della zia Chiara. Qualche volta è venuto a trovarla qui a Milano, altre è stata la zia ad andare a trovare la sua famiglia e io l’ho accompagnata.”
“Quindi è tuo cugino?!”
“Certo che no, genio. A parte il fatto che non lo sarebbe in ogni caso, ma non ho legami di sangue con la zia.”
“Uh? Intendi dire che è una zia acquisita?”
Sbuffò. “No, scimmia. Tecnicamente, io e lei non siamo imparentate, ma vivendo una accanto all’altra quand’ero piccola si prendeva cura di me. Le piacciono i bambini ma non ha figli, quindi le faceva piacere avermi per casa. Praticamente è come una seconda madre, per me.”
“Oh. Sembra bello.”
“Lo è.” Affermò lei, sicura. “E tu hai finito le domande che avevi a disposizione.” Disse, dando un ultimo morso alla mela e gettando il torsolo in un sacchetto di plastica. Matteo stava già per ribattere qualcosa quando sentì la campanella.
“Dì la verità, hai orchestrato tutto tu perché suonasse ora, vero?”
“Certo. Sono una strega in fondo, no?”
Lui ridacchiò e si alzò in piedi, facendole un cenno con la mano.
“A dopo, Erica.”
“Uh-uh.” Fu la sua laconica risposta.

Da quel giorno, lentamente Matteo scoprì sempre nuove cose riguardo Erica Bassi, la strega della prima C come alcuni ancora la chiamavano. Per esempio, che era nata l’otto maggio, che odiava il caldo asfissiante dell’estate milanese, e che il suo fiore preferito era il girasole. Aveva inoltre intenzione, una volta diplomatasi, di trasferirsi in Irlanda, Paese che amava follemente, e di studiare lì veterinaria.
“Per questo ti impegni così tanto in inglese?”
Lei alzò un sopracciglio.
“Quello mi piace di per sé. Per vivere in Irlanda dovrei imparare anche il gaelico, ma Connor mi sta già aiutando.”
“Non è come l’inglese?”
Lo guardò con un compatimento tale da farlo arrossire.
“No, e non dire mai una cosa del genere di fronte a un irlandese, chiaro?”
Scoprì inoltre che i suoi genitori erano tornati assieme dopo due anni, e che lei si era ritrasferita nello stesso palazzo in cui aveva vissuto fin da piccola. La riappacificazione dei genitori era anche il vero motivo per cui si era spostata nel loro liceo: se durante i primi due anni di superiori aveva vissuto col padre ed era quindi più vicina alla sua vecchia scuola, ora che le cose erano cambiate aveva optato per un edificio scolastico più vicino a casa. Altro che strega, Erica era semplicemente troppo pigra per andare ad un liceo dall’altra parte della città. Si diede dell’idiota quando lo scoprì.
Insomma, nel giro di un paio di settimane, contro ogni possibile previsione iniziale, Matteo si ritrovò a sapere più cose su quella ragazza di quanto avesse potuto immaginare inizialmente, e la cosa non gli dispiacque.
Ma si sa, quando tutto sembra andare bene, è segno che i problemi non tarderanno molto ad arrivare.
Nel nostro caso, in particolare, il disastro avvenne il quarto mercoledì dopo alla nascita della loro ancora traballante amicizia.
La sera precedente Matteo era andato a dormire stranamente debilitato – colpa dei piccioni che nutriva la domenica pomeriggio con Erica, avrebbe potuto scommetterci. Quegli ingrati – e la mattina si era alzato in uno stato ancora peggiore; il termometro confermò i sospetti materni segnalando una temperatura corporea di trentasette gradi e otto.
“Mi pareva strano che non avessi preso l’influenza, quest’anno.” Commentò sua mamma, spegnendo il termometro elettrico e guardandolo preoccupata. “Dovresti restare a casa, oggi. Ci manca solo che ti si alzi ancora di più la febbre.”
Matteo l’ignorò, rabbrividendo appena nonostante l’appartamento fosse tiepido, e prese la cartella.
“Compito in classe di greco alle ultime ore, oggi. Rimarrò a casa domani.”
“Sicuro?”
“Ah-ah.” Chiuse meglio che poteva il cappotto e la salutò con un cenno della mano.
Riuscì in qualche modo a tirare fino all’intervallo, cercando di ignorare l’intontimento causatogli dalla febbre e concentrandosi su quello che dicevano i professori.
“Su Teo, mancano solo altre due ore.”
“Meraviglioso. Ora, per favore, porta via queste patatine.” Borbottò, spostandole il più lontano possibile da sé e cercando al contempo di trattenersi dal vomitare. Odiava avere la nausea.
“Carinni!”
“Arriva la Carsi.” Mormorò Luca. “È tutta tua. A dopo, Teo”
Matteo di voltò verso Jessica; forse era l’intontimento dell’influenza, ma non gli fece un grande effetto ritrovarsela vicino improvvisamente. Una volta, se solo avesse potuto, si sarebbe messo a scodinzolare felice. Cielo, patetico.
“Allora Carinni, come va?” chiese, giocando con finta innocenza con una ciocca di capelli.
“Non molto bene, a dire il vero.”
“Ma dai, che peccato!”
“Senti, Jessica, se è per il compito di greco mi spiace, ma non credo ti convenga copiare da me, oggi. Non sono molto in me.”
“Oh, ma non è per questo che sono qui.” Matteo alzò un sopracciglio, palesemente scettico, e Jessica sorrise. Era stupido, e lo sapeva anche lui, ma quel sorriso lo rendeva sempre arrendevole come un bambino: lei lo faceva e lui non poteva rifiutarle nulla. Patetico.
“No?”
“No, mi metto vicino a Carlo, oggi; mi aiuterà lui.” Lui fece una smorfia, ma lei l’ignorò. “Sai, ho saputo che hai fatto amicizia con la Bassi, ultimamente.”
“Ah-ah.” Non riusciva a cogliere i punto.
“E niente, mi chiedevo se le voci che avevo sentito su di lei fossero vere o no.”
All’intontimento influenzale si aggiunse quello provocato dall’eccessiva vicinanza della ragazza: la sua maglietta troppo scollata e il profumo così dolce da stordire i suoi già provati sensi, diedero il colpo di grazia ai suoi neuroni.
“Uh?”
“Ma sì, che sia una strega e il resto… Sei stato a casa sua, magari?”
“Uh-uh.”
“E non c’era nulla di strano?”
“Strano?” ripensò vagamente all’arredamento assurdo che aveva visto nel salotto. “Beh, strana è strana, come casa.”
“Davvero?” pareva entusiasta, ma Matteo non sarebbe riuscito a dire esattamente il perché. Si era avvicinata ulteriormente, però, ed era certo che questo non fosse esattamente un bene.“Hai visto qualche amuleto strano in giro o qualcosa di simile?”
“Amuleto?” chiese, confuso. “Intendi dire il ciondolo?”
“Ne ha uno vero, quindi!” Gettò un’occhiata verso il banco in cui Erica ripassava silenziosamente, quindi gli si piazzò a pochi centimetri dalla faccia, costringendolo ad indietreggiare. “Ed è quello, vero? A che serve?”
“Uh? È solo un nodo celtico per proteggere il legame tra due fidanzati…”
“Un amuleto d’amore! Allora ne fa davvero!” il suo sguardo gli fece paura. Sembrava improvvisamente un’invasata.
“No, non ho detto questo. Io ho solo…”
“Grazie mille, Carinni. Ci vediamo!” e gli mandò un bacio al volo mentre si allontanava correndo.
Matteo non era esattamente certo per cosa dovesse essergli grata ma un vocina, dentro di lui, gli disse che era nei guai. Grossi guai. Si chiese perché non aveva ascoltato il consiglio di sua madre e non era rimasto a letto, quella mattina.

Nei giorni successivi, Matteo praticamente non si mosse di casa. Ne uscì soltanto il lunedì mattina per tornare a scuola, e lo fece decisamente preoccupato: mentre la febbre calava e la lucidità che lo caratterizzava tornava, aveva avuto modo di ripercorrere la sua conversazione con Jessica del mercoledì precedente. Il ricordo era un po’ confuso, ma abbastanza chiaro per rendersi conto di aver fatto un guaio a parlare tanto. Non aveva avuto l’intenzione di rafforzare le assurde voci su Erica, ma qualcosa gli diceva che era proprio così che Jessica le aveva interpretate: una conferma ai pettegolezzi. E, conoscendola, a questo punto non se ne sarebbe certo stata zitta. Doveva riuscire a parlare con Erica in modo da chiarire, e doveva farlo in fretta.
Che le cose fossero precipitate gli fu però chiaro nel momento stesso in cui entrò in aula: d’altronde, l’occhiata omicida che Erica gli lanciò era difficilmente fraintendibile. Tentò un cenno della mano per salutarla, ma quella assottigliò ancora di più gli occhi e voltò la testa da un’altra parte. Sconsolato, Matteo si diresse mestamente verso il suo banco e si sedette: in fondo, se l’era meritato, no?
Benché avesse pensato che fosse impossibile, la situazione peggiorò ulteriormente all’inizio dell’intervallo, quando il professore le si avvicinò e l’informò che il preside voleva parlarle. Matteo la vide lanciargli un’occhiata piena di rancore e seguire il professore fuori dalla classe, stranamente rigida, e il suo senso di colpa si acuì ulteriormente. Due minuti dopo salutò gli amici e corse nei corridoi fino all’ufficio del preside; si fermò davanti alla porta chiusa e vi si sedette accanto, aspettando che dentro avessero finito, controllando continuamente l’orologio per monitorare il tempo che ci avrebbero messo. Non che avesse molta importanza: se non fossero usciti al suono della campanella, avrebbe continuato ad aspettare. Fu fortunato, però: meno di dieci minuti dopo che era arrivato lì, la porta si aprì ed Erica uscì con il sorriso sulle labbra, strinse la mano del preside e chiuse l’uscio dietro di sé, salutandolo cordialmente. Il riso le morì sulle labbra nel momento stesso in cui lo vide.
“Rivolgimi ancora la parola e ti scuoio. E non sto scherzando.”
“Erica…”
“Dei del cielo, le hai detto che fabbrico amuleti e faccio pozioni d’amore in casa? Ma sei scemo?”
“Prima di tutto, io ho solo parlato di un amuleto, e non nel senso che intendeva lei. È stata Jessica a ricamarci sopra, e tu lo sai.”
“Rimane il fatto che tu gliel’abbia detto, e che quella… quella… quel batterio abbia sparso ai quattro venti la cosa, confermando al mondo che di notte giro a cavallo di una scopa! E tutto perché tu non sai dire di no ad un paio di tette!” stava camminando velocemente verso la classe, parlando a voce bassa e iniettata di veleno.
“Ma riuscivo a malapena a capire quello che mi diceva! Non ho fatto apposta, lo sai!”
“Non me ne frega nulla se l’hai fatto intenzionalmente o meno!”
“Pensavo che non ti interessassero le voci che circolavano su di te.”
“Infatti. Ma nel momento in cui le balle diventano talmente grandi da farmi convocare nell’ufficio del preside, che mi interroga minacciando velatamente di chiamare i miei genitori se dovesse scoprire che truffo i miei compagni con falsi amuleti et similia, le cose cambiano. E la colpa è tua, Carinni!”
“Sei tornata al cognome, ora?”
“Perché, ti meriti altro? E con questo ho concluso, Carinni. Evita di rivolgermi ulteriormente la parola, grazie.”
E lo lasciò davanti all’ingresso della loro aula, completamente immobile e senza parole. Improvvisamente, capì che chi aveva detto per primo che l'inferno non è mai tanto scatenato quanto una donna offesa, probabilmente conosceva Erica Bassi di persona. E no, la cosa non gli fu di nessuna consolazione.

Un’altra cosa che Matteo scoprì su Erica Bassi, dopo quel giorno, fu che quando diceva ‘non rivolgermi più la parola’ lo intendeva letteralmente.
Se prima di quel famoso sabato si erano scambiati giusto i saluti e le quattro frasi indispensabili per mantenere un rapporto di pacifica convivenza, dopo il lunedì della convocazione dal preside non lo degnò più nemmeno di un politicamente corretto ‘ciao’. Ed era inutile che lui tentasse di attaccare bottone, perché l’occhiata rancorosa che gli scoccava ogni volta lo faceva desistere ancor prima di aprire bocca.
Nella convinzione che alla fine la rabbia sarebbe scemata, tollerò quella situazione fino al sabato di quella stessa settimana. E, dal suo punto di vista, fu fin troppo. La domenica pomeriggio, quindi, indossò il cappotto e uscì, rabbrividendo appena: la giornata era limpida e fredda, ed era certo che Erica sarebbe stata al solito posto nonostante la loro lite. In fondo, non avrebbe mai permesso che i piccioni ci rimettessero per colpa sua. Certo, il fatto di essere al di sotto di quei topi volanti nella sua scala di preferenze era umiliante, ma se fosse servito a qualcosa valeva la pena.
Dieci minuti dopo entrò nel parco, si guardò attorno e, come si era aspettato, Erica era al solito posto a distribuire briciole agli uccelli con un sacchetto in mano. Le si avvicinò lentamente, fermandosi quindi a un paio di metri da lei, pensando a come attaccare bottone. Quindi fece l’unica cosa che gli venne in mente: si portò di qualche passo in avanti e le inciampò di nuovo addosso. Volontariamente, stavolta.
“Carinni, sei un’idiota!” sbottò lei, guardandolo di sbieco.
“Ehi, mi hai parlato!”
“Che bisogno c’era di inciamparmi addosso e di farmi cadere?” continuò, ignorandolo. “In questo prato ci fanno i bisogni i cani!”
“Mi ignoravi completamente,” rispose lui come se fosse naturale, per nulla pentito.
“E c’era bisogno di farmi stendere in mezzo al parco?”
“Non ti fanno schifo i piccioni e te ne fa questo?”
“Certo che sì, cretino!”
Si guardarono negli occhi qualche secondo, quindi Matteo si rialzò in piedi e le sorrise dall’alto.
“Però mi hai parlato.”
Erica chinò la testa, arrendendosi.
“Dammi una mano a rimettermi in piedi, idiota.”
Ridendo, Matteo ubbidì, quindi si sporse verso di lei.
“Sei ancora arrabbiata?”
“Per essermi probabilmente ritrovata sopra a qualche pipì di cane? Puoi giurarci.” Sbottò, sistemandosi il cappotto.
“Lo sai per cosa.”
Gli lanciò un’occhiata di sottecchi, quindi raccolse da terra il sacchetto e vi guardò dentro.
“Sì.” Lui la guardò triste e lei sospirò pesantemente, prendendo una manciata di briciole e porgendogliela. Lui sorrise lievemente e la accettò, iniziando a distribuirla tra gli uccelli che, passato il trambusto provocato dalla caduta, stavano tornando. “Non ce l’ho con te, comunque.” Riprese lei qualche secondo dopo. “C’è l’ho con Carsi. Non lo sopporto quell’inutile batterio. E non osare difenderla.” Lo avvertì, dura.
“Non ne avevo l’intenzione.” Le assicurò, e lei continuò:
“Con te sono stata arrabbiata per i primi venti minuti, più o meno. Ero… delusa, credo. Che la gente mi parli alle spalle non mi interessa, ma se lo fa un amico… Beh, lì mi scoccia, diciamo.”
“Mi spiace, Erica. Dico sul serio. Ma non l’ho fatto intenzionalmente: non ero nemmeno sicuro di quel che dicevo, tanto ero stordito dall’influenza e dal profumo di Jessica.”
“E dalle sue tette.”
“Anche, sì.” Ammise, controvoglia.
“Sai, sei piuttosto pervertito per essere un secchione tutto casa e scuola.”
“Ehi! E i piccioni dove li metti, scusa?”
Lei ridacchiò.
“D’accordo, casa, scuola e piccioni. Meglio?”
“Direi di sì.”
“E comunque avevo capito che non l’avevi fatto per cattiveria e che avrei dovuto mirare solamente all’eliminazione fisica di Jessica, solo che non volevo ammettere di aver sbagliato anch’io. Poi odio rimangiarmi la parola.”
“Oh, questo l’ho notato. Avevo paura a guardarti, questa settimana.”
“La mia occhiata assassina è meravigliosa, vero?”
“Molto convincente, sì. Comunque evita l’eliminazione fisica di Jessica: non per altro, ma in cella potresti avere difficoltà ad andare in Irlanda.”
“Oh beh, dipende: potrebbero darmi un premio per aver liberato il mondo da un parassita.”
“Pensavo fosse un batterio.”
“Quella è un batterio parassita. Dovresti puntare più in alto, te l’ho mai detto?”
“Sì. E credo che tu abbia ragione.”
“Come sempre, del resto.” Ignorò l’occhiata scettica che le lanciò, e continuò come se nulla fosse. “Quindi ti troverai una ragazza con della materia grigia attiva?”
“Possibilmente.”
“Bravo Matteo.” Disse, accartocciando il sacchetto ormai vuoto e iniziando a camminare verso l’uscita del parco. “Sai, la sorella di Connor è molto carina e vuole diventare avvocato. Materia cerebrale funzionante, insomma. Sei interessato?”
“Le relazioni su lunga distanza non mi convincono molto, sai?”
“Bah, sciocchezze. Basta avere un po’ di costanza nel tenersi in contatto.” Gettò il sacchetto in un cestino e si voltò verso di lui. “Senti, Connor e la sua famiglia vengono a trovare la zia quest’estate. Almeno conoscila, magari ti piacerà.”
“Vedremo.” Le concesse.
Erica continuò a parlargli di quello che aveva in mente per farli incontrare in modo che tutto filasse alla perfezione, sciorinandogli al contempo le meravigliose qualità della sua futura cognata, e Matteo la lasciò fare senza interromperla: in fondo, ritrovare un’amica valeva ben un’ora di ciarle continue per fargli trovare una fidanzata, no?

In un’altra parte della città, una donna passò la mano su un piccolo calderone di peltro, facendo sparire all’istante l’immagine dei due ragazzi che entravano in un bar a prendere qualcosa di caldo. Un gatto rosso saltò sul tavolo dietro di lei, prendendo a guardarla con occhi assottigliati.
“Hai finito di spiarli, Chiara?” disse l’animale. Chiara Vanni si voltò verso lui, sorridendo in modo innocente.
“Giusto ora, Alexander.” L’informò, facendo sparire la pozione contenuta nel paiolo con uno schiocco di dita.
“Tutto sistemato?”
“Ovviamente. Erica è una gran testarda, ma quel ragazzo sta riuscendo a capire come prenderla. Sarà un buon amico per lei.”
“E la sua vita sociale dovrebbe essere un buon motivo per interferire nella vita altrui, suppongo.”
Chiara lo guardò indignata.
“Interferire? Io? Mai fatto.”
Se non fosse stato un gatto, in quel momento forse Alexander avrebbe sollevato un sopracciglio, scettico.
“E immagino che quella domenica i lacci della scarpa di Erica si siano slacciati da soli, ovviamente.”
“Certo che sì.”
“Oh. E suppongo che quel povero ragazzo sia inciampato casualmente su Erica, in mezzo ad un parco, il giorno dopo averla incontrata qui da te.”
“Ovviamente.”
“Sei sempre stata una pessima bugiarda, Chiara. Lo sai, vero?”
Lei si voltò e uscì dalla cucina, e Alexander le si fece subito dietro.
“Oh beh, forse una spintarella l’ho data, ma non ho interferito, sia chiaro: si sarebbero comunque incontrati di lì a poco. Io l’ho visto, ricordi?”
“Aspettare che accadesse da solo sarebbe stato troppo, suppongo.”
“Sono mai stata un persona paziente?”
“No.” Ammise malvolentieri il gatto. “E per quanto negli anni abbia tentato di limare questo tuo difetto, devo riconoscere di non esserci riuscito affatto.”
“Insomma, Alexander, che altro potevo fare? Quella ragazza aveva intenzione di vivere isolata per i prossimi due anni. Quale madre lo avrebbe permesso?”
“Tu non sei sua madre.” Le ricordò, salendo sul divano e acciambellandosi su un cuscino.
“Non di sangue, forse. Ciò non toglie che sia una figlia, per me.” Il gatto sbadigliò, accettando di buon grado le carezze che la sua padrona gli fece. Lei sorrise, biascicò un “Famiglio brontolone” appena udibile e gli si sedette accanto, iniziando a coccolarlo. Subito lui iniziò a fare le fusa, soddisfatto dei grattini. Sorridendo lievemente, Chiara lasciò che la mente tornasse alla nipote: sapeva quanto avesse sofferto quando i genitori si erano separati, così come quanto le mancasse Connor. Il fatto che fosse troppo orgogliosa per ammetterlo non toglieva che lei, che la conosceva da sedici anni e l’aveva cresciuta, lo capisse perfettamente anche senza prove tangibili. Così come capiva anche quanto Erica avesse bisogno di un amico della sua età; e Matteo Carinni era un bravo ragazzo, nonostante fosse anche un imbranato di prima categoria. Sarebbe stato un buon amico, ne era certa. Guardando Alexander che sonnecchiava sul divano, Chiara pensò che forse, finalmente, le cose sarebbero iniziate ad andare veramente bene.






Note dell’autrice:
Sarò breve perché sono di fretta. XD
Allora, per saperne di più sui nodi celtici, andate QUI. Il nodo di Tyrone, ovvero quello che ho usato in questa storia, è il quattordicesimo della lista.
Seconda cosa, la Contea di Waterford esiste realmente ed è una delle conteee in cui la Repubblica d’Iralanda è suddivisa. Andate QUI per saperne di più.
Ultima cosa, le citazioni usate nella storia, come da bando, sono le seguenti:
- Gli indugi hanno fini pericolose.
- L'inferno non è mai tanto scatenato quanto una donna offesa.
Ho inoltre inserito una terza citazione esterna al bando, ovvero: ‘se qualcosa può andar male, lo farà’, che è la Prima Legge di Murphy.

 

 

Ringrazio vivamente Alektos per aver emanato il bando del concorso e per la rapidità e dettagliatezza del giudizio, nonché Rowena per aver partecipato con una così bella storia che vi consiglio sinceramente. ^^ Grazie anche a voi che avete letto e a chi commenterà. ^^

Besos x3

  
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