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Autore: memi    25/12/2009    1 recensioni
C’erano le luci, e le candele, e i dolci, e le vetrine, e c’erano i regali. Una montagna indescrivibile di regali.
C’era il fuoco acceso nel camino, c’erano le stelle di Natale, c’erano i sorrisi, c’erano gli abbracci, c’erano i baci.
E poi c’era il Carriott. Ed ogni cosa – tutto – diveniva come amplificato. E traboccante.

Sulle note delle canzoni natalizie e sullo sfondo del Carriott Hotel, New York, si dispiegano incontri e scontri, amori e delusioni, gioie e dolori, in un vortice apologetico come le luci sull'albero di Natale. Perché a volte basta poco per sentirsi a casa. E perché non sempre bisogna andare lontano, per trovare la vera felicità.
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Christmas Carriott

 

 

C’erano le luci, e le candele, e i dolci, e le vetrine, e c’erano i regali. Una montagna indescrivibile di regali.

C’era il fuoco acceso nel camino, c’erano le stelle di Natale, c’erano i sorrisi, c’erano gli abbracci, c’erano i baci.

E poi c’era il Carriott. Ed ogni cosa – tutto – diveniva come amplificato. E traboccante.

 

 

I ~ Nothing Exciting Except You

 

 

6 Dicembre

 

“Sì, gli scatoloni vanno da quella parte. No, non lì! Vicino la scala, ecco, esatto, dove siete ora. Oh, mi dispiace dovervi sfiancare così, mi rendo conto di essere davvero insopportabile quando mi ci metto-”

“Per favore mamma. Tu non potresti mai essere insopportabile, neanche se lo volessi.”

Esme si voltò sorpresa quando una voce fin troppo conosciuta s’infilò con facilità nel suo sermone, le labbra arricciate a delineare un sorriso gentile ed estremamente materno.

“Oh, Edward. Non ti ho sentito arrivare.” Si lamentò, crucciata più con se stessa per la mancanza che non con il giovane ragazzo dai capelli bronzei che, adesso, le stava di fronte.

Edward sorrise, un sorriso discreto, appena accennato. “Eri piuttosto affaccendata.” La giustificò, come era solito fare con lei.

Le voleva bene, nutriva un’enorme rispetto nei suoi riguardi e le veniva naturale pertanto essere comprensivo con la donna che, pur non condividendo legami sanguigni con lui, l’aveva cresciuto e amato come una vera madre. Esme, poi, era da amare. Era una delle persone migliori che lui conoscesse, era paziente, sensibile ed era sempre così materna, anche nei piccoli gesti, come il sorridergli, o il carezzargli una guancia facendolo spacciare poi per un gesto leggero e casuale solo per non doverlo mettere in difficoltà con non richieste manifestazioni d’affetto.

“Stavi preparando gli addobbi?” Domandò quindi, dirottando il discorso verso il cumulo di scatoloni riposti in un angolo.

Gli altri ragazzi, intanto, si erano momentaneamente accomiatati per recuperare gli altri pacchi di chincaglierie natalizie dal ripostiglio al pian terreno, lasciandoli da soli nell’enorme, spaziosa sala relax dell’hotel, una luminosa area progettata in stile classico, dove le forme misurate del mobilio in noce andavano ad incastrarsi alla perfezione con le alte vetrate in un armonioso bon ton. Ad un lato, un maestoso pianoforte a coda verticale, di un nero antracite, colpiva l’attenzione e la vista, sposandosi alla perfezione con l’atmosfera calda fornita dal resto dell’arredamento. Di tutte le stanze e le sale di cui disponeva il Carriott, quella era senza ombra di dubbio la preferita di Edward, anche solo per via del meraviglioso strumento a corde percosse di cui lui andava matto.

“Sì.” Confermò Esme alla sua domanda. “Ma volevo aspettare Alice prima di passare alle decorazioni vere e proprie. Ho idea che le farebbe piacere.”

“Lo penso anch’io.” Si accodò subito lui, altrettanto fiducioso del pensiero.

Quando poteva, era Alice ad occuparsi degli ornamenti, giocando con i colori e divertendosi ad osare più di quanto lui avrebbe mai fatto, eppure trovando sempre il modo giusto per far incastonare alla perfezione il tutto l’uno con l’altro. Era un’esteta nata, un’adorabile mostriciattolo con la vena artistica, la più inventiva e di sicuro anche la più eccentrica della famiglia. Gli addobbi natalizi, poi, erano la sua vera passione e in quei giorni non era difficile vederla svolazzare in giro per l’hotel trascinandosi dietro coccarde policrome e nastri dalle lunghezze più disparate.

Edward era certo che, se solo fosse stata lì, Alice avrebbe già dato fondo a tutti gli addobbi di cui disponevano giù nello sgabuzzino per riempire ogni centimetro quadrato con le sue strampalate idee decorative. Per sfortuna – o forse no? – sua sorella non era da quelle parti per il momento. Anzi, ad onor del vero non era neanche in città, a New York.

-Ancora per poco.- Si ritrovò a considerare con una smorfia che voleva essere di disappunto, ma che sapeva un po’ troppo di nostalgia per rendergli davvero e appieno giustizia. Non lo avrebbe ammesso, non davanti a lei perlomeno, però Alice gli mancava tanto.

“Tanto ormai manca poco al suo arrivo.” Stava nel frattempo dicendo Esme, e Edward, come riscossosi da un sogno ad occhi aperti, si ritrovò a fissarla senza battere ciglio. “Ha detto che l’aereo sarebbe atterrato entro le undici di domani mattina. Carlisle voleva andare a prenderla lui stesso, ma temo che con il trambusto pre-natalizio gli sarà difficile riuscire a spicciarsi dai suoi incarichi all’ospedale.”

Aveva assunto un’espressione corrucciata a quell’ultima affermazione, quasi affranta. Era una sua qualità e allo stesso tempo uno dei suoi più grandi difetti quello di farsi carico dei problemi di tutti. Anche per le sciocchezze, Esme era del tutto incapace di non essere altruista e generosa oltre ogni ardire.

Una caratteristica che, a suo modo, rispecchiava anche le doti di suo padre, Carlisle, il quale non per niente aveva deciso di intraprendere la carriera ospedaliera giungendo, in breve, a ricoprire un ruolo estremamente prestigioso come poteva esserlo quello di primario al New York Hospital.

“Posso andare io a prendere Alice.” Si offrì Edward, felice di potersi rendere utile, specie se l’incarico in questione era anche così ben accetto.

“Non hai l’università domani?” Volle sincerarsi Esme.

“No. Domani no. Davvero, per me non è un problema, mi farebbe molto piacere.” Aggiunse poi, notando la titubanza nel volto della madre.

“D’accordo, allora.” Capitolò infine la donna. “Sono sicura che Alice sarebbe contenta di vederti.” E non stava mentendo, a volte Edward sospettava fosse completamente inesperta nel dire bugie.

Le sorrise, senza null’altro dire. Nel frattempo erano arrivati i ragazzi con i vari scatoloni e attendevano solo le indicazioni di Esme per sistemarli dove più le aggradava. Non sembravano pesanti, ma la donna non riusciva a fare a meno di preoccuparsi di non farli affaticare troppo.

“Vi prego, poggiateli lì quelli. Accanto al pianoforte, per intenderci.” Stava difatti delineando la scia da seguire Esme, gli occhi che scintillavano di una nuova gioia.

“Qui?” Le domandò uno dei facchini.

“Sì, lì è perfetto.”

“E questi dove li mettiamo?” Domandò un altro, accennando a sé e agli altri due al suo seguito.

“Quelle dovrebbero essere le decorazioni per l’albero.” Identificò i pacchi, tra sé e sé, Esme. “Credo che vicino la scala, assieme a tutti gli altri, andrà benissimo.”

L’uomo annuì e, facendo un segno ai ragazzi dietro di lui, si apprestò ad eseguire le disposizioni della matrona.

Edward scosse il capo con leggerezza. Poteva capire benissimo quanto facile potesse essere, per quegli uomini, accordare gli ordini di Esme senza battere ciglio, quasi grati invero di poterla rendere felice. Lei riusciva a sortire quell’effetto nelle persone, forse per il modo in cui il viso le brillava quando era contenta di qualcosa.

“Credo che andrò di sopra.” Riscuotendosi dai suoi pensieri, Edward si avvicinò alla madre per poterla avvertire del suo allontanamento. “Ho un po’ di cose da studiare, sai, per l’esame.”

“Oh sì.” Capì al volo Esme. “Dovrai sostenerlo il diciotto, vero?”

“Già.”

“Allora non ti trattengo oltre. Vai pure, caro. Ci vediamo dopo per la cena.”

“Okay, mamma.” Le baciò la tempia, un gesto d’affetto che sia lui che il fratello Emmett avevano preso l’abitudine a fare. “A dopo.”

Si voltò e, così come era venuto, scivolò silenziosamente via dalla sala relax proprio mentre, da qualche parte, le casse intonavano le note incalzanti di Last Christmas.

 

 

Emmett si sfregò le mani con forza mentre un sorriso raggiante andava a delinearsi sulle sue labbra, tracciando agli spigoli due deliziose fossette.

Adorava quella canzone. Accendere la radio era stata una buona idea a conti fatti, ma d’altra parte non ne aveva avuto mai alcun dubbio in merito. Le sue idee erano sempre buone, checché ne dicesse quell’omino di poca fede di Edward, anche se a volte venivano fuori ancora piuttosto grezze e bisognava reinterpretarle, per non dire modellarle, al fine di carpire la verità di fondo.

“Signor Cullen, posso entrare?”

Ridacchiò, non poteva farne a meno. No, decise, non si sarebbe mai abituato a quell’appellativo. Insomma, ‘Signor Cullen’ poteva andar bene per suo padre, lui sì che era adatto a portare quell’epiteto, ma lui, lui che era un ragazzone e che si divertiva a fare gli scherzi stupidi nonostante i suoi nuovissimi venticinque anni, ecco lui non era fatto per essere chiamato così.

Emmett. Emmett andava bene. Era semplice, era abbastanza scherzoso, Emmett bastava.

“Vieni avanti Benjamin.” Lo incitò, sollevando una mano per fare segno al ragazzo egiziano, suo fidatissimo collaboratore, di entrare nell’ufficio che Esme aveva arredato appositamente per lui, la cura puntigliosa con cui ci si era impegnata visibile in ogni dettaglio. “E per piacere, smettila di chiamarmi ‘Signor Cullen’. Mi fa sentire vecchio! Io sono Emmett, okay? Solo Emmett.”

Benjamin ridacchiò appena a quell’ultima richiesta, non del tutto avvezzo alla dirompente vitalità del suo superiore, mentre si faceva largo attraverso la porta per mettere piede nello studio, seguendo l’esplicito invito.

“Va bene, Emmett.” Annuì, sottolineando l’ultima parola con particolare enfasi.

“Così va meglio.” Sorrise soddisfatto l’altro, prima che uno strano luccichio di trionfo baluginasse nel fondo degli occhi scuri. “Piuttosto, come mai sei qui? È successo qualcosa?”

“No.” scosse subito il capo Benjamin. “Nulla di preoccupante, almeno.”

“Oh.” Non riuscì a nascondere la propria delusione Emmett, una smorfia infantile a delineargli le labbra carnose.

-Avrei dovuto immaginarmelo. Non succede mai niente di eccitante in questo hotel! Mai un ladruncolo da sistemare, che barba!- Da quando aveva iniziato ad affiancare sua madre adottiva Esme nella gestione dell’hotel, aveva sperato in qualcosa di un tantino più movimentato di sbrigare scartoffie o decidere gli orari di lavoro dei dipendenti. Non che non adorasse il suo lavoro e, in modo particolare, la sua posizione che gli permetteva di abbordare con facilità illogica, però lui era un tipo più...d’istinto, ecco. Uno a cui piaceva prendere il toro per le corna, che non si preoccupava di dover menare le mani all’occorrenza, che andava in brodo di giuggiole per un po’ di sano movimento. Purtroppo per lui, la conduzione impeccabile di sua madre non gli permetteva di divertirsi, o perlomeno non nel senso che avrebbe voluto lui.

Edward gli diceva che era un deficiente.

D’altro canto, era risaputo che Edward non sapeva divertirsi.

“È appena arrivato Jasper Hale e-”

“Jasper è già qui?” Si alzò di scatto Emmett, sfoderando un sorrisetto furbesco che non prometteva nulla di buono.

“Sì.” Confermò subito Benjamin. “E-”

“Quel bastardello mi deve cinquecento dollari!” Proclamò, già un passo fuori dalla porta, pronto ad ottenere la sua vincita.

Aveva conosciuto Jasper Hale quasi accidentalmente un paio di mesi addietro, durante una partita di football trasmessa alla televisione e che entrambe avevano deciso di seguire giù al piano bar. Come al suo solito, Emmett si era ritrovato ad imprecare non proprio educatamente quando la sua squadra del cuore, Florida Gators, si era fatta scappare dei punti preziosi e Jasper aveva ridacchiato, in quel modo un po’ distaccato che tanto lo aveva fatto imbestialire. Gli aveva chiesto dove fosse il problema – sua madre lo avrebbe schiaffeggiato se lo avesse sentito! – ma il giovane Hale non aveva fatto piega nel rispondere che secondo lui i Gators non avevano alcuna possibilità di battere i loro avversari. Emmett non aveva resistito: un ‘vuoi scommettere?’ di troppo, occhiate di sfiga e due mani che si stringevano. Da allora era diventato il suo sfidante preferito, il miglior scommettitore con cui valesse la pena di battersi considerate la quasi parità delle vittorie reciproche.

In quel momento Jasper gli era davanti per un paio di scommesse vinte in più, ma Emmett contava di rimontarlo in meno di due giorni e , era un’altra scommessa anche questa.

“Io volevo dire che-” Tentò ancora Benjamin, che lo stava tallonando evidentemente diretti verso la reception.

“Forse potrei scommettere su quanto ci metteranno gli Houston Texans a perdere...” Congetturò tra sé e sé l’altro, non lo stava neanche a sentire.

Jasper era un tifoso dei Texans, perciò era più che certo di provocarlo abbastanza puntando sulla loro sconfitta e poi tutti sapevano che i Chicago Bears erano nettamente più forti, perciò a conti fatti la rimonta era molto, molto vicina. Vicinissima. Poteva quasi respirarne l’odore, sentire le grida di giubilo della folla, vedere le ragazza sbracciarsi per attirare la sua attenzione...

“Emmett? Emmett tutto bene?”

Si riscosse dai suoi pensieri giusto in tempo per notare lo sguardo apprensivo di Benjamin. Sbatté le palpebre e, con un certo stupore, si accorse di essersi fermato a metà della hall. Scosse la testa, scrollò le spalle e sfoderò uno dei suoi sorrisi più generosi.

“Certo che sì! Senti, perché ho la sensazione che devi dirmi qualcosa?” Domandò poi, sinceramente incuriosito.

Benjamin lo guardò frastornato, per poi rilassarsi con esasperante lentezza. “Sì, beh, ero venuto a dirti una cosa in effetti.” Spiegò, ancora piuttosto basito dal comportamento discordante dell’altro.

“Infatti mi pareva.” Ci pensò su per qualche secondo Emmett, salvo poi scuotere ancora la testa. “Vabbè, vorrà dire che ne parleremo meglio dopo. Adesso ho cinquecento verdoni da recuperare!”

“Ma-” Prima ancora di poter aprire bocca, tuttavia, il giovane Cullen era già passato oltre, chiaramente diretto al banco della reception dove un’imbarazzata Jessica Stanley tentava con ogni mezzo di calmare l’animo focoso di una bionda dall’aria irritata.

Benjamin sbuffò, invocò aiuto al suo dio e raggiunse il suo superiore, pronto al peggio.

“Sei venuto a portarmi personalmente i miei cinquecento dollaroni, Hale?” Stava dicendo in quel mentre Emmett, le braccia estese a disegnare un ampio semicerchio e il sorriso con fossette ormai divenuto il suo marchio di fabbrica.

Sentendo il richiamo della sua voce, il ragazzo biondo di spalle si voltò, il viso perfettamente concentrato in un’espressione impenetrabile. Alto, magro ma muscoloso e assurdamente bello, con una folta chioma dorata a contornare un viso dai lineamenti severi e due occhi marroni dal cipiglio tremendamente serio, in netto contrasto con l’aria che avrebbe dovuto avere un ragazzo della sua età. Quasi per istinto Benjamin fece un passo indietro, del tutto ripagato dallo slancio in avanti che invece intraprese Emmett, ormai ad un passo dal nuovo venuto.

“Non esattamente.” Fece una smorfia di disappunto l’altro, di rimando. “Lei è-” Non fece in tempo a continuare che la bionda contro cui stava lottando ad armi impari Jessica, si voltò con un’espressione accigliata pronta a dare fuoco e fiamme a chiunque avrebbe osato ostacolarle il cammino.

Pur essendo tremendamente innamorato della sua Tia, Benjamin dovette ammettere che quella era senza ombra di dubbio la ragazza più bella che avesse mai visto in vita sua. Pelle diafana, fisico da top model, capelli di un biondo miele, occhi di un marrone mandorlato e una bocca assolutamente perfetta. Anche in quel momento, nonostante il cipiglio indispettito a farla da padrone, era a dir poco stupenda.

“Sei tu Cullen?” Chiese, ma più che una richiesta era una domanda retorica la sua. “Forse puoi essermi d’aiuto.”

Quasi non avesse atteso altro in tutta la vita che aiutarla, Emmett si prodigò in un sorriso smagliante. “Ne sarei felicissima, milady.”

Per tutta risposta la ragazza storse il muso, indispettita, ma non per questo meno bella. “Bene. Innanzitutto non chiamarmi mai più in quel modo.” Lo avvisò, non troppo velatamente minacciosa.

“D’accordo dolcezza.” Ridacchiò divertito Emmett, che a quanto pareva non doveva aver afferrato appieno il pericolo entro cui stava incappando.

“E neanche dolcezza!”

“Va bene. Perciò come dovrei chiamarti?” Non demorse lui, il sorriso ancora ben impresso sulle labbra.

La ragazza sbuffò, ma fu Jasper a rispondere per lei, prendendo così in mano le redini della situazione.

“Emmett, lei è mia sorella Rosalie.” Lo informò, col tono pratico e spicciolo di sempre.

“Rosalie...” Ripeté con un sorriso trasognato Emmett, ripetendo il nome come se lo stesse gustando. “Enchanted.” Si chinò poi, prendendole la mano con sicurezza ed eseguendo un assolutamente improbabile baciamano che fece impallidire Benjamin e sorprendere Jasper.

Dal canto suo Rosalie sembrava piuttosto combattuta tra la voglia di scoppiare a ridergli in faccia e il trattenersi dallo schiaffeggiarlo. Alla fine, seguendo i dettami che la sua educazione le imponeva, ritirò via la mano ed assunse un’espressione pratica. Non aveva affatto voglia di avere a che fare con l’ennesimo corteggiatore, ragion per cui era molto meglio mettere le cose in chiaro sin da subito ed evitare fraintendimenti di sorta.

“Adesso che abbiamo finito con le presentazione, potrebbe essere così gentile da rendersi utile?” Domandò, nella voce una nota di saccenteria che avrebbe mandato fuori dai gangheri chiunque.

Chiunque, certo, eccetto Emmett Cullen che, invece, si premurò di sbottonarsi in un altro sorriso assurdamente ampio.

“Ma certo, Rosalie. Jessica non le è stata d’aiuto?” Chiese poi, gettando un’occhiata incuriosita alla receptionist, che arrossì appena.

Jessica Stanley poteva avere numerosi difetti, quali ad esempio l’essere eccessivamente pettegola o provarci spudoratamente con suo fratello Edward anche dopo aver ricevuto un bel due di picche, però era brava nel suo lavoro, sapeva essere efficiente e pragmatica come si conveniva. Non aveva mai dato problemi in quel ruolo e per questo non poteva fare a meno di nutrire un certo sconcerto nell’apprendere che, una volta tanto, aveva toppato con qualche cliente. Con una cliente così affascinante per giunta...

“Affatto.” Scosse il capo Rosalie in risposta, una smorfia di insoddisfazione ad incresparle le labbra lampone. “A quanto pare se non prenoti non puoi avere una camera in questo albergo.”

“Hotel.” La corresse Emmett, senza tuttavia perdere entusiasmo.

Lei per tutta risposta gli gettò un’occhiata spiazzata, salvo poi ritornare ad assumere il cipiglio competente di poco prima. “Perciò una ragazza non può accompagnare il fratello senza aver prenotato entro un largo anticipo?” Più che una domanda, suonava quasi come un’accusa a cui lui tuttavia non si sentì in dovere di offendersi.

“Di solito potrebbe, ma siamo sotto Natale e l’hotel è pieno.”

“In tutto l’hotel non c’è neanche una stanza libera?” Ribatté a tono Rosalie, dietro di lei Jasper sogghignò divertito.

Emmett ridacchiò, estremamente compiaciuto dal modo in cui la ragazza riusciva a stare dietro alle sue parole. Era brava...era maledettamente brava. E gli piaceva, accidenti se gli piaceva...!

“Facciamo così, per sdebitarmi del disdicevole fraintendimento, potrei mettere a vostra disposizione la nostra suite migliore.” Contrattò: non aveva la minima intenzione di farsela scappare.

“Pensavo fossero tutte occupate.” Alzò un sopracciglio in risposta Rosalie, contrariata.

“Diciamo che ho un asso nella manica.” Sorrise sibillino Emmett, per poi fare cenno a Benjamin di avvicinarsi. “Fai preparare la suite Golden.”

Quasi gli avesse appena detto di dare fuoco all’hotel, Benjamin assunse un’aria terrificata dinanzi all’incarico e gli si avvicinò con aria cospiratoria. “La Golden? Ma il signor Edward-

“Non preoccuparti.” Lo interruppe l’altro. “Con Eddie ci parlo io.”

Poi si voltò verso i due fratelli Hale, rimasti in silenzio ad attendere il verdetto, e senza pensare troppo alle parole del suo sottoposto sfoderò un altro sorriso a trentadue denti.

“Tutto risolto. Se attendete dieci minuti, la vostra suite sarà pronta.”

Rosalie parve sorpresa di quell’improvvisa dichiarazione, ma mantenne con bravura un certo contegno. “Speriamo.” Fu la secca replica; era ancora troppo diffidente per lasciarsi andare.

“Non sapevo fossi così efficiente, Emmett.” Replicò invece Jasper, un sogghigno divertito ben impiantato sul viso.

L’altro sospirò, scrollò le spalle e gli fece l’occhiolino. “Lo sarò molto di più dopo che mi avrai dato i miei cinquecento bigliettoni, Hale.”

 

 

 

A/N

Davvero poche cose. Innanzitutto, tantissimi auguri di Buon Natale a tutti, spero che vi stiate divertendo, che non vi sentiate scoppiare come me e che vi porti tante buone notizie. Al di là di tutto, credo che sia una festa degna di essere festeggiata perché a parer mio è uno dei pochi giorni in tutto l’anno in cui ci si riesce a sentire davvero uniti, al di là della vicinanza territoriale.

In secondo luogo, questa fanfiction. Mh. Poco da dire, ad onor del vero, è nata quasi per gioco, con questi quattro frammenti che mi vorticavano in testa già durante il periodo degli esami. E poi era già da tempo che volevo scrivere qualcosa su Twilight e questa era troppo natalizia per postdatare...perciò, eccomi qui. Spero vi piaccia almeno un briciolo di quanto piaccia a me scriverla.

Se vi state chiedendo che fine avesse fatto Bella...oh, non dovrete attendere poi molto per incontrarla!

Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, anche perché è la prima volta che mi cimento in una long AU su questa seria.

Al prossimo aggiornamento, allora, che spero di poter postare a stretto giro – vedremo, vedremo, è una promessa.

Baci.

memi

 

  
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