Christmas Carriott
C’erano
le luci, e le candele, e i dolci, e le vetrine, e c’erano i regali. Una
montagna indescrivibile di regali.
C’era il
fuoco acceso nel camino, c’erano le stelle di Natale, c’erano i sorrisi,
c’erano gli abbracci, c’erano i baci.
E poi
c’era il Carriott. Ed ogni cosa – tutto – diveniva come amplificato. E
traboccante.
I ~ Nothing
Exciting Except You
6 Dicembre
“Sì, gli scatoloni vanno da quella parte. No, non lì! Vicino la
scala, ecco, esatto, dove siete ora. Oh, mi dispiace dovervi sfiancare così, mi
rendo conto di essere davvero insopportabile quando mi ci metto-”
“Per favore mamma. Tu non potresti mai essere insopportabile, neanche se lo volessi.”
Esme si voltò sorpresa quando una voce fin troppo conosciuta s’infilò
con facilità nel suo sermone, le labbra arricciate a delineare un sorriso
gentile ed estremamente materno.
“Oh, Edward. Non ti ho sentito arrivare.” Si lamentò, crucciata
più con se stessa per la mancanza che non con il giovane ragazzo dai capelli
bronzei che, adesso, le stava di fronte.
Edward sorrise, un sorriso discreto, appena accennato. “Eri
piuttosto affaccendata.” La giustificò, come era solito fare con lei.
Le voleva bene, nutriva un’enorme rispetto nei suoi riguardi e le
veniva naturale pertanto essere comprensivo con la donna che, pur non
condividendo legami sanguigni con lui, l’aveva cresciuto e amato come una vera
madre. Esme, poi, era da amare. Era
una delle persone migliori che lui conoscesse, era paziente, sensibile ed era
sempre così materna, anche nei piccoli gesti, come il sorridergli, o il
carezzargli una guancia facendolo spacciare poi per un gesto leggero e casuale
solo per non doverlo mettere in difficoltà con non richieste manifestazioni
d’affetto.
“Stavi preparando gli addobbi?” Domandò quindi, dirottando il
discorso verso il cumulo di scatoloni riposti in un angolo.
Gli altri ragazzi, intanto, si erano momentaneamente accomiatati
per recuperare gli altri pacchi di chincaglierie natalizie dal ripostiglio al
pian terreno, lasciandoli da soli nell’enorme, spaziosa sala relax dell’hotel,
una luminosa area progettata in stile classico, dove le forme misurate del
mobilio in noce andavano ad incastrarsi alla perfezione con le alte vetrate in
un armonioso bon ton. Ad un lato, un maestoso pianoforte a coda verticale, di
un nero antracite, colpiva l’attenzione e la vista, sposandosi alla perfezione
con l’atmosfera calda fornita dal resto dell’arredamento. Di tutte le stanze e
le sale di cui disponeva il Carriott, quella era senza ombra di dubbio la preferita
di Edward, anche solo per via del meraviglioso strumento a corde percosse di
cui lui andava matto.
“Sì.” Confermò Esme alla sua domanda. “Ma volevo aspettare Alice
prima di passare alle decorazioni vere e proprie. Ho idea che le farebbe
piacere.”
“Lo penso anch’io.” Si accodò subito lui, altrettanto fiducioso
del pensiero.
Quando poteva, era Alice ad occuparsi degli ornamenti, giocando
con i colori e divertendosi ad osare più di quanto lui avrebbe mai fatto,
eppure trovando sempre il modo giusto per far incastonare alla perfezione il
tutto l’uno con l’altro. Era un’esteta nata, un’adorabile mostriciattolo con la
vena artistica, la più inventiva e di sicuro anche la più eccentrica della
famiglia. Gli addobbi natalizi, poi, erano la sua vera passione e in quei
giorni non era difficile vederla svolazzare in giro per l’hotel trascinandosi
dietro coccarde policrome e nastri dalle lunghezze più disparate.
Edward era certo che, se solo fosse stata lì, Alice avrebbe già
dato fondo a tutti gli addobbi di cui disponevano giù nello sgabuzzino per
riempire ogni centimetro quadrato con le sue strampalate idee decorative. Per
sfortuna – o forse no? – sua sorella non era da quelle parti per il momento.
Anzi, ad onor del vero non era neanche in città, a New York.
-Ancora per poco.- Si ritrovò a considerare con una smorfia che voleva essere di
disappunto, ma che sapeva un po’ troppo di nostalgia per rendergli davvero e
appieno giustizia. Non lo avrebbe ammesso, non davanti a lei perlomeno, però
Alice gli mancava tanto.
“Tanto ormai manca poco al suo arrivo.” Stava nel frattempo
dicendo Esme, e Edward, come riscossosi da un sogno ad occhi aperti, si ritrovò
a fissarla senza battere ciglio. “Ha detto che l’aereo sarebbe atterrato entro
le undici di domani mattina. Carlisle voleva andare a prenderla lui stesso, ma
temo che con il trambusto pre-natalizio gli sarà difficile riuscire a
spicciarsi dai suoi incarichi all’ospedale.”
Aveva assunto un’espressione corrucciata a quell’ultima
affermazione, quasi affranta. Era una sua qualità e allo stesso tempo uno dei
suoi più grandi difetti quello di farsi carico dei problemi di tutti. Anche per
le sciocchezze, Esme era del tutto incapace di non essere altruista e generosa
oltre ogni ardire.
Una caratteristica che, a suo modo, rispecchiava anche le doti di
suo padre, Carlisle, il quale non per niente aveva deciso di intraprendere la
carriera ospedaliera giungendo, in breve, a ricoprire un ruolo estremamente
prestigioso come poteva esserlo quello di primario al New York Hospital.
“Posso andare io a prendere Alice.” Si offrì Edward, felice di
potersi rendere utile, specie se l’incarico in questione era anche così ben
accetto.
“Non hai l’università domani?” Volle sincerarsi Esme.
“No. Domani no. Davvero, per me non è un problema, mi farebbe
molto piacere.” Aggiunse poi, notando la titubanza nel volto della madre.
“D’accordo, allora.” Capitolò infine la donna. “Sono sicura che
Alice sarebbe contenta di vederti.” E non stava mentendo, a volte Edward
sospettava fosse completamente inesperta nel dire bugie.
Le sorrise, senza null’altro dire. Nel frattempo erano arrivati i
ragazzi con i vari scatoloni e attendevano solo le indicazioni di Esme per
sistemarli dove più le aggradava. Non sembravano pesanti, ma la donna non
riusciva a fare a meno di preoccuparsi di non farli affaticare troppo.
“Vi prego, poggiateli lì quelli. Accanto al pianoforte, per
intenderci.” Stava difatti delineando la scia da seguire Esme, gli occhi che
scintillavano di una nuova gioia.
“Qui?” Le domandò uno dei facchini.
“Sì, lì è perfetto.”
“E questi dove li mettiamo?” Domandò un altro, accennando a sé e
agli altri due al suo seguito.
“Quelle dovrebbero essere le decorazioni per l’albero.” Identificò
i pacchi, tra sé e sé, Esme. “Credo che vicino la scala, assieme a tutti gli
altri, andrà benissimo.”
L’uomo annuì e, facendo un segno ai ragazzi dietro di lui, si
apprestò ad eseguire le disposizioni della matrona.
Edward scosse il capo con leggerezza. Poteva capire benissimo
quanto facile potesse essere, per quegli uomini, accordare gli ordini di Esme
senza battere ciglio, quasi grati invero di poterla rendere felice. Lei
riusciva a sortire quell’effetto nelle persone, forse per il modo in cui il viso
le brillava quando era contenta di qualcosa.
“Credo che andrò di sopra.” Riscuotendosi dai suoi pensieri,
Edward si avvicinò alla madre per poterla avvertire del suo allontanamento. “Ho
un po’ di cose da studiare, sai, per l’esame.”
“Oh sì.” Capì al volo Esme. “Dovrai sostenerlo il diciotto, vero?”
“Già.”
“Allora non ti trattengo oltre. Vai pure, caro. Ci vediamo dopo
per la cena.”
“Okay, mamma.” Le baciò la tempia, un gesto d’affetto che sia lui
che il fratello Emmett avevano preso l’abitudine a fare. “A dopo.”
Si voltò e, così come era venuto, scivolò silenziosamente via
dalla sala relax proprio mentre, da qualche parte, le casse intonavano le note incalzanti
di Last Christmas.
Emmett si sfregò le mani con forza mentre un sorriso raggiante
andava a delinearsi sulle sue labbra, tracciando agli spigoli due deliziose
fossette.
Adorava quella canzone. Accendere la radio era stata una buona idea a
conti fatti, ma d’altra parte non ne aveva avuto mai alcun dubbio in merito. Le
sue idee erano sempre buone, checché ne dicesse quell’omino di poca fede di
Edward, anche se a volte venivano fuori ancora piuttosto grezze e bisognava
reinterpretarle, per non dire modellarle, al fine di carpire la verità di
fondo.
“Signor Cullen, posso entrare?”
Ridacchiò, non poteva farne a meno. No, decise, non si sarebbe mai
abituato a quell’appellativo. Insomma, ‘Signor Cullen’ poteva andar bene per
suo padre, lui sì che era adatto a portare quell’epiteto, ma lui, lui che era
un ragazzone e che si divertiva a fare gli scherzi stupidi nonostante i suoi
nuovissimi venticinque anni, ecco lui non era fatto per essere chiamato così.
Emmett. Emmett andava bene. Era semplice, era abbastanza
scherzoso, Emmett bastava.
“Vieni avanti Benjamin.” Lo incitò, sollevando una mano per fare
segno al ragazzo egiziano, suo fidatissimo collaboratore, di entrare
nell’ufficio che Esme aveva arredato appositamente per lui, la cura puntigliosa
con cui ci si era impegnata visibile in ogni dettaglio. “E per piacere,
smettila di chiamarmi ‘Signor Cullen’. Mi fa sentire vecchio! Io sono Emmett,
okay? Solo Emmett.”
Benjamin ridacchiò appena a quell’ultima richiesta, non del tutto
avvezzo alla dirompente vitalità del suo superiore, mentre si faceva largo
attraverso la porta per mettere piede nello studio, seguendo l’esplicito
invito.
“Va bene, Emmett.”
Annuì, sottolineando l’ultima parola con particolare enfasi.
“Così va meglio.” Sorrise soddisfatto l’altro, prima che uno
strano luccichio di trionfo baluginasse nel fondo degli occhi scuri.
“Piuttosto, come mai sei qui? È successo qualcosa?”
“No.” scosse subito il capo Benjamin. “Nulla di preoccupante,
almeno.”
“Oh.” Non riuscì a nascondere la propria delusione Emmett, una
smorfia infantile a delineargli le labbra carnose.
-Avrei dovuto
immaginarmelo. Non succede mai niente di eccitante in questo hotel! Mai un
ladruncolo da sistemare, che barba!- Da quando
aveva iniziato ad affiancare sua madre adottiva Esme nella gestione dell’hotel,
aveva sperato in qualcosa di un tantino più movimentato di sbrigare scartoffie
o decidere gli orari di lavoro dei dipendenti. Non che non adorasse il suo
lavoro e, in modo particolare, la sua posizione che gli permetteva di abbordare
con facilità illogica, però lui era un tipo più...d’istinto, ecco. Uno a cui piaceva prendere il toro per le corna,
che non si preoccupava di dover menare le mani all’occorrenza, che andava in
brodo di giuggiole per un po’ di sano movimento. Purtroppo per lui, la
conduzione impeccabile di sua madre non gli permetteva di divertirsi, o
perlomeno non nel senso che avrebbe voluto lui.
Edward gli diceva che era un deficiente.
D’altro canto, era risaputo che Edward non sapeva divertirsi.
“È appena arrivato Jasper Hale e-”
“Jasper è già qui?” Si alzò di scatto Emmett, sfoderando un
sorrisetto furbesco che non prometteva nulla di buono.
“Sì.” Confermò subito Benjamin. “E-”
“Quel bastardello mi deve cinquecento
dollari!” Proclamò, già un passo fuori dalla porta, pronto ad ottenere la sua
vincita.
Aveva conosciuto Jasper Hale quasi accidentalmente un paio di mesi
addietro, durante una partita di football trasmessa alla televisione e che
entrambe avevano deciso di seguire giù al piano bar. Come al suo solito, Emmett
si era ritrovato ad imprecare non proprio educatamente quando la sua squadra
del cuore, Florida Gators, si era fatta scappare dei
punti preziosi e Jasper aveva ridacchiato, in quel modo un po’ distaccato che
tanto lo aveva fatto imbestialire. Gli aveva chiesto dove fosse il problema –
sua madre lo avrebbe schiaffeggiato se lo avesse sentito! – ma il giovane Hale
non aveva fatto piega nel rispondere che secondo lui i Gators
non avevano alcuna possibilità di battere i loro avversari. Emmett non aveva
resistito: un ‘vuoi scommettere?’ di
troppo, occhiate di sfiga e due mani che si stringevano. Da allora era diventato
il suo sfidante preferito, il miglior scommettitore con cui valesse la pena di
battersi considerate la quasi parità delle vittorie reciproche.
In quel momento Jasper gli era davanti per un paio di scommesse
vinte in più, ma Emmett contava di rimontarlo in meno di due giorni e sì, era un’altra scommessa anche questa.
“Io volevo dire che-” Tentò ancora Benjamin, che lo stava
tallonando evidentemente diretti verso la reception.
“Forse potrei scommettere su quanto ci metteranno gli Houston Texans a perdere...” Congetturò tra sé e sé l’altro, non lo
stava neanche a sentire.
Jasper era un tifoso dei Texans, perciò
era più che certo di provocarlo abbastanza puntando sulla loro sconfitta e poi
tutti sapevano che i Chicago Bears erano nettamente
più forti, perciò a conti fatti la rimonta era molto, molto vicina.
Vicinissima. Poteva quasi respirarne l’odore, sentire le grida di giubilo della
folla, vedere le ragazza sbracciarsi per attirare la sua attenzione...
“Emmett? Emmett tutto bene?”
Si riscosse dai suoi pensieri giusto in tempo per notare lo
sguardo apprensivo di Benjamin. Sbatté le palpebre e, con un certo stupore, si
accorse di essersi fermato a metà della hall. Scosse la testa, scrollò le
spalle e sfoderò uno dei suoi sorrisi più generosi.
“Certo che sì! Senti, perché ho la sensazione che devi dirmi
qualcosa?” Domandò poi, sinceramente incuriosito.
Benjamin lo guardò frastornato, per poi rilassarsi con esasperante
lentezza. “Sì, beh, ero venuto a dirti una cosa in effetti.” Spiegò, ancora
piuttosto basito dal comportamento discordante dell’altro.
“Infatti mi pareva.” Ci pensò su per qualche secondo Emmett, salvo
poi scuotere ancora la testa. “Vabbè, vorrà dire che ne parleremo meglio dopo.
Adesso ho cinquecento verdoni da recuperare!”
“Ma-” Prima ancora di poter aprire bocca, tuttavia, il giovane
Cullen era già passato oltre, chiaramente diretto al banco della reception dove
un’imbarazzata Jessica Stanley tentava con ogni mezzo di calmare l’animo focoso
di una bionda dall’aria irritata.
Benjamin sbuffò, invocò aiuto al suo dio e raggiunse il suo
superiore, pronto al peggio.
“Sei venuto a portarmi personalmente i miei cinquecento dollaroni, Hale?” Stava dicendo in quel mentre Emmett, le
braccia estese a disegnare un ampio semicerchio e il sorriso con fossette ormai
divenuto il suo marchio di fabbrica.
Sentendo il richiamo della sua voce, il ragazzo biondo di spalle
si voltò, il viso perfettamente concentrato in un’espressione impenetrabile.
Alto, magro ma muscoloso e assurdamente bello, con una folta chioma dorata a
contornare un viso dai lineamenti severi e due occhi marroni dal cipiglio
tremendamente serio, in netto contrasto con l’aria che avrebbe dovuto avere un
ragazzo della sua età. Quasi per istinto Benjamin fece un passo indietro, del
tutto ripagato dallo slancio in avanti che invece intraprese Emmett, ormai ad
un passo dal nuovo venuto.
“Non esattamente.” Fece una smorfia di disappunto l’altro, di
rimando. “Lei è-” Non fece in tempo a continuare che la bionda contro cui stava
lottando ad armi impari Jessica, si voltò con un’espressione accigliata pronta
a dare fuoco e fiamme a chiunque avrebbe osato ostacolarle il cammino.
Pur essendo tremendamente innamorato della sua Tia, Benjamin
dovette ammettere che quella era senza ombra di dubbio la ragazza più bella che
avesse mai visto in vita sua. Pelle diafana, fisico da top model,
capelli di un biondo miele, occhi di un marrone mandorlato e una bocca
assolutamente perfetta. Anche in quel momento, nonostante il cipiglio
indispettito a farla da padrone, era a dir poco stupenda.
“Sei tu Cullen?” Chiese, ma più che una richiesta era una domanda
retorica la sua. “Forse puoi essermi d’aiuto.”
Quasi non avesse atteso altro in tutta la vita che aiutarla,
Emmett si prodigò in un sorriso smagliante. “Ne sarei felicissima, milady.”
Per tutta risposta la ragazza storse il muso, indispettita, ma non
per questo meno bella. “Bene. Innanzitutto non chiamarmi mai più in quel modo.” Lo avvisò, non troppo velatamente
minacciosa.
“D’accordo dolcezza.” Ridacchiò divertito Emmett, che a quanto
pareva non doveva aver afferrato appieno il pericolo entro cui stava
incappando.
“E neanche dolcezza!”
“Va bene. Perciò come dovrei chiamarti?” Non demorse lui, il
sorriso ancora ben impresso sulle labbra.
La ragazza sbuffò, ma fu Jasper a rispondere per lei, prendendo
così in mano le redini della situazione.
“Emmett, lei è mia sorella Rosalie.” Lo informò, col tono pratico
e spicciolo di sempre.
“Rosalie...” Ripeté con un sorriso trasognato Emmett, ripetendo il
nome come se lo stesse gustando. “Enchanted.” Si chinò poi, prendendole la mano con sicurezza
ed eseguendo un assolutamente improbabile baciamano che fece impallidire
Benjamin e sorprendere Jasper.
Dal canto suo Rosalie sembrava piuttosto combattuta tra la voglia
di scoppiare a ridergli in faccia e il trattenersi dallo schiaffeggiarlo. Alla
fine, seguendo i dettami che la sua educazione le imponeva, ritirò via la mano
ed assunse un’espressione pratica. Non aveva affatto voglia di avere a che fare
con l’ennesimo corteggiatore, ragion per cui era molto meglio mettere le cose
in chiaro sin da subito ed evitare fraintendimenti di sorta.
“Adesso che abbiamo finito con le presentazione, potrebbe essere
così gentile da rendersi utile?” Domandò, nella voce una nota di saccenteria
che avrebbe mandato fuori dai gangheri chiunque.
Chiunque, certo, eccetto Emmett Cullen che, invece, si premurò di
sbottonarsi in un altro sorriso assurdamente ampio.
“Ma certo, Rosalie. Jessica non le è stata d’aiuto?” Chiese poi,
gettando un’occhiata incuriosita alla receptionist, che arrossì appena.
Jessica Stanley poteva avere numerosi difetti, quali ad esempio
l’essere eccessivamente pettegola o provarci spudoratamente con suo fratello
Edward anche dopo aver ricevuto un bel due di picche, però era brava nel suo
lavoro, sapeva essere efficiente e pragmatica come si conveniva. Non aveva mai
dato problemi in quel ruolo e per questo non poteva fare a meno di nutrire un
certo sconcerto nell’apprendere che, una volta tanto, aveva toppato con qualche
cliente. Con una cliente così affascinante
per giunta...
“Affatto.” Scosse il capo Rosalie in risposta, una smorfia di
insoddisfazione ad incresparle le labbra lampone. “A quanto pare se non prenoti
non puoi avere una camera in questo albergo.”
“Hotel.” La corresse Emmett, senza tuttavia perdere entusiasmo.
Lei per tutta risposta gli gettò un’occhiata spiazzata, salvo poi
ritornare ad assumere il cipiglio competente di poco prima. “Perciò una ragazza
non può accompagnare il fratello senza aver prenotato entro un largo anticipo?”
Più che una domanda, suonava quasi come un’accusa a cui lui tuttavia non si
sentì in dovere di offendersi.
“Di solito potrebbe, ma siamo sotto Natale e l’hotel è pieno.”
“In tutto l’hotel non
c’è neanche una stanza libera?” Ribatté a tono Rosalie, dietro di lei Jasper
sogghignò divertito.
Emmett ridacchiò, estremamente compiaciuto dal modo in cui la
ragazza riusciva a stare dietro alle sue parole. Era brava...era maledettamente
brava. E gli piaceva, accidenti se
gli piaceva...!
“Facciamo così, per sdebitarmi del disdicevole fraintendimento,
potrei mettere a vostra disposizione la nostra suite migliore.” Contrattò: non
aveva la minima intenzione di farsela scappare.
“Pensavo fossero tutte occupate.” Alzò un sopracciglio in risposta
Rosalie, contrariata.
“Diciamo che ho un asso nella manica.” Sorrise sibillino Emmett,
per poi fare cenno a Benjamin di avvicinarsi. “Fai preparare la suite Golden.”
Quasi gli avesse appena detto di dare fuoco all’hotel, Benjamin
assunse un’aria terrificata dinanzi all’incarico e gli si avvicinò con aria
cospiratoria. “La Golden? Ma il signor Edward-”
“Non preoccuparti.” Lo interruppe l’altro. “Con Eddie ci parlo
io.”
Poi si voltò verso i due fratelli Hale, rimasti in silenzio ad
attendere il verdetto, e senza pensare troppo alle parole del suo sottoposto
sfoderò un altro sorriso a trentadue denti.
“Tutto risolto. Se attendete dieci minuti, la vostra suite sarà
pronta.”
Rosalie parve sorpresa di quell’improvvisa dichiarazione, ma
mantenne con bravura un certo contegno. “Speriamo.” Fu la secca replica; era
ancora troppo diffidente per lasciarsi andare.
“Non sapevo fossi così efficiente, Emmett.” Replicò invece Jasper,
un sogghigno divertito ben impiantato sul viso.
L’altro sospirò, scrollò le spalle e gli fece l’occhiolino. “Lo
sarò molto di più dopo che mi avrai dato i miei cinquecento bigliettoni, Hale.”
A/N
Davvero poche cose. Innanzitutto,
tantissimi auguri di Buon Natale a tutti,
spero che vi stiate divertendo, che non vi sentiate scoppiare come me e che vi
porti tante buone notizie. Al di là di tutto, credo che sia una festa degna di
essere festeggiata perché a parer mio è uno dei pochi giorni in tutto l’anno in
cui ci si riesce a sentire davvero uniti, al di là della vicinanza territoriale.
In secondo luogo, questa
fanfiction. Mh. Poco da dire, ad onor del vero, è nata quasi per gioco, con
questi quattro frammenti che mi vorticavano in testa già durante il periodo
degli esami. E poi era già da tempo che volevo scrivere qualcosa su Twilight e questa era troppo natalizia
per postdatare...perciò, eccomi qui. Spero vi piaccia almeno un briciolo di
quanto piaccia a me scriverla.
Se vi state chiedendo che
fine avesse fatto Bella...oh, non
dovrete attendere poi molto per incontrarla!
Mi farebbe piacere sapere
cosa ne pensate, anche perché è la prima volta che mi cimento in una long AU su
questa seria.
Al prossimo
aggiornamento, allora, che spero di poter postare a stretto giro – vedremo,
vedremo, è una promessa.
Baci.
memi