E' una cosa assurda, vi avverto.
Non so da dove sia uscita questa storia, sinceramente, ma non appena ho visto la mia immagine mi è balenata in mente quest'idea. Inizialmente doveva finire in modo diverso, ma nello svilupparsi ha preso una piega un po' diversa da quella che desideravo – in altre parole, mi sono complicata la vita come al solito u.u –, ma che un pochino mi piace. Solo un po', però. In definitiva non ne sono affatto soddisfatta, è come se mancasse qualcosa, ma a dir la verità non saprei dire che cosa.
Inoltre, spero di non aver scritto stupidaggini, per le scene che ho descritto mi sono affidata a Wikipedia, indi la colpa è del sito se ho fatto qualche strafalcione. XD
A parte gli scherzi, mi rendo conto d'essermi avventurata in lidi fortunatamente a me sconosciuti, e quindi difficili da trattare; spero comunque d'aver fatto un lavoro abbastanza decente.
Ah, le frasi fra virgolette allineate a destra sono i pensieri del protagonista e, in due casi, dei flashback.
L'immagine che dovevo utilizzare è quella che potete vedere nel - bellissimo - banner. *O*
Buona lettura!
Il
Terrazzo proibito
~ Storia d'un amore al sapore di Fragola
Capitolo I – L'Artista Solitario
“ Cazzo,
anche stamattina la solita storia... ”
borbottò un ragazzo biondo con
lo zaino in spalla e l'espressione assonnata. Sua madre lo aveva
letteralmente buttato giù dal letto, quando invece lui
avrebbe decisamente preferito dormire un altro po'; quel giorno,
però, avrebbe dovuto sostenere un compito importante, indi
per cui non aveva potuto far altro che alzarsi, seppur controvoglia.
Non era uno che amava la scuola, il giovane Iwa. Anzi, per la
verità la odiava proprio.
Camminava per le strade affollate senza guardarsi attorno, fissando
dritto davanti a sé il grosso edificio che man mano
s'avvicinava sempre di più: l'istituto d'arte Akatsuki. Il
perché si chiamasse “Luna Rossa” era un
mistero per tutti, ma a quanto pare alla fine nessuno aveva mai dato
troppo peso a quel nome così curioso. Presi dallo studio e
dalle prime pulsioni adolescenziali non pensavano ad altro che a
sé stessi; avere buoni voti e successo con gli altri
elaborando piani complicati, pensando al futuro e pianificando ogni
cosa, anche la più semplice. Deidara non riusciva a
comprenderli: lui amava tutto ciò che durava un istante.
Varcò la soglia stanco e voglioso di tornare indietro, ma
oramai era stato assalito dalle voci assordanti dei ragazzi nei lunghi
corridoi e dall'aria viziata che c'era lì dentro. Non
v'erano particolari odori, ma era la puzza della moltitudine di figli
di papà che lo infastidiva. C'era chi si recava in sala
professori speranzoso, stringendo fra le braccia enormi volumi
trattanti chissà quali argomenti; probabilmente si erano
messi a studiare argomenti fuori corso, pur di dimostrare a chi contava
che erano più bravi di altri. Stolti.
“ Nella vita che significa, in fondo, quella che loro chiamano carriera? ”
Entrò in classe fissando il
proprio banco vuoto, d'un verde scuro sbiadito in alcuni punti.
Posò la mano sul legno freddo e vi poggiò la
borsa, attratto da qualcosa che non era la sedia che lo stava invitando
a far uso di sé dopo la camminata. Sul banco di un suo
compagno che al momento non si trovava lì c'era una chiave,
piuttosto grande e un po' arrugginita. La studiò
attentamente, pensando a cosa mai potesse aprire. Ma purtroppo, mentre
meditava, udì la voce del proprietario del banco farsi
più vicina, unita ad un rumore di passi; senza pensarci,
istintivamente, si mise l'oggetto in tasca, maledicendosi pochi secondi
dopo. Se si fosse trattato di un'altra persona non sarebbe stato un
problema, affatto. Ma, dal momento che apparteneva – o almeno
così sembrava – al suo coetaneo più
stronzo, strafottente ed antipatico che conosceva, la cosa cambiava
radicalmente.
Hidan fece il suo ingresso in aula platealmente come al solito,
ghignando e salutando con fare vistoso tutte le ragazze. Poi
guardò Deidara, e il suo sorrisetto si trasformò
in uno sguardo rabbioso, colmo d'ira.
“ Sei ancora qui, checca? Ti avevo
detto di girare alla larga da me ” gli disse, stando bene
attento che nel frattempo non arrivasse il professore, “
Allontanati dal mio banco, non vorrei che lo contaminassi ”
aggiunse poi, sedendosi.
L'altro non rispose, limitandosi a seguire il suo esempio. Il problema
più grande, però, fu concentrarsi durante il
più difficile compito di disegno dell'anno, con quella cosa
nella tasca.
L'esame consisteva nel creare il bozzetto del proprio sogno nel
cassetto, in altre parole avrebbero dovuto disegnare ciò che
desideravano più ardentemente. Molti avevano protestato,
definendo l'idea dell'insegnante una stupidaggine adatta alle ragazzine
nell'età della prima cotta; altri invece avevano preferito
non fiatare, consapevoli già di cosa avrebbero rappresentato.
Non
era una cosa semplice, in verità; in fondo, quando si è adolescenti, non si è mai troppo seri.
E i sogni nel cassetto sono spesso cose irraggiungibili, talvolta
addirittura irreali. Nell'età in cui si inizia seriamente a
distinguere il reale dal sogno, e il bene dal male, Deidara sapeva bene
che cosa voleva. Lo aveva deciso da tempo, ormai.
“
Iwa, si può sapere che
cos'è questo? ” chiese il professore, gli occhi
puntati sul disegno del giovane.
“ Il mio
sogno, signore ” rispose lui determinato, mostrando con
convinta ammirazione il proprio lavoro; una moltitudine di colori
s'incontrava in un centro che esplodeva, liberando in cielo migliaia di
frammenti dalle più svariate sfumature di rosso, verde, blu,
giallo, e chi più ne ha più ne metta. Un trionfo
di luci, di libertà.
“ Come
sarebbe a dire, il tuo sogno? Non significa niente, è solo
un foglio imbrattato, una serie di scarabocchi senza alcun senso!
” esclamò severo, sbattendo il pugno sulla
cattedra, che tremò appena, “ Credo che tu non
abbia ben inteso ciò che vi ho chiesto, ragazzo ”
“ Sì,
invece! ” si difese, “ Perché non riesce
a riconoscere la bellezza intrinseca di questo dipinto? Una splendida
esplosione nel cielo terso di ieri mattina; l'arte che dura un attimo,
la più sublime espressione... ”
“ Basta
così ” lo interruppe, “ Voglio che tu
disegni qualcos'altro, qualcosa che rappresenti il tuo vero sogno. Non
ne voglio più sapere delle tue stupidaggini sulle esplosioni
”
Deidara non poté far altro che congedarsi rispettosamente.
Fare l'arrogante non sarebbe servito a niente. Perché gli
altri non comprendevano ciò che a lui piaceva?
Perché erano tutti attratti dalle cose che duravano nel
tempo e rimanevano costantemente immobili, inespressive?
Sbuffando si sedette su una panchina del grande cortile della scuola,
addentando un panino; si ricordò in quel preciso momento di
avere ancora in tasca la chiave che aveva trovato sul banco di Hidan, e
si maledì di nuovo.
“ Dannazione,
devo trovare il modo di rendergliela senza che si accorga che sono
stato io a prenderla ” si disse, ripensando a quant'era
arrabbiato il suo compagno quella mattina, dopo che si era accorto di
aver perso quell'oggetto che per lui pareva di vitale importanza.
Però, nel medesimo istante, avvertì
un'irrefrenabile voglia di scoprire che cosa apriva. Stupida idea,
pensò poi, dal momento che la porta incriminata poteva
trovarsi anche ad un migliaio di chilometri di distanza.
Abbandonò dunque il suo intento e si concentrò
nuovamente sul cibo, rimuginando sul da farsi. Non che avesse paura di
Hidan, tutt'altro, però non lo sopportava; si
rifiutò perfino di pensare a come avrebbe potuto reagire, se
solo avesse saputo. Soprattutto perché, per qualche oscuro
motivo, da un po' di tempo l'albino ce l'aveva a morte con lui.
Finita la colazione varcò di nuovo il grande ingresso
dell'istituto, avvicinandosi al proprio armadietto; esso si
aprì con un cigolio, segno di quanto quell'arredamento fosse
vecchio, così come la costruzione all'interno della quale si
trovava. Nonostante ciò, però, quella scuola
aveva qualcosa di affascinante; non certo gli studenti, ovvio, ma
sicuramente i segreti che la contraddistinguevano erano particolarmente
interessanti: la piccola parte della biblioteca chiusa da anni per non
si sa quale arcano motivo, il fantomatico stanzino infestato dagli
spettri – cosa a cui Deidara non credeva affatto, ma comunque
ne era divertito – e soprattutto il terrazzo proibito. Da due
anni studiava lì, ed in molti gliene avevano parlato. E, in
quei frangenti, i volti di coloro che ne avevano narrato le ipotetiche
sembianze s'erano illuminati di un bagliore accecante, quella luce
prepotente definita curiosità. Inutile dire che anch'egli
era curioso e più volte aveva provato, di nascosto da tutti,
a forzare al serratura della porta che lo separava da quel mistero
invitante; quest'ultima era addirittura di ferro, evidentemente per far
sì che nessuno provasse a buttarla giù a spallate
o a calci. Previdenti, decisamente previdenti.
Ritornò alla realtà, distogliendosi dai propri
pensieri, quando un suo kohai* gli diede una pacca sulla spalla, in
verità anche piuttosto violenta. Come al solito.
“ Senpai*,
hai la testa fra le nuvole? ” domandò Tobi, colui
che si era auto proclamato suo amico del cuore, fin dal loro primo
incontro.
“ Che ne
te importa? E, soprattutto, dovevi proprio colpirmi così
forte, razza di idiota patentato? ” lo apostrofò
sprezzante, e in tutta risposta l'altro gli si avvinghiò
addosso a mo di sanguisuga, stringendolo spasmodicamente. Aveva uno
strano modo di dimostrare affetto, quell'assurdo ragazzo che, nelle
occasioni speciali – le gite, ad esempio – adorava
portarsi dietro una strana maschera arancione, forata solo in
corrispondenza dell'occhio destro. L'unico occhio che il moro mostrava
ogni giorno, sempre e costantemente munito di benda nera sull'altro.
Deidara però non gli aveva mai chiesto spiegazioni,
né ci teneva a farlo. A dire il vero la sua presenza lo
infastidiva non poco, ma sapeva bene che cacciarlo avrebbe sortito un
effetto ancor più devastante dell'essere gentile con lui. In
parole povere, era costretto a fare buon viso a cattivo gioco, se non
voleva incorrere nella sua ira, rappresentata per lo più da
piagnistei insopportabili – ci aveva provato, una volta, a
mandarlo a quel paese – e scherzi dannatamente fastidiosi.
“ Deidara-senpai
è nervoso stamattina! ” sentenziò,
canticchiando, “ Tobi risolleverà il suo morale!
” esclamò poi con enfasi, saltellando per il
corridoio. Già, chissà come lo avrebbe
risollevato... beh, a modo suo, ovviamente.
“ Ma che diavolo... ”
Il biondo strabuzzò gli occhi, quando notò il
proprio nome scritto a caratteri cubitali sulla lavagna nera; il
gessetto stridette al contatto con essa quando un suo compagno di
classe vi scrisse accanto: turno di pulizie. No. Tutto tranne quello.
Se c'era una cosa che odiava più di Hidan, di Tobi e delle
cose inanimate era pulire. Soprattutto perché gli sarebbe
toccato farlo assieme al suo “migliore amico”.
Chiaramente era stata una sua idea e, a quanto pare, era in quel modo
che pensava di tirarlo su di tono. Purtroppo, però, anche in
quel caso non poteva ribellarsi, o avrebbe dovuto sopportare le
ramanzine dei professori, oltre ai capricci di quell'insulso elemento
che talvolta faticava perfino a definire essere umano. Dovette
così soccombere e prendere in mano una scopa ed uno
straccio, e darsi da fare; decise di iniziare dalle scale, quelle scale
che parevano non finire mai, tanto erano numerose. Sì,
sarebbe tornato a casa molto tardi, quel giorno.
Per ogni classe era stato scelto uno
studente incaricato delle pulizie, come accadeva tutte le settimane.
Dei suoi compagni di sventura, oltre all'idiota, conosceva solo Kakuzu, un tipo decisamente
inquietante ed enigmatico, dalla pelle olivastra e numerose cicatrici a
deturparla. Si soffermò a pensare a come poteva essersele
procurate mentre egli, diligente e silenzioso, adempieva al proprio
dovere. Non si lamentava mai e possedeva un invidiabile sangue freddo.
Pareva essere in confidenza con Hidan, o per lo meno questo era quanto
trapelava dalle lingue lunghe che vivevano unicamente di pettegolezzi.
Non che tal particolare potesse cambiargli la vita, certo, ma forse
prima o poi avrebbe potuto chiedere a lui perché l'albino,
di punto in bianco, aveva deciso di degradarlo da semplice compagno di
classe a bersaglio preferito delle sue angherie.
Comunque, tornando a quella mattina – che oramai stava
volgendo al termine, dato che il grande orologio appeso sopra la porta
d'ingresso segnava mezzogiorno -, i ragazzi di turno decisero di
dividersi i vari piani, e Deidara scelse prontamente quello
più alto. Non che avesse una particolare voglia di salire
tutte quelle scale – era stato proposto innumerevoli volte di
mettervi un ascensore -, però quella era la parte che
preferiva di tutta quell'enorme costruzione. Questo perché
v'era l'entrata che desiderava ardentemente violare, il grande blocco
di ferro con su incisa una luna piena d'un colore rosso vivo. Rosso
come la passione, come l'incandescente cuore di un'esplosione senza
precedenti.
Una volta solo di fronte ad essa, ascoltò le voci dei propri
compagni che parevano distanti chilometri, da lassù. Starci
era come estraniarsi dal resto del mondo, l'effetto che faceva era
indescrivibile.
D'improvviso, come una scossa elettrica o un brivido di paura
– o di puro piacere – si ricordò della
chiave che custodiva gelosamente e che avrebbe dovuto restituire ad
Hidan il prima possibile. Ma, prima di farlo, perché non
regalarsi una dolce illusione? La estrasse dalla tasca, e il suo peso
lo stupì ancora una volta; la guardò
attentamente, ma essa era perfettamente anonima: senza iscrizioni,
segni o quant'altro. Non lasciava assolutamente presagire cosa avrebbe
mostrato al giovane di lì a poco.
Esistono dei segreti inconfessabili; segreti di cui spesso gli uomini si vergognano oppure di cui si vantano, schiavi della propria intrinseca follia. Misteri, meglio definibili come bestialità.
La chiave entrò nel buco
della serratura senza alcun problema, e girò al suo interno
con un colpo secco.
“ Kami... ”
sussurrò il giovane, “ Non è possibile
”
Fu come un sogno ad occhi aperti, o un cenno divino; la porta si
spalancò davanti al suo sguardo incredulo, e d'un tratto
capì perché chi possedeva la chiave prima di lui
ne era così geloso. Quel che si trovò di fronte
una volta aperta lo stupì non poco: il terrazzo, coperto da
una robusta struttura in ferro e vetro oscurato – quella che
si poteva scorgere dal cortile dell'edificio -, celava una sorta di
museo. V'erano statue, interessanti composizioni floreali chiuse in
delle teche sigillate, e soprattutto costruzioni in legno, molte
raffiguranti creature dalle sembianze umane. I più
comunemente chiamati burattini, o marionette che dir si voglia. Si
guardò attorno basito, tutto era così curato in
quel posto, come se vi fosse un guardiano a sorvegliare costantemente
ogni opera nascosta al suo interno.
Eppure pareva non esserci nessuno, non percepiva presenza alcuna.
Osservò con particolare attenzione un burattino alla sua
destra: i suoi occhi erano così espressivi da sembrare vero.
Un momento, forse...
Toccò il suo volto con una carezza leggera, appena
accennata, e i suoi lineamenti delicati si contrassero in una smorfia.
Di scatto ritrasse la mano, spaventato.
“ Che diavolo... ”
esordì, senza però terminare la frase. Le parole
gli morirono in gola quando il tizio – o la creatura, non
sapeva come definirlo – si portò alla bocca la
sottile cannuccia di un succo di frutta, di quelli nell'involucro di
cartone. L'etichetta variopinta recitava: “Strawberry
Juice” e, in effetti, su di essa vi era stampata una grossa
ed invitante fragola.
“ Sei nuovo? ”
domandò, una voce atona e scocciata uscì dalle
sue labbra vermiglie quando allontanò la cannuccia da esse.
Nuovo? Che cosa intendeva dire? Deidara, sempre più
sconvolto, non poté far altro che replicare con un:
“ Eh? ” che ebbe unicamente il potere di annoiare
l'altro più di quanto già non fosse.
“ Non fare il finto tonto. Ti
manda Hidan? O forse Pein? ”
Quando pronunciò il nome del suo coetaneo, il biondo
sussultò; dunque lo conosceva. E pareva conoscere anche
Pein, noto in tutta la scuola e nel quartiere in cui abitavano per le
sue idee rivoluzionarie. Era un ribelle, un tipo che non si fermava davanti a
nulla, e non faceva che proclamare l'imminente venuta di un modo
diverso; era convinto di poterlo cambiare con le proprie forze e quelle
di chi lo sosteneva. Il sogno di ogni uomo animato da un po'
d'ambizione, il sogno proibito suo e di molti altri. Al suo fianco una
ragazza di nome Konan, la sua ombra, colei che lo seguiva dovunque,
anche nelle situazioni di estremo pericolo. L'Iwa aveva sempre provato
una sorta di amore/odio nei confronti del suo senpai e delle sue
convinzioni: amore perché anche lui avrebbe voluto poter
apportare cambiamenti a quella società corrotta, odio
perché lui se ne sbatteva altamente di quell'arte che,
secondo Deidara, ne avrebbe certamente avuto il potere.
“ Con qualcosa d'incredibilmente bello, in un solo istante puoi far sì che le idee dell'intero genere umano mutino. Puoi dare inizio ad una vera, artistica rivoluzione ”
“ Non
mi manda nessuno ” asserì, “ Ho trovato
questa chiave – gliela mostrò, soddisfatto,
accantonando la paura per un po' – ed ho deciso di provarla
sulla porta del terrazzo. Non pensavo che avrebbe funzionato
” spiegò.
Il ragazzo dai capelli color cremisi mosse appena gli occhi, ma lui non
seppe interpretare la sua espressione. Lo guardò: se ne
stava seduto lì quasi completamente immobile, ed indossava
una normale divisa scolastica, come un qualsiasi studente; eppure era
certo di non averlo mai visto prima d'allora.
Notò che era bello, di quella bellezza effimera destinata a
svanire in pochi, intensi anni. Che ci faceva, in quel luogo, un essere
così affascinante?
“ Dunque non sai nulla del
terrazzo proibito? ” chiese.
“ No, non so proprio niente, uhn!
Sono capitato qui per caso! ” spiegò con decisione.
Non capì se lui ci credesse o meno, lo conosceva da pochi
istanti eppure si era già reso conto di quanto fosse
enigmatico, insondabile.
“ E non vuoi domandarmi nulla?
”
Era tacitamente sfacciato, quel tipo. Evitava il suo sguardo diretto
volgendo il suo al cielo che poteva osservare attraverso le spesse
vetrate che lo circondavano, ma nonostante ciò nel suo tono
di voce si leggeva una punta d'ironia, come se volesse schernirlo senza
darlo troppo a vedere. Inutile dire che l'altro trovo fuori luogo e
decisamente insopportabile quel suo fastidioso modo di porsi.
Arrogante. Sì, era la parola più adatta.
L'arrogante
prese un pennello da un piccolo contenitore posto sopra un tavolo alla
sua destra, giocandoci come per scacciare la noia.
Deidara decise dunque di provare a chiedergli qualcosa, seppur fosse
quasi certo che lui non avrebbe parlato. Insomma, mai prima di allora
aveva sentito parlare di una specie di museo dentro la scuola, ma solo
di un luogo ignoto che attirava l'attenzione di tutti. Ciò
implicava che doveva trattarsi di qualcosa d'illegale o quantomeno
vietato all'interno di un edificio adibito alla pubblica istruzione.
“ Che cos'è questo
posto? ”
Cominciò con tal domanda il suo interrogatorio, e lui
abbozzò un finto sorriso, soffiando appena sul pennello,
lasciando che una goccia color rosso intenso macchiasse il pavimento ai
piedi del suo interlocutore.
“ La mia casa ”
affermò.
Lo disse con una tranquillità assurda, come se abitare in
quel luogo fosse una cosa assolutamente normale.
“ Come sarebbe, la tua casa?
” ribatté, sperando d'aver capito male.
“ A te piace l'arte? ”
gli domandò, seppur alquanto scettico. Non riusciva ad
immaginarselo come un appassionato del genere, ma l'apparenza inganna.
“ Sì! Io amo l'arte!
” rispose, visibilmente eccitato.
Sorpreso dalla sua affermazione, il rosso si voltò verso una
delle sue creazioni lignee, una marionetta cui era appeso un cartellino
con un nome: Iruko*. Rivolse ad essa uno sguardo di pura ammirazione,
poi riprese: “ Io creo l'arte eterna, quella che non muore
mai. L'unica e vera forma di bellezza da ammirare con occhi sognanti.
La mia è quella sublime ” si elogiò,
sotto lo sguardo serio di Deidara che si stava pian piano trasformando,
fino a sfociare in una fragorosa risata.
“ Ma dai! E ne sei davvero
convinto? L'arte è esplosione, mio caro. E' un'emozione che
dura un istante, ma è la più intensa che si possa
provare ”
Non sopportava di essere contraddetto, e soprattutto non sopportava
d'esser chiamato mio caro
da qualcuno che non lo conosceva affatto.
Mentre discutevano, però, la campanella iniziò a
suonare incessantemente. Indi il biondo fu costretto, seppur
controvoglia, a lasciare il terrazzo, non senza prima avvertire l'altro
che la loro disputa non sarebbe certo finire lì. Ma adesso,
purtroppo, il problema per lui era un altro: che motivazione avrebbe
dato quando i professori si sarebbero accorti che il piano da lui
scelto era tutto fuorché pulito come invece sarebbe dovuto
essere?
“
Iwa!
”
Ecco, appunto.
Era appena entrato in classe, e il professore lo guardava
già con aria torva. Sospirò rassegnato,
avvicinandosi alla cattedra con fare rispettoso.
“ Mi è stato riferito
che hai scelto proprio tu il piano da pulire, ieri. E mi è
stato anche riferito che, a quanto pare, hai litigato con la polvere e
non sei stato tu a vincere... ” lo canzonò, e i
suoi compagni risero all'unisono. Hidan lo guardava soddisfatto, mentre
egli s'inchinava e domandava scusa. Godeva nel vederlo umiliato. Tutto
era cominciato quel maledetto giorno di aprile...
“ Questo è il vostro nuovo
compagno di classe, si chiama Deidara Iwa. Trattatelo bene e fate
amicizia con lui, mi raccomando! ” aveva esclamato
l'insegnante, mentre un ragazzo dai lunghi capelli biondi raccolti in
una coda di cavallo e gli occhi azzurri come il cielo entrava nell'aula
con passo felpato.
L'inusuale visione aveva colpito un altro giovane, Hidan; non
si vedevano spesso in giro ragazzi con dei lineamenti così
fini, più simili in verità a quelli di una donna.
La sua chioma dorata splendeva nel grigiore del mondo in cui viveva, ed
era un peccato che tal creatura venisse esposta allo sguardo di
famelici lupi pronti ad azzannare l'ignara preda. Quella pelle bianca e
perfetta, simile alla più pregiata delle porcellane,
certamente era appetitosa e profumata; egli sarebbe stato il sacrificio
ideale, atto a soddisfare il suo Dio immorale. Jashin-sama avrebbe
sicuramente apprezzato un simile dono.
Così lo aveva prontamente avvicinato e lui gli aveva
sorriso, inconsapevole delle sue brutali intenzioni. Desiderava veder
sgorgare il suo sangue, dopo aver posseduto quel corpo così
maledettamente attraente, per poi lasciarlo morire lentamente al suo
cospetto. Perché Hidan era folle, e tutti lo sapevano bene.
Tutti tranne lui.
“ Iwa,
ti consiglio di stare lontano da quel tipo. E' pericoloso ”
lo aveva avvertito un suo senpai, Hoshigaki Kisame, ma lui non aveva
dato troppo peso a quelle parole. Lo trovava solo un po' strano, ma
nulla di più. In fondo, una brava persona.
Un giorno, però, avvenne qualcosa: l'albino lo
aveva invitato a casa sua con lo scopo di una partita alla playstation,
ma quel pomeriggio non andò esattamente come aveva previsto.
Con la forza aveva tentato d'imporsi, di farlo suo, ma Deidara lo aveva
scacciato. E, per qualche oscuro motivo, Hidan non aveva protestato,
constatando che in effetti stava correndo un po' troppo.
Da quel pomeriggio, però, erano iniziate le sue torture
morali; di fronte ai compagni aveva cominciato ad apostrofarlo in
svariati e poco gentili modi, quali “checca”,
“puttana” e via dicendo. Lo avrebbe offeso fin
quando lui non avrebbe deciso di ribellarsi. E, quando questo sarebbe
successo...
Si
ridestò dai suoi pensieri quando, con un fruscio, il biondo
si sedette al proprio posto, poco lontano da lui. Si leccò
le labbra, pregustando un momento che sperò essere prossimo,
osservando i capelli di Deidara muoversi lenti e sensuali sulle sue
spalle, quando questi si sciolse per un attimo la coda di cavallo per
risistemarla.
Non che Kakuzu – il suo “ragazzo”, se
così lo si poteva definire – non fosse capace di
soddisfarlo, tutt'altro. Semplicemente sentiva il bisogno di stimoli
differenti, da condividere poi con la divinità che gli dava
la forza di andare avanti. Quella divinità effimera in cui
credeva fermamente, forse perché fin da quando era bambino
era stato addestrato alla violenza dai coetanei e al menefreghismo da
genitori, che lo avevano abbandonato al suo destino quando si erano
stancati di lui. Da allora il sangue e il dolore altrui erano divenuti
la sua droga, così come il sesso. Ma quest'ultimo, in tutta
sincerità, passava in secondo piano quando poteva inebriarsi
dall'odore di Morte. Era convinto di potersi salvare, ascoltando gli
ordini di un qualcosa che, alla fin fine, esisteva solo nella sua mente
e nei suoi sogni.
Tornando a Deidara, il professore gli aveva fatto una predica di quelle
sonore. E, ovviamente, quel pomeriggio sarebbe dovuto rimanere a scuola
per fare quello che il giorno prima aveva trascurato: pulire l'ultimo
piano. A dire il vero la cosa non gli dispiaceva affatto, visto che in
quel modo – stavolta DOPO aver lucidato pavimento e mobili
– avrebbe avuto la possibilità di tornare dallo
strano tipo che abitava il terrazzo.
Così fu, in effetti. Velocemente spazzò per
terra, spolverò alcuni armadietti che si trovavano
lì – erano chiusi a chiave, chissà che
cosa contenevano – e diede una bella pulita anche ai vetri
delle grandi finestre che davano sulla strada. Poi, guardandosi prima
attorno e tendendo bene l'orecchio per captare eventuali rumori, decise
di osare di nuovo; il custode si trovava a piano terra e stava pulendo
i bagni, di sicuro non ci avrebbe messo meno di un'ora. Prese la chiave
e varcò per la seconda volta la soglia proibita, avvertendo
il solito brivido, l'emozione di trasgredire alle regole.
Lui era ancora lì, nella medesima posizione del giorno
prima, nella stessa sedia; davanti a lui, però, v'era un
tavolino con sopra diversi pezzi di legno, accuratamente sistemati. Il
giovane entrò salutando, e il ragazzo dai capelli rossi lo
guardò adirato.
“ Che ci fai ancora qui? E'
rischioso, lo vuoi capire? ” lo avvertì, sempre
con la consueta calma, ma con un duro ed autoritario tono di voce.
“ Voglio sapere perché
te ne stai sempre in questo posto. Voglio finire la nostra discussione
sull'arte e... e poi non so nemmeno il tuo nome ”
“ A nessuno è dato
sapere il mio nome, tanto meno ad uno come te. Per essere tornato qui,
dopo esserti sicuramente reso conto che questo luogo non è
fra i più sicuri, devi essere proprio lo stupido che sembri
”
Deidara, colto da un impeto di rabbia, lo afferrò per il
bavero della camicia bianca che spuntava dalla giacca nera un poco
sbottonata; egli lo intimò di fermarsi, ma lui pareva non
sentirci.
“ Non ti permetto di darmi dello
stupido, proprio tu che sostiene che l'arte è eterna... dici
solo sciocchezze ed io ti odio, nonostante non sappia nulla di te!
” esclamò ferito nell'orgoglio mentre l'altro,
come se le sue parole e i suo gesti non lo toccassero minimamente, se
ne stava fermo a subire. Questo portò il biondo ad
allontanarsi da lui, senza però staccare gli occhi dalla sua
figura.
Ansimò per qualche secondo, prima di riprendere fiato e
sorridere sfrontato: “ Tu come ti chiami? ”
“ Io sono Deidara. Deidara Iwa
”
“ Bene, Deidara Iwa. Raccontami un
po' come sei giunto a tale conclusione riguardo l'arte. Sono curioso
”
Era sincero. All'inizio la sua presenza lo aveva irritato non poco, ma
quello scatto d'ira aveva fatto sì che il suo cuore si
riempisse di ammirazione verso una persona che credeva davvero
nelle sue convinzioni, per quanto assurde esse fossero. In un certo
qual modo, gli somigliava.
Dopo circa un'ora, però, sorse un problema: oramai il
custode se n'era andato, avevano sentito il motore della sua auto
rombare e Deidara l'aveva visto allontanarsi. Evidentemente, si era
dimenticato di lui. Era vero che il ragazzo avrebbe potuto telefonare a
sua madre, ma perché non sfruttare quell'occasione? Magari
le avrebbe poi mandato un sms avvertendola che rimaneva a dormire da un
amico, o qualcosa del genere. Voleva approfondire il discorso, parlare
ancora con lui, perché nonostante le loro idee fossero
diverse, colui di cui ancora non conosceva il nome di battesimo lo
affascinava. C'era qualcosa di artistico
in lui, malgrado tutto.
Non si fece problemi neppure per la mattina dopo, visto che non sarebbe
stato difficile uscire senza farsi notare, visto che le due aule al
piano più alto venivano utilizzate unicamente per visionare
pellicole inerenti al programma scolastico, e solo ed esclusivamente di
pomeriggio. Un buon modo per costringere gli studenti a restare a
scuola anche nelle ore pomeridiane, insomma, visto che la presenza era
obbligatoria. Tranne in caso di malattia o imprevisti gravi, ovviamente.
Il rosso cercò di farlo desistere dal suo intento e
provò a forzarlo ad avvertire sua madre, perché
sapeva bene che da un momento all'altro sarebbero potuti arrivare gli
altri. Non sapeva di chi fosse la chiave che Deidara possedeva, ma in
circolazione ce n'erano solo due: una apparteneva ad Hidan e l'altra a
Pein.
Lui, però, era irremovibile.
Beh, evidentemente la morte in giovane età era il destino
che più gli si confaceva. Pazienza, se davvero era
così non lo avrebbe impedito. Fondamentalmente a lui
interessava solo una cosa: creare, col materiale a sua disposizione,
quello che gli mancava. Necessitava di qualcosa che i suoi aguzzini gli
avevano prepotentemente strappato via due anni prima, quando si era
avventurato – esattamente come l'Iwa – nel terrazzo
proibito, quando all'epoca era un normale studente dell'istituto,
oramai dimenticato da tutti, molto probabilmente considerato morto.
Fatto sta che nessuno era mai andato a cercarlo in quel posto, come se
anche le forze dell'ordine e il personale sanitario fossero bloccati da
quel qualcosa d'invisibile ed intangibile che caratterizzava chi
insegnava e studiava in quella scuola: la paura. Aveva preso il posto
di Chiyo, che un tempo aveva ricoperto il ruolo di custode, anche lei
“misteriosamente” scomparsa. V'era un particolare
legame fra i due, ma nessuno a parte loro lo sapeva, da quando i
genitori del ragazzo dai capelli rossi erano morti in un terribile
incidente stradale: erano nonna e nipote. E proprio per cercare
l'anziana donna, il giovane aveva osato tanto al punto da violare il
segreto più grande. Fra l'altro, a quel tempo Hidan non
faceva parte dell'organizzazione, in quanto non ancora studente
all'Akatsuki.
Quel gesto gli fu fatale, o meglio, lo fu per le sue gambe. In
conclusione, era come se non le avesse più. Per questo non
poteva muoversi da quella sedia, a meno che qualcuno non lo aiutasse a
farlo. Per questo cercava un modo per poter camminare di nuovo, e
magari per ottenere un corpo impossibile da scalfire, e per farlo aveva
deciso di utilizzare l'arte in cui credeva fin da quando era bambino.
Quindi, non gliene importava nulla degli altri. Ognuno era libero di
decidere arbitrariamente del proprio destino, lui avrebbe continuato a
creare per sé e per chi lo costringeva a farlo, solo ed
esclusivamente per sopravvivere, in previsione del giorno fatidico in
cui avrebbe potuto finalmente correre ancora una volta. Ce l'avrebbe
fatta, ne era sicuro. E allora si sarebbe vendicato per le violenze
subite, trasformando coloro che lo avevano torturato in delle splendide
opere d'arte destinate a non morire mai, ad aver costantemente e per
sempre impresse su di sé le espressioni di puro ed estatico
terrore che si sarebbero dipinte sui loro volti quando lui li avrebbe
privati della loro forza vitale.
“ Beh, fai come ti pare
” disse quindi a Deidara, concentrandosi nuovamente sul suo
lavoro, “ Ma non infastidirmi ”
Il biondo annuì e fece un giro di perlustrazione del
terrazzo, cosa che il giorno prima non aveva fatto; le opere esposte
erano veramente tante, circa un centinaio. Nessuna, però, lo
impressionò più di tanto; erano statiche, e lui
odiava profondamente le cose immobili.
Poi guardò il ragazzo, intento ad assemblare vari pezzi.
“ Insomma, non vuoi proprio
dirmelo? ” gli chiese poi, rompendo il silenzio.
“ Che cosa? ”
ribatté l'altro, scocciato, alzando gli occhi dal tavolo da
lavoro.
“ Il tuo nome ”
Quant'era testardo! No, non voleva dirglielo. O meglio, non poteva.
Doveva preservare il proprio anonimato fino al giorno in cui avrebbe
rivoluzionato il sistema che vigeva da anni all'interno della scuola e
di cui nessuno, tranne chi apparteneva all'organizzazione, contemplava
l'esistenza.
“ No ”
“ Ok. Allora ti
chiamerò danna* ” asserì sorridendo
sornione.
“ E perché? ”
“ Perché, anche se la
tua concezione dell'arte è totalmente assurda, ci credi
davvero. Insomma, il tuo è un artistico modo di pensare*.
Per questo d'ora in poi ti chiamerò danna, uhn! ”
spiegò, sempre col consueto ghigno sul volto, un'espressione
indecifrabile. Era serio o lo stava semplicemente prendendo in giro?
“ Va bene, come preferisci, basta
che adesso
mi lasci in pace ”
Enfatizzò la parola adesso
quel tanto che bastava a convincere il biondo a voltarsi e a cominciare
un nuovo giro panoramico, e si rimise al lavoro. Quel tipo era proprio
strano ma, in un certo senso, lo divertiva. Da tempo immemore non
sorrideva, probabilmente dal giorno in cui aveva salutato i suoi
genitori con un cenno della mano, ignaro del fatto che non li avrebbe
rivisti mai più, se non in fotografia. Certo, il sorriso che
adesso mostrava di tanto in tanto non era quello sincero che rivolgeva
a sua madre quand'ella si complimentava con lui per un buon voto a
scuola o per essersi comportato bene, ma era sicuramente meglio di
niente.
E Deidara, che era rimasto affascinato da lui fin da subito, lo
osservava con sguardo sognante quando le sue labbra si curvavano
appena, disegnando una vera e propria opera d'arte sul suo volto di
porcellana. Un'opera destinata a svanire in poco tempo, e per questo
molto più bella di qualsiasi altra cosa. Desiderava sapere
tutto di lui, conoscere il suo passato e il motivo per cui era
rinchiuso lì – a quanto pare, a causa di Hidan e
dei suoi amici -, ma aveva quasi timore di chiedere. Però
doveva riuscirci, chissà, forse se avesse insistito e se gli
fosse rimasto accanto, qualcosa sarebbe sfuggito dalla sua bocca
invitante.
Aveva constatato che gli piacevano molto le fragole dal momento che, da
quando era tornato sul posto, aveva già divorato tre succhi
al suddetto gusto. Le fragole erano rosse come i suoi capelli, come il
colore che predominava nelle sue opere.
Allungò una mano per toccare la marionetta che il ragazzo
teneva sempre accanto a sé, la famosa Iruko, ma lui lo
fermò, fulminandolo con lo sguardo.
“ Non ti consiglierei di toccarla
” lo avvertì, “ Le armi che sfoggia sono
velenose ”
Velenose, aveva detto? Che diavolo aveva intenzione di fare con quelle
cose? Il mistero s'infittiva. Annuì con un cenno del capo e
guardò l'orologio che teneva al polso sinistro: le due del
pomeriggio. Erano già passate due ore da quando era entrato
di nuovo nel terrazzo e, secondo le sue previsioni, doveva rimanerci
ancora molto tempo: ovvero, fino alla mattina dopo.
Cosa che però, purtroppo, non accadde.
Perché la cattiva sorte è sempre in agguato,
specie nei momenti in cui ci sentiamo anche solo vagamente felici.
“ L'arte è una passione rischiosa, ma proprio per questo è così bella ”
~ ~ ~
*1 Kohai: compagno
di scuola più giovane
*2 Senpai:
compagno di scuola più anziano
*3 Iruko:
la marionetta favorita di Sasori, quella ove si nasconde per non
mostrare il proprio reale aspetto.
*4 Danna:
titolo con cui Deidara, nella storia originale, si rivolge a Sasori.
Letteralmente significa maestro, titolo onorifico che il ragazzo usa
per rispetto verso il suo collega artista.
*5 “ Il tuo è un
artistico modo di pensare ”: riferimento
all'episodio dell'anime in cui Deidara viene a sapere che Sasori
è perito nello scontro con Sakura e sua nonna Chiyo. Il
biondo pensa al suo danna sostenendo ch'egli si è fatto
ammazzare nonostante tutte le sue belle parole sull'arte eterna, lo
maledice, ma infine afferma proprio che il suo era un
“artistico modo di pensare”.
Al prossimo capitolo! ~