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Autore: un matto    07/01/2010    1 recensioni
Da una Londra nauseante, traboccante di moralismo e della sua antitesi,emergono le figure spaesate di due giovani apparentemente opposti ma entrambi claustrofobici della loro vita. Pansy, lasciata da Draco in vista del suo imminente matrimonio con Astoria, la sorella della sua migliore amica, e George, che non riesce ad avere successo nella vita, al contrario del resto della sua famiglia.
L'incontro con una frivola quanto viziata ragazzina sarà l'innesco per una serie di - sfortunati? - eventi.
( George / Pansy » Alternative Universe )
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: George Weasley, Pansy Parkinson
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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A l o n e ( a g a i n ), n a t u r a l l y .

 

Alzò lo sguardo, perplesso e lo squadrò da capo a piedi, nel disperato (quanto vano) tentativo di capire che cosa, esattamente, stesse cercando di dirle. Non ci voleva un genio ad intuirlo, era abbastanza ovvio. Tuttavia rimase perfettamente composta, con le braccia incrociate all’altezza del petto e il morbido vestito di seta nera a fasciarle il corpo sottile. Era meravigliosa. Nessun’altra parola, cercata con la stessa cura, avrebbe prodotto lo stesso risultato, su di lei. Era meravigliosa e non aveva, di certo, bisogno che fosse lui a dirglielo, mentre le cingeva la vita, accogliendola in un abbraccio, sussurrato appena all’orecchio, o mentre facevano del mero sesso (perché era di questo che si trattava), in un lapsus di affetto.

 

« Noi non stiamo insieme »

« Sì, lo so, ma… »

« Tutto questo non è affatto necessario »

« Me ne rendo conto, però… »

« Credevo mi dovessi dire qualcosa di importante »

« Questo è importante, Pans »

« No, non lo è »

« Il fatto che mi sposo fra due settimane non è importante »

« No, per nulla. Non vedo per quale motivo dovrebbe interessarmi »

« Perché credevi che avrei sposato te »

« Se lo avessi creduto non sarei venuta a letto con te così a lungo »

« Resta per cena »

« Addio, Draco »

 

E lo disse davvero. Lo pensò circa tre secondi prima che le sue labbra si piegassero in quella smorfia che doveva assomigliare ad un’espressione adatta alla circostanza. Scivolò via, sotto una pioggia d’autunno che pareva il risultato di un autunno implacabile. Non seppe dire, e forse non volle mai pensarci, se quel suono sordo che le risuonò per le orecchie nei due minuti che impiegò nel scendere le scale fosse semplicemente il suono dei suoi tacchi, soli, o il suo cuore, sempre che ne avesse uno, che lentamente si sgretolava, pezzo dopo pezzo. Ma davvero, non avrebbe saputo dirlo.

 

·

 

« Oh George! » il tono svelava una palese nota di rimprovero, che il giovane accolse con una semplice scrollata di spalle e un sorrisetto pseudamente angelico. Un ottimo modo di risolverla, visto che, da qualche tempo il ragazzo aveva iniziato a provare una decisa quanto mai irrefrenabile voglia di strangolare ogni volta che la vedeva l’adorabile e dolce neo – moglie del suo fratello minore.

« Non posso crederci » continuò, agitando in aria quel cucchiaio ricolmo di torta alla panna e fragole. Altrettanto indigeribile come la cuoca che l’aveva preferita. « Hai di nuovo perso il lavoro! » le sentiva, le sentiva eccome. Quella voce zelante, apprensiva, che nascondeva il biasimo per la sua incapacità assoluta di avere successo da solo.

Si può dire, a sua discolpa, che le cose non gli erano andate esattamente per il verso giusto, di lì a qualche anno, ma che, era certo, sarebbe riuscito a risollevarsi per la fine dell’anno.

« E che ci vuoi fare, Herm? » ‘sono un povero idiota, compatiscimi’ tentò, buttandosi sul vago.

Odiava le riunioni di famiglia. Le detestava profondamente. Pareva che fossero tutti d’accordo sul constatare come le loro situazioni socio – economiche andassero a gonfie vele fino al dopocena, quando iniziava la fase ‘prendiamo per il culo George che è un fallito’.

Tutto questo era anche abbastanza patetico e quanto mai insopportabile, tuttavia si degnava ancora di sbattere il suo brutto muso (e il suo ‘pesante deretano’) a casa di Ronald (l’appellativo ‘Ron’ gli era stato cancellato dopo il matrimonio) per l’unico motivo che era una buona occasione per vedere i suoi genitori e Ginny senza dover, per forza, concentrare l’attenzione su di sé.

Era abbastanza rognoso dover sorridere pateticamente a mamma e papà per più di cinque minuti, cercando di infilare scuse plausibili per giustificarsi. Molto più proficuo tirare fuori i successi meravigliosi dei fratelli, con cui poteva andare avanti per ore e ore, senza avere la minima idea di che cosa stesse parlando.

Ognuno sta vicino ai propri genitori come può.

« Perché non chiedi a Ronald se ti trova un lavoro al Ministero? » domandò cordialmente Hermione, che proprio non ne voleva sapere di mollare la presa sull’argomento.

« No, grazie mille Herm » quando avrebbe capito che non si sarebbe mai, mai, rivolto a loro per un po’ di elemosina? Piuttosto la prostituzione.

« Ma… ma sono sicura che a Ronald non dispiacerebbe… »

« No, Herm, grazie »

« Andiamo! Hai bisogno di un lavoro! Come pensi di vivere? »

« Non come te, sicuramente. »

 

Silenzio.

Merda.

 

·

« Sono arrivata il prima possibile »

 

Aprendo la porta, ad un orario che si aggirava fra le tre del mattino e le quattro e mezzo (Pansy non lo sapeva, non aveva avuto il tempo materiale di guardare l’orologio. Aveva creduto chissà che cosa e si era precipitata alla porta, con tutto quel bussare).

 

« Da… Daphne…»

 

Una ragazza comodamente avvolta in un cappotto color ciliegia e una sciarpa bianca se ne stava, in piedi, sul ciglio della sua porta. Era evidentemente accaldata, probabilmente aveva corso, e i capelli biondi che le ricadevano, lunghi, sulle spalle, erano bagnati. Storse il naso. Pioveva ancora.

 

« Ciao »

 

Il musetto dispiaciuto della sua migliore nonché causa di tutte le sue disgrazie prese comodamente quell’espressione da cucciolo ferito che piantava su ogni volta che Pansy aveva un problema, prima di infiltrarsi con una certa facilità all’interno dell’attico. Pansy Parkinson non lavorava, non più. Da quando suo padre aveva deciso di morire di infarto, qualche anno prima, l’eredità le era comodamente piombata in tasca e lei non ci aveva nemmeno fatto tanto caso. Aveva perfino mollato la scuola di Medimagia, ritirandosi ad una vita di frivolezza e lusso. La cosa non pareva aver giovato al suo buon nome, ma aveva deciso che era una cosa abbastanza irrilevante per potersene fregare altamente.

 

« Allora » iniziò Daphne, sfilandosi via il pesante cappotto e lasciandosi ricadere sul divano bianco, al centro del soggiorno. « Come stai tesoro? »

 

Per un secondo si domandò davvero di che diavolo stesse parlando. Poi realizzò.

Daphne Greengrass aveva una relazione stabile con Blaise Zabini da quasi tre anni, convivevano e tutto faceva pensare che prima o poi si sarebbero amabilmente sposati, visto anche l’ingente patrimonio di entrambi. Blaise Zabini aveva un unico, piccolo, inconveniente: era il migliore amico di Draco Malfoy.

Era dunque probabile che quella sera, quando la suddetta Pansy aveva lasciato l’appartamento del sopracitato Malfoy, il  biondino si fosse precipitato al telefono per sfogarsi con il suo adorato migliore amico. Facendo due calcoli dovevano aver parlato verso le undici, non più tardi e una telefonata che non risultasse eccessivamente omosessuale avrebbe avuto una durata di non più di mezz’ora, a volerla tirare per le lunghe.

Si chiese che diavolo di concetto avesse, Daphne, del ‘prima possibile’.

Tuttavia non aveva calcolato che mentre stava uscendo, la dolce biondina, era stata intercettata sulla porta dal suo adorabile ragazzo, rimasto estasiato dal completo scelto dalla sua ragazza e l’aveva costretta a ritoglierlo almeno un paio di volte. Stando larghi avrebbe raggiunto comodamente l’una di notte, l’una e mezza ad esagerare (e dai racconti di Daphne era il caso di farlo). Da brava ragazza qual’era l’amica si era, sicuramente, infilata sotto la doccia, per togliersi il caldo di dosso. Il tempo di asciugarsi con cura... doveva aver sfiorato le due e mezzo, due e tre quarti.

I tempi combaciavano.

 

Scrollò le spalle con noncuranza, appollaiandosi sul bracciolo.

« Benissimo »

L’occhiata eloquente della ragazza la costrinse ad aggiungere un ‘davvero’ che suonasse convincente.

La situazione di Daphne era, e Pansy se ne rendeva perfettamente conto, scomoda.

Si trovava a dover consolare la sua migliore amica per la rottura con il suo epico ‘non – ragazzo’ e a gioire per la sorellina che finalmente convolava a nozze con un uomo che, finalmente, avrebbe smesso di metterle le corna. Se non ne usciva con una crisi di doppia personalità le avrebbe pagato le sedute rimanenti dallo psicologo.

 

« Ti ho portato del cioccolato »

« Così poi ingrasso. »

« Emette un qualcosa che rende felici »

« Non dire puttanate »

« Mia sorella dice che scopa pure male »


Quel piccolo cioccolatino che aveva appena messo in bocca le scivolò in gola tanto velocemente che per qualche secondo fu sicura di morire, strozzata. Che fine lodevole. Uccisa da un Lindor dopo la rottura con il proprio ragazzo. Una fine più triste non può esistere.
Quando il piccolo siparietto sulla sua morte finì riascoltò con più calma le parole pronunciate da quell’essere ancora abbracciato al suo divano.

Da quando Draco Malfoy aveva iniziato a portarsi a letto Astoria Greengrass?

 

« Tua sorella non ha mai scopato con nessun altro »

« Quindi non ti da fastidio »

« Che una diciottenne ancora vergine provi del dolore quando fa sesso? Non me ne frega niente »

« Idiota »

« Tu me l’hai chiesto »

« Di Draco, Pan. Ti da fastidio? »

« No. Le bionde sono stupide (e tu sai che è vero), se le preferisce fatti suoi »

« Io sono bionda »

« Tu sei stupida, infatti »

 

·

 

Clarisse.

Era piuttosto sicuro che fosse quello il suo nome, anche se non ci avrebbe messo la mano sul fuoco.

Clarisse dagli occhi blu.

Guardandola da vicino gli ricordava vagamente Ginny, ma decise che non era il caso di iniziare a pensare a sua sorella, anche perché gli sarebbe sembrato vagamente incestuoso e se poi si fissava su una cosa come quella potevano capitare incidenti ‘dopo’ e no. No. Proprio no.

 

« Quindi » Clarisse rise di una risata intrisa di alcol. « Quindi quella… quella stronza… » rise ancora « Di tua … che cos’è che è? …» non riusciva a terminare le frasi, barcollando attorno al tavolino rotondo. « Ma… ma come si permette, dico io! »


George alzò il bicchiere, per l’ennesima volta, bevendone un lungo ed interminabile sorso.

Il fatto che ormai trascorresse quasi più tempo al bar che a casa era un dettaglio trascurabile e su cui avrebbe volentieri sorvolato. Abbracciò la sua gentile compagna, per evitare che rovinasse al suolo.

 

« Che ne dici di andare a casa mia? »

Parve, per un secondo, disorientata e George si domandò, seriamente, perché.

Qualsiasi cosa avrebbero fatto in casa l’avevano quasi già fatta anche nel angolo buio del locale.

Il dubbio venne spazzato via quando la ragazza annuì con convinzione, prima di soffocare l’ennesima risata.

 

Era stupida, ma divertente.

Riuscì a trascinarla fuori dal pub senza troppi problemi e a metterla in macchina.

Era ancora nella fase euforica della sbronza, e sperava solo che durasse abbastanza a lungo da permettergli di concludere qualcosa entro il mattino seguente.

Il percorso che li condusse su per le scale del condominio, in casa, in soggiorno e poi in camera da letto fu una simpatica corsa agli ostacoli, siccome Clar, come aveva iniziato a chiamarla, aveva la dolce abitudine di fermarlo in un punto a caso, sbatterlo con il muro, premere la sua manina sottile sul cavallo dei suoi pantaloni e coprirgli la bocca di quelli che, a suo parere, erano baci assolutamente adorabili.

Mentre la spogliava di quel microscopico vestito color rubino, mentre le sue mani le accarezzavano le spalle nude, le sue labbra sfioravano quel collo così perfettamente bianco, si domandava se non avesse davvero potuto avere un qualche interesse per lei.

I capelli vermigli le scivolavano sul petto e sulla schiena a formulare un’immagine sublime.

Accovacciata su quel letto sfatto, con quegli occhi slavati dall’alcol, e quelle labbra dischiuse non resistette.

Si alzò con calma, continuò a baciarla, ovunque le sue labbra riuscissero a catturare un pezzetto di carne nuda, e raggiunse il comò, dove conservava i vestiti ancora puliti e quel raro esemplare di Reflex, unico suo tesoro.

 

« Posso farti una foto? » domandò con candore.

 

Clar annuì debolmente, scostandosi una  ciocca di capelli rossi da davanti al viso e sorridendo timidamente.

Divina.

Da un punto di vista artistico, George era sinceramente innamorato di lei.

Si lasciò ricadere sul letto, posata la macchina, e ritornò alla sua principale occupazione.

Le braccia la cingevano, la coprivano, quasi a volerla proteggere, gli occhi la studiavano con minuziosa attenzione. La volevano disperatamente, in ogni sua parte.

Per quanto la riguardava era adorabilmente ingenua. Tuttavia il pensiero di domandarle quanti anni avesse, realmente, non lo sfiorò, fino a quando, steso al suo fianco, inalando nicotina, qualcosa, ai piedi del letto, non iniziò a vibrare.

Era quasi sicuro che la sua ultima visita non avesse lasciato alcun ricordo della sua presenza, e dunque non poteva che risolversi con un cellulare. Cellulare che lui non possedeva, per mancanza di fondi.

Come volevasi dimostrare Clarisse scivolò lentamente verso la cima del letto, dove era posata anche la piccola borsetta dorata, da cui raccolse il microscopico apparecchio telefonico.

 

« Sì, ciao. No. Che vuoi? Ah. La mamma, sì, e che vuole? Mh. Non… no… non farmi scenate. Lo so che ore sono. Che ore sono? » guardò George.

Evidentemente ora si stava rivolgendo a lui.
Dopo un secondo di evidente spaesamento riuscì a rotolare su un fianco, afferrare la piccola sveglia e bofonchiare un:

« Quasi le cinque »

« Sì, okay, so che ore sono. Credo che siano fatti miei, non credi? Non ti ho mai rotto i coglioni quando scopavi con i tuoi mille ragazzi quindi non romperli a me. Fottiti. Sì. Ciao. »


Il ragazzo, ancora abbastanza rincretinito dall’alcol, dal sonno e dal sesso, ebbe la prontezza di azzardare un’ipotesi divertita.

« Coinquilina? »

Era, secondo la sua logica, l’opzione più plausibile: la coinquilina magari migliore amica a cui è stato detto ‘torno presto’ si ritrova in casa da sola anche vagamente preoccupata.

« No, mia sorella » si raccolse su sé stessa, osservandolo.
Non doveva trovarlo poi così bello, ora.

Una spiacevole sensazione iniziò ad arrampicarsi sullo stomaco di George.

 

« Sorella… con cui convivi? »

« Sei ritardato? Mia sorella e basta »

« Ah. Okay. »


Silenzio.

 

« Scusami… è abitudine di tua sorella chiamarti a questi orari? »

Lo sguardo che gli rivolse, giudicò, era uno dei più carichi di rabbia che avesse mai ricevuto.

« No. Mia madre ha chiamato mia sorella perché era preoccupata. Ma deve solo farsi i cazzi suoi »

 

Bene.

George calma.

Non è detto che la situazione sia come la pensi tu.

Fai un bel respiro, e chiedi.

 

« Scusami Clar, l’ultima domanda…»

« Se proprio devi »

« Quanti anni hai? »

« Diciannove »

Distolse lo sguardo con una velocità che anche ad un idiota sarebbe parsa sospetta.

« Diciannove. »

« Diciotto »

« Clar, quanti anni hai? »

Non che portarsi a letto una diciottenne lo facesse sentire meno pedofilo visti i sette anni di differenza, c’era però una microscopica speranza che quella ragazzina stesse dicendo la verità e, a parte un danno morale e l’umiliazione in sé, davanti alla legge, sarebbe stato quanto mai innocente.

« Diciassette »

« Diciassette? »

Boccheggiò un paio di volte, artigliandosi al letto e tentando di non svenire lì, sul colpo.

Bene. Calma e sangue freddo.

 

« Hai… diciassette anni. Okay. »

Nell’arco di trenta secondi era riuscito ad alzarsi, rivestirsi e ora stava obbligando lei a farlo.

« Ora… io ti chiamo un taxi, tu torni a casa subito… e… dimentichiamo questa serata »

Quando alzò lo sguardo per guardarla colse quella lacrima.

Quella, quella di cui sono dotate tutte le donne.
La usano quando vogliono qualcosa, quando gli è assolutamente indispensabile avere qualcosa.

« Mi chiamerai? » miagolò sulla porta.

« Clar, non credo che tu abbia capito il problema. Sei minorenne »

« Ma … » stringeva quella piccola borsetta dorata fra le mani come fosse la sua ancora di salvezza.

« Ma niente. Trovati un bel ragazzo della tua età e sii felice. Ciao. »

« Almeno rimaniamo amici. »

 

Dòng.

In una qualsiasi altra situazione George avrebbe sorriso, ringraziato e chiuso la porta.

Ma quella situazione specifica evidenziava una ragazzina di diciassette anni sola, probabilmente con una pessima famiglia alle spalle, nessuna figura paterna / materna in giro e una sorella cattiva che la chiamava ad orari improponibili per farle una morale a proposito di qualcosa che a sua volta aveva fatto. Nessun esempio positivo, nessuno a cui ispirarsi e una montagna di soldi (aveva sbirciato dentro la borsetta e l’etichetta del vestito) che avrebbe sperperato per sopperire alla mancanza di affetto.

Sarebbe stato immorale (e idiota) dirle di no.

 

« E va bene » sospirò stancamente.

Clar emise un piccolo strillo, un sorrisetto felice e scivolò via, verso il taxi urlando un « Ti chiamo domani » dalle scale (ignorando la gente che avrebbe potuto dormire a quell’ora).

 

Richiudendosi la porta alle spalle e trascinandosi verso il letto, George, non si era mai sentito così meschino come quella sera.

  
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