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Autore: shanna_b    11/01/2010    14 recensioni
Un POV di Emma.
Non so perchè questa FF sia venuta a trovare me e perchè a tutti i costi ha voluto essere scritta un giorno che non stavo per niente bene. Ma se è arrivata vuol dire che c'era un motivo.
Di solito la dedico a qualcuno. Stavolta no.
E, come al solito, non conosco i personaggi famosi di cui scrivo, non so per niente come siano, non scrivo per lucro, etcetc...
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jared Leto, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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POISON RAIN

           

 

 

Fa freddo.

Ho freddo.

Questa città mi mette freddo.

Dentro le ossa, dentro lo stomaco, dentro l’animo. Forse perché è grigia, Milano, troppo grigia, io che sono abituata ai colori di Los Angeles.

E il cielo plumbeo minaccia pioggia, questo 15 di Novembre. Incombe sulla città, tetro e sinistro. Lo vedo, riflesso sui tetti, dalla finestra della mia camera d’albergo, all’ultimo piano. Questa camera così bella ed elegante ma, alla fine, una camera come tante altre in cui sono stata, al seguito dei 30 Seconds to Mars. Una camera senza calore, spoglia, anonima, che ha accolto ed accoglierà altri, oltre a me.

Rabbrividisco, raccogliendo i capelli in una coda, e, nell’intento di sentirmi coccolata, mi metto il maglione più caldo che ho in valigia, gli stivaletti pesanti, mi infilo il cappotto, mi arrotolo la sciarpa di lana attorno al collo, prendo i guanti, come se fossi in montagna, come se dovessi affrontare una bufera.

E recupero tutto: borsetta, agenda, valigetta portadocumenti, cellulare di lavoro, cellulare personale, per scendere nella hall, ad aspettare i ragazzi per andare ai Magazzini Generali, per il concerto.

E’ presto, sono solo le due del pomeriggio e la hall è deserta. La luce è soffusa, i divanetti sparsi sono accoglienti, la moquette del pavimento ovatta tutti i suoni, l’ambiente è caldo, nonostante dia sulla via come un’enorme vetrina. Ma i vetri sono doppi, coperti da tende, oscurati. Proteggono la privacy di chi va e viene per quest’albergo, come noi.

Mi siedo in un divanetto vicino alla porta, con l’intenzione di leggere, nell’attesa, un libro che mi porto dietro da tempo.

Ma quando la porta si apre per fare entrare il postino, mi accorgo che fuori ci sono delle persone che parlano ad alta voce. Parecchie persone. E ho già capito chi sono.

Echelon.

Fuori. In attesa.

Mi alzo con circospezione.

Le spio dalla finestra, spostando leggermente una tenda di tulle pesante: nella hall la luce è soffusa, mentre l’esterno è illuminato e quindi non mi vedono, non vedono nemmeno la mia ombra.

E io le fisso, incuriosita: sono giovani, belle, alte, grasse, more, basse, magre, brutte, timide, vecchie, bionde, sorridenti, bambine, rosse, serie, sfacciate…

Sono tante.

Tutte diverse.

Tutte donne.

E amano i ragazzi alla follia.

Tutte.

Fuori è freddo e loro sono lì, da ore. Alcune sono pallide e tremanti, si sfregano le mani, battono i piedi, sono imbacuccate con sciarpe e berretti. Altre hanno le guance arrossate, i capelli bagnati per l’umidità, i visi lividi, si vede che sono stanche. Altre sono sedute sul marciapiede, parlano e sorridono amichevolmente, alcune fumano, si raccontano le loro peripezie per arrivare fino a lì, probabilmente.

E tutte sono inconfondibilmente Echelon, chi con la bandiera sulle spalle, chi con il berretto con i simboli o la fascia attorno alla testa, chi con le wristband, chi con gli zaini scarabocchiati con le frasi delle loro canzoni, chi con spillette con fenici conficcate un po’ ovunque, su giacche, su borse, su cinture.

“Signorina Ludbrook?”

Il concierge mi distoglie, chiamandomi: “Sì?”, rispondo, avvicinandomi al bancone e lasciando la vetrina.

“I taxi sono arrivati. Sono tre. Vanno bene?”

Annuisco. Sì sono perfetti. Uno per Shannon, uno per Tomo e Tim, uno per Jared. E per me. “Certo. Sono qui fuori?”

“Sì. Chiamo i signori Leto, il signor Milicevic e il signor  Kelleher?”, mi chiede, solerte, quel bel signore con baffi e capelli  bianchi, sorridente e cordiale.

“Sì, grazie.”, gli sorrido, riportandomi alla vetrina, mentre sento che lui ha preso il telefono e sta già chiamando.

Scosto la tenda e guardo di nuovo.

Le Echelon hanno visto i taxi arrivare e hanno capito che qualcuno deve uscire dall’Hotel e allora si sono avvicinate subito alla porta. Ora le vedo da vicino: tutte hanno gli occhi che brillano per l’attesa, adesso.

Si stanno chiedendo cosa succederà, si stanno immaginando la scena, stanno sperando, egoisticamente, che un sorriso e una parola siano tutte per ognuna di loro. Mi pare di percepire il loro cuore che batte più forte, il sangue che accelera, il respiro più corto, la testa più leggera.

Ad un tratto vedo Shannon, pronto, con una sigaretta spenta tra le mani, scendere nella hall. Mi guarda un attimo, mi sorride e mi fa cenno che esce. Si tira su il cappuccio nero della felpa e si avvia fuori. Un grido si alza nel vicolo. Tutte gli si assiepano attorno puntandogli la fotocamera in faccia ed investendolo di flash.

Povero Shannon. Lui che è così timido, in fondo. Per lui è un sacrificio immenso concedersi in quel modo. E infatti nelle foto con le Echelon non ride quasi mai. Se qualcuna di quelle ragazze lo conoscesse veramente, vedrebbe, in quegli occhi ripresi in tante foto, tutta la sua solitudine e la sua insicurezza. E pure quel soprannome assurdo con cui lo chiamano… non gli si addice per niente. ‘Animale’ lui? Ma quando mai?

In più l’atmosfera non è rilassante perché nessuna delle ragazze chiede niente. Non sanno l’inglese o semplicemente non sanno cosa dire. In fondo, vista l’età, Shannon di alcune di loro potrebbe essere il padre. E’ lui che si mette a chiedere, allora, tanto per rompere il ghiaccio, ma si vede che non è convinto di quel che domanda, né gli importa delle risposte che gli danno.

Nella hall intanto arrivano anche Tomo e Tim e mi si avvicinano.

“Quante sono?”, chiede il bassista.

“Una ventina.”, rispondo. In realtà  non le ho contate, vado a spanne.

Tomo si mette a guardare fuori anche lui, con gli occhi neri spalancati: “Tranquille?”

“Sì, sì, come al solito.”, rispondo. Nonostante la ressa, incidenti non ce ne sono mai stati. Ogni tanto alla signing line si rischia che scoppi qualche rissa, ma davanti agli alberghi mai.

Anche Tim si è messo a guardare Shannon che, con alcuni regali in mano, si sta avviando verso il taxi nero che lo aspetta: “OK. Shan è andato. Andiamo  noi, allora…”, dice, scostandosi il ciuffo di capelli scuri da un occhio.

Bassista e chitarrista escono dalla porta e la scena con le Echelon si ripete tale e quale con loro. Precisa, come fosse una fotocopia. E io mi fisso a guardare l’espressione dei loro volti mentre si fanno fotografare e firmano gli autografi. Tim e Tomo sono intimiditi pure loro, di fronte a tanto successo, piuttosto perplessi. Sorridono, abbastanza forzatamente mi pare. Mi piacerebbe avere qui Vicki e Brittany, per vedere le loro facce, alla vista delle echelon sbavanti di fronte ai loro fidanzati! Chissà cosa…

“Ah, sei qui.”

Mi giro di scatto, non l’avevo sentito arrivare.

E’ Jared.

Con i suoi capelli sparati in aria e la giacca scura, gli occhiali da sole e il blackberry in mano.

Ed il cuore mi balza in gola, per tanti motivi.

La sua bellezza.

Il suo modo di fare.

Il suo modo di muoversi.

“Ehm… sì.”, rispondo, con un filo di voce.

“Sono ancora qui?”

“Sì.”

“Il taxi dov’è?”

Gli faccio segno indicando fuori: “Lì dietro.” Lui si avvicina per guardare fuori, mi sovrasta mettendo una mano sulla vetrina, e sento il suo profumo avvolgermi. Trattengo il fiato. Ogni volta è la stessa cosa, quando mi si avvicina. Dovrei essere abituata, ma non è così.

Il suo è uno di quei profumi che ti portano via ogni capacità di reagire, di pensare, che ti stendono.

Ma io DEVO reagire. Sono pagata per farlo.

Mi allontano da lui quasi di corsa e mi siedo sul divanetto dov’ero prima. Recupero l’agenda ed inserisco la mia parte professionale: “Jay, posso parlarti dei prossimi impegni?”

“Certo.” Jared si allontana dalla finestra e si siede sulla poltrona prospiciente la mia, lentamente, accavallando le gambe. Abbiamo cinque minuti prima che Tomo e Tim si decidano a salire in taxi e poi, fino a notte inoltrata, Jared sarà assorbito dal concerto… e allora comincio a snocciolare la lista delle interviste da concedere alle varie riviste, musicali e non, i prossimi appuntamenti radiofonici e televisivi, le varie riunioni con i boss della casa discografica… e Jared mi guarda, annuendo ogni tanto, pacifico.

E’ abituato, alla fine, a tutte quelle cose da fare.

E’ sotto i riflettori da anni, ormai, non è più un bambino.

E a quel pensiero noto una piccola ruga attorno all’occhio destro che ieri non aveva… quasi mi viene da sorridere, a quella vista. Vorrei avvicinarmi, abbracciarlo, appoggiare le mie labbra sul suo viso e baciargli quella ruga appena nata ma…

Non posso.

E allora continuo ad elencare la sua lista di impegni, in automatico, ormai… come faccio da anni, come un automa… da quella volta che…

Blocco subito il pensiero.

No, non mi devo ricordare quel momento.

Devo seppellirlo dentro i miei neuroni, anche se è ancora vivo.

E allora finisco  di leggere la lista, cercando di fare l’indifferente. “Ecco. E’ tutto.”, sorrido.

Sorride anche lui, soddisfatto del mio lavoro. Sì, alla fine sono un’organizzatrice nata, non mi scappa nulla. “OK. Direi anche che possiamo andare. Tomo e Tim sono partiti.”, dice, dopo un attimo, fissando la porta ed alzandosi.

Metto via l’agenda, mi alzo e mi abbottono il cappotto: “Va bene.”

Usciamo mentre l’ennesimo urlo si leva nel vicolo. Jared è davanti sul bordo del marciapiede, io sono dietro a lui, appena fuori dalla porta dell’hotel. Cerco di fare un mezzo sorriso ma… gli sguardi di fuoco delle Echelon si piantano su di me.

E fanno male.

Il sorriso mi svanisce subito.

E le posso capire.

Loro vorrebbero essere me, vorrebbero avere a che fare con Jared tutto il giorno, ogni momento del giorno. Vorrebbero averlo come principale, parlargli, stargli vicino… tutte prese dall’idea romantica di essere al suo servizio, di accorrere quando sono chiamate, innamorate dell’idea che lui abbia bisogno di loro. E invece questo, fatti i debiti conti, è un lavoro come un altro, più impegnativo di altri: ricevo più di cinquecento mail al giorno, ho a che fare con etichette discografiche, manager di concerti, agenti, pubblicitari, giornalisti… Devo cercare di parlare con tutti ed accontentare tutti. La mia giornata sembra non finire mai. Non so quante di loro durerebbero tanto quanto sto andando avanti io…

Io.

Che invece vorrei essere loro: essere libera di immaginare come può essere un uomo così, sognarlo, inseguirlo, farmi fotografare col lui, farmi autografare la maglietta, senza aver con lui nessun legame.

Come stanno facendo ora tutte loro.

E mi accorgo che un baratro ci separa.

Un abisso divide loro e me.

E loro mi odiano.

E io odio loro perché mi odiano.

Non ho fatto nulla di male, faccio solo il mio lavoro.

Eseguo ordini.

E’ Jared che mi chiede di accompagnarlo quando esce, certe volte, proprio perché pensa, illudendosi, che allora le Echelon non avranno il coraggio di avvicinarsi.

Lui mi usa. Giustamente, visto che mi paga.

Ma in questo modo non riesco ad essere simpatica a nessuno.

E non riesco a far finta di non essere odiata.

In fondo sono una timida, rinchiusa in sé stessa così tanto da non riuscire più ad uscire. E mi metto la maschera, faccio l’odiosa, l’antipatica.

Certe volte sarei tentata di uscire con un cartello con scritto: “IO SONO IO E VOI NO!!” per far loro dispetto, per umiliarle, per vendicarmi della mia posizione di privilegio.

Certe altre volte, invece, vorrei uscire e parlare con loro, sentire le loro storie, farmi raccontare da quante ore sono in viaggio, dove e se hanno dormito o mangiato, che cosa si dicono mentre sono in coda anche sotto la neve…

Ed invece non posso: “Devi essere professionale…”, mi ripete Jared, “Non dare confidenza, non lasciarti prendere la mano, altrimenti quelle pretendono il braccio…”

E allora io, Emma, sono inutile per le Echelon.

Nessuna mai mi ha dato un regalo o un pensiero e nemmeno elargito un sorriso sincero, neanche per sbaglio. Sono soltanto la zavorra indigesta di Jared.

Decido di allontanarmi e salgo in taxi.

Quando Jared si sarà stancato di loro e avrà finito con abbracci ed autografi, verrà anche lui.

E infatti, mentre rispondo ad un sms di Shannon che mi chiede dove siamo, vedo Jared salire in taxi, chiudere la portiera ed il finestrino, salutare con la mano dal vetro.

“Loro… ti amano…”, sussurro, quasi senza volerlo, come se le mie corde vocali si fossero attivate senza chiedere permesso al cervello.

“Sì, lo so…”

‘Anch’io ti amo…’, vorrei dirti.

Ma non ne sono capace.

Non posso.

E, soprattutto, non devo.

Non devo.

Lo hai ripetuto anche tu.

Non devo dirlo a nessuno.

Il taxi parte tra due ali di ragazze che ancora cercano di guardarti ed improvvisamente rivivo quella sera.

Quell’auto.

Quella notte in cui mi hai chiamato trafelato dall’aeroporto. “Vieni SUBITO a prendermi!”, mi hai urlato, tirandomi giù dal letto. “SUBITO, HO DETTO!”

Ho preso l’auto e, più o meno vestita e pettinata, mi sono precipitata da te. E’ nel contratto. Devo farlo se mi chiami. E per questo ero incazzata come una biscia, visto che mi avevi trattato come una schiava, una servetta che corre ai tuoi ordini. Ero arrivata furente all’aeroporto decisa a litigare con te, a mandarti a quel paese, a rescindere il contratto lavorativo.

A furia di chiamarci siamo riusciti a trovarci, nell’enorme aeroporto di Los Angeles, ma quando ti ho visto ho capito che c’era qualcosa che non andava.

Avevi la barba lunga, il cappello sugli occhi, il viso tirato. Il tuo paltò grigio era malamente legato e la sciarpa nera ti avvolgeva il collo come un serpente. Sembrava quasi che ti mancasse l’aria. Forse ti eri fatto di qualcosa.

“Manda via tutti…”, mi hai sibilato, ed io, piccola e magra come sono, ho dovuto farti da guardia del corpo fino alla mia auto, mandando via giornalisti e paparazzi in malo modo.

Siamo saliti in macchina senza dire una parola.

“Ti porto a casa?”, ti ho chiesto.

“No. Non voglio…”

“Ehm… e dove, allora?”

“Dove vuoi.”

Ti ho portato a casa mia, non avrei saputo in quale altro posto portarti, alle due di notte e in quello stato.

E siamo finiti a letto.

Senza una parola, né una spiegazione sul tuo cattivo umore.

Mi hai sbattuto contro la porta, baciata a forza, portata sul letto, strappato i vestiti.

Ma io mi sono arresa subito perché é stato lì che mi sono accorta di essermi innamorata di me, di non aver desiderato altro da tempo, di fare tutto quello che mi chiedevi perché volevo che tu mi amassi.

Ma tu no.

Tu non mi ami.

Tu avevi bisogno di me in quel momento, non come segretaria, ma come donna. E poi non ne hai più avuto bisogno. Un momento dopo aver finito di fare l’amore, ti eri già scordato di me e dormivi dentro il mio letto tranquillamente, come se non fosse successo niente. Come tutti gli uomini.

“Non devi dire niente.” Mi hai detto, prima di scomparire dalla porta, il mattino dopo.

Non devo.

Non devo confessarlo nemmeno a me stessa.

Riemergo dai miei pensieri sospirando, mi stringo nel cappotto con un brivido, mentre mi accorgo che ha cominciato a piovere, che il cielo di Milano del primo pomeriggio fa cadere una fitta pioggia gelata.

Mi giro un attimo a guardarti. Fissi anche tu dal finestrino la strada bagnata. Chissà a cosa pensi.

A te stesso.

Al concerto.

Ad una tua nuova canzone.

Alle tue Echelon.

Non a me, sicuramente.

Non alla tua Emma sempre al tuo fianco da anni, ormai.

Che ha rinunciato a sé, per te.

Che è costretta a nascondere il suo amore sotto una coltre di indifferenza e protervia, con te e con tutti.

Che ti ama.

Arriviamo ai Magazzini Generali.

La coda di Echelon rumoreggia e ti chiama, urlando.

Entriamo dal portone con il taxi, scendiamo e tu, senza aspettarmi, corri avanti, su per le scale e ti rifugi dentro, veloce come una gazzella, dato che piove più forte.

Meglio.

Posso far finta che siano gocce di pioggia avvelenata, le lacrime che lentamente scivolano sul mio viso, bruciando.


FINE









   
 
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