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Autore: Shari Deschain    18/01/2010    0 recensioni
Perché noi siamo quello che siamo, mio caro principe. E nello specifico siamo creature di fiaba.
Genere: Generale, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Racconti da MezzaLuna'
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Note dell'Autore: Partecipa alla Criticombola per il prompt #3 “Torsolo”
Storia ambientata nello stesso universo di Messer Ratto e la Principessa Purexa, ma non è necessario leggere l’altra per capire questa, dato che trattano di personaggi e fatti completamente diversi =D
— Copiato pari pari da Wikipedia: In biologia un refugium è un'area di una popolazione isolata o un residuo di specie una volta più estesa.



Per I.,
Principessa di MezzaLuna
(La più Principessa di tutte)




Refugium



Quando Zur arrivò sul ciglio della fine del mondo, dopo settimane e settimane di duro viaggio, la prima cosa che gli venne in mente di fare, trovandoselo finalmente davanti, fu quella di tornare indietro.
Ed i suoi piedi erano già sul punto di obbedire, quando uno scatto di amor proprio, a lui decisamente inconsueto, gli impose di restare fermo ed assaporare il gusto dell'essere infine arrivato al termine del suo cammino.
Seppur con naturale e reverenziale terrore, Zur rimase a fissare il verde prato di MezzaLuna che, oltrepassata la linea di confine, si trasformava nel grigio nulla di MondoVero.
Uno spettacolo da mozzare il fiato.
MondoVero: nell’entroterra da dove veniva lui, erano in molti a credere che quel luogo non esistesse, che non fosse altro che una terra di leggenda. Zur trovava quest'idea abbastanza ipocrita. Se loro esistevano, perché gli ominidi non potevano esistere a loro volta?
Ma d'altronde molti abitanti di MezzaLuna credevano anche che il loro mondo non avesse fine, e la prova del contrario lui ce l'aveva proprio davanti agli occhi.
MezzaLuna finiva, e al suo posto si stagliava, grigia ed immensa, la terra di MondoVero: adesso Zur era uno dei pochi che poteva affermare tale verità, uno dei pochi che poteva dire di aver visto la fine di un mondo e l'inizio di un altro.
Purtroppo non avrebbe mai potuto raccontarlo a nessuno.
Non sarebbe tornato indietro e di là, a MondoVero, non si poteva parlare di MezzaLuna.
Bé, sarebbe stata la sua verità personale.
E poi, in ogni caso, Zur riusciva a capire perfettamente il rifiuto del suo popolo per tutto ciò che non era magico, o comunque non strettamente collegato al loro mondo.
Non era una questione di credenze, quanto piuttosto di comodità. L'esistenza di MondoVero poneva, nei giovani, interrogativi a cui nessun anziano aveva più voglia di rispondere.
Lui conosceva a grandi linee la Storia Antica, e sapeva che c'era stato un tempo in cui anche loro, creature di fiaba, abitavano a MondoVero. Gli ominidi però li avevano scacciati — ma né Zur né i libri che aveva letto avrebbero saputo dire se consciamente o meno —, e sostituiti con la tecnologia, togliendo loro la dignità di esistere.
Per gli ominidi, le favole non esistevano per definizione.
Non c'era da sorprendersi, quindi, se gli abitanti di MezzaLuna, nel loro mondo, avessero reso loro lo stesso favore.
Sì, chiamatela pure ripicca, se proprio volete.
Gli ominidi di MondoVero? No, sono solo una favola, tesoro. No, non una favola come noi, una favola diversa, una favola che non esiste. Sì, proprio come Pinocchio, tesoro. Bravo.
Creature delle favole, sì. Scemi, no.
Ancora in piedi sul ciglio del suo mondo, Zur si chiese per l'ennesima volta se abbandonare MezzaLuna fosse davvero la mossa giusta: nel bene e nel male, quella terra ed i suoi abitanti erano tutto ciò che lui conosceva.
Immediatamente dopo decise che quella era una domanda veramente inutile da farsi, dato che la risposta se l'era già data mille e mille volte.
“Se resti, ti riconoscono. Non importa in quale miniera nanesca ti andrai a nascondere, non importa quanto fango ti spalmerai addosso, non importa se ti spingi fino all'estremo Puntale di MezzaLuna, tra i Deserti di Ghiaccio o tra i Monti di Sabbia, alla fine ti troveranno e ti riconosceranno. E ti riporteranno indietro.”
Zur non sarebbe tornato indietro per nulla al mondo.
E se non poteva tornare indietro...
Il ragazzo si scostò dalla faccia i lunghi e sporchi riccioli biondi, chiuse gli occhi e prese un bel respiro. Unodueetre, poi si sarebbe immerso nel grigio.
Su, avanti, non ci vuole molto.
Uno. Passo. Il grigio lambì gli stivali di pelle.
Due. Passo. Il grigio si arrampicò intorno alle sue caviglie.
Tre. Niente passo. Il grigio rimase fermo, in attesa.
“Un ultimo sguardo al mio mondo”, pensò il ragazzo. Sì, un solo ultimo sguardo e poi il passo decisivo. Davvero.
Zur si voltò, ruotando appena il busto e torcendo al massimo il collo.
Addio, casa.
Ma non vide MezzaLuna. In realtà non vide niente.
Sentì solo qualcosa di estremamente duro entrare in collisione con la sua faccia, il forte crack del proprio naso che si spezzava, ed il sapore del sangue che gli colava in bocca.
Dopodiché, comprensibilmente, svenne.
Promemoria dell'ultimo minuto: quando si è sull'orlo dell'abisso, mai voltarsi indietro.

*****

La semi apertura del tutto sperimentale dell'occhio sinistro, rivelò un muro di mattoni grigi, scalcinato e umido come quello di un vecchio scantinato.
L'altro occhio, il destro, fece resistenza. Chiuso per pugno, tornate più tardi. Zur lo aprì lo stesso. Dietro il velo rossiccio causato dalle ciglia incrostate di sangue, il ragazzo scoprì la piccola figura di una fata, e quella decisamente più grossa e minacciosa di un orco.
Chiuse gli occhi. Dolore dietro le palpebre, dolore dentro la testa.
Ti prego, no.
Ma ormai li avvertiva anche con gli altri sensi.
Il battere ritmico delle dita impazienti di lei, il tanfo di fogna che emanava lui, la tensione ormai palpabile di due eserciti avversari a confronto.
Riaprì gli occhi.
Loro erano ancora lì, ovviamente.
E lo fissavano.
La fata era accovacciata sul tavolino di metallo, seduta sui propri talloni. Che fosse una fata, Zur lo diede per scontato alla prima occhiata. Minuscole ali da farfalla, polvere luccicante intorno alle dita, età impossibile da definire: cos'altro mai poteva essere?
L'orco, invece, aveva deciso di sottolineare per bene il suo essere orco, di modo che nessuno, guardandolo, potesse dare adito a dubbi. Pellicce di vari colori gli avvolgevano il corpo in modo apparentemente casuale, creando un insolito e puzzolente patchwork di animali fatati morti. Dalle zanne, però, pendevano ciondoli di cristallo, che tintinnavano al ritmo del suo respiro fetido.
Carinissimo.
La prima a muoversi, comunque, fu la fata.
Si sollevò con grazia dal tavolino, sbattendo appena le sue piccole ali, e gli si avvicinò di qualche battito, abbastanza vicina da riuscire a scrutarlo, abbastanza lontana perché lui non riuscisse a toccarla. Ad ogni suo movimento, i lunghissimi capelli neri le si aggrappavano come liane vive intorno al collo e alle braccia. Sul suo volto senza colore, spiccavano come macchie di sporco le labbra rosso sangue e gli occhi verdi da gatto.
« Sai chi sono? », chiese dopo qualche secondo, con una voce dolce e musicale.
Zur annuì dentro di sé. Fate di Frontiera. Gliene avevano parlato. Purtroppo una delle fregature del vivere in un mondo di favole sta nel fatto che non sai mai per certo se le creature di cui ti parlano esistano davvero o meno.
Bene, eccoti servito, mio caro, scettico amico: le fate di Frontiera esistono.
E tu sei fottuto.
Apparentemente la fata non gradì la sua mancata risposta, infatti aggrottò le belle sopracciglia.
« Nano », disse solo. E prima che Zur potesse pensare ad un insulto piuttosto infantile alla propria — peraltro per niente bassa — statura, l'orco si avviò a passi pesanti nella sua direzione, fino ad afferrarlo per il bavero del mantello e ad alzarlo di quindici centimetri buoni da terra.
Nano. Quel gigante assassino si chiamava Nano.
D'accordo, pensò il ragazzo, mezzo soffocato.
La fata agitò appena una manina, spargendo polvere luminosa sul proprio vestito. L'orco rimise il ragazzo con i piedi per terra, lo tenne fermo per i capelli, gli afferrò il braccio e glielo torse con forza dietro la schiena, sistemandosi minacciosamente alle sue spalle.
Zur gridò ad ogni minimo movimento dell'orco. La fata parve soddisfatta.
« Sai chi sono? »
« Fata... frontiera... », rantolò Zur. Lei sorrise.
« Come ti chiami, mio vagabondo amico? », chiese dopo qualche momento, con quella stessa voce dolce che pareva prenderlo in giro.
Zur non rispose. Perché diamine avrebbe dovuto?
L'orco, dietro di lui, gli diede un ottimo motivo per farlo, rifilandogli un pugno nella schiena, proprio a metà della spina dorsale. Zur si cappottò in avanti, e sarebbe definitivamente caduto, se Nano non l'avesse tenuto in piedi grazie alla dolorosa presa di ferro che esercitava sul suo braccio.
Il ragazzo rimase quindi piegato, in ginocchio, sputando sangue e saliva.
« Come ti chiami, mio vagabondo amico? », domandò di nuovo la fata, per niente impressionata.
Dalle un nome qualsiasi, per tutti gli unicorni!
Ma Zur non era mai stato bravo a reggere la pressione.
« Pinocchio », balbettò, preparandosi già ad un nuovo colpo.
Il quale, naturalmente, non si fece aspettare.
Stavolta Nano colpì tra le scapole: una botta così dura e secca che Zur pensò seriamente di essere stato spezzato in due parti diverse.
Dolore, dolore dappertutto.
La testa gli cadde in avanti, sul petto.
La piccola mano luccicante di lei venne ad accarezzargli una guancia sporca e gonfia.
« Come ti chiami, mio vagabondo amico? », sempre lo stesso tono, sempre lo stesso sorriso.
E che begli occhi, che bella voce.
Zur sapeva che non avrebbe retto un altro colpo. E non era mai stato un cuor di leone.
« Zur », rantolò.
« Zur? »
Il ragazzo esitò ancora, mordendosi il labbro già pesto. Dietro di lui sentì l'orco stendere il braccio per un altro colpo.
« Azzurro », confessò infine, pieno di vergogna.
La fata rise. L'orco Nano anche.
Due suoni completamente differenti, come un tintinnio di campanelli d'argento sul sottofondo di piatti che si rompono.
« Abbiamo catturato un principe fuggiasco! », sbottò Nano, mentre si teneva la pancia per il troppo ridere.
« Non sono più un principe! », urlò Zur, terrorizzato. Non voleva essere riportato indietro.
Tutto quello che volete, davvero, ma non fatemi più essere il principe Azzurro!
La fata non rideva già più.
« Certo che sei un principe », ribatté dolcemente.
Zur provò ad immaginare quello che lei vedeva. Un povero vagabondo, dai lunghi capelli incrostati di sudiciume e il volto coperto da lividi, sangue, fango e polvere; uno straccione con addosso vestiti ormai ridotti a brandelli, e sulle spalle, a coprirlo, solo un lurido mantello che di azzurro portava solo il ricordo.
Se davvero c'era ancora un principe in lui, lei era l'unica che riusciva a vederlo.
« Ne arrivano tanti qui, sai. Bè, non di principi, ovviamente. No, tu sei il primo principe che incontro per lavoro », sorrise la fata. « Però ce ne sono tanti di disperati come te che giungono qui, nella speranza di poter abbandonare il nostro mondo ed entrare a far parte del loro »
La fata rifletté un secondo, dondolando sui talloni.
« Non è vietato, ovviamente. Passare a MondoVero, intendo. Certo, se sei un assassino, o un ladro, o uno che per un motivo o per l’altro sta fuggendo dalla legge non posso permettertelo », si concesse un'altra pausa meditativa, stavolta molto più lunga. « Solo che se non sei ne l'uno né l'altro, e se non stai scappando da qualcosa di peggio... perché dovresti desiderare un mondo come quello? »
Era sinceramente sorpresa. E curiosa.
Zur le rivolse un'occhiata assolutamente priva d'espressione. Mantennero quel gioco di sguardi per un paio di minuti, nel silenzio più assordante che l'ex principe avesse mai udito.
Silenziosa, la fine del mondo.
« Io scappo da qualcosa di peggio », borbottò infine il ragazzo, arrendendosi. « Ma non è nulla di illegale », aggiunse in fretta. La fata sembrò delusa.
Gli si avvicinò ancora di più, scrutandolo con quei suoi occhi verdi ed infiniti, in quella che sembrava un'attenta analisi dei suoi pensieri e delle sue intenzioni. Cosa che probabilmente era, anche. Alla fine, comunque, parve concludere che il ragazzo non mentisse.
A quel punto mise il broncio. Un carinissimo, pericolosissimo, broncio da fata.
Zur si sentì ancora più terrorizzato di prima.
Lei lo scrutò per qualche momento ancora, l'espressione sempre corrucciata, e il principe cominciò a sentire sul serio il peso psicologico di tutti quegli sguardi.
Che razza di magia era mai quella?
Pochi momenti dopo, del tutto inaspettatamente, la fata sorrise.
« Bene, direi che possiamo iniziare la procedura di espatrio, allora », esclamò allegramente, come se fino a tre minuti prima non lo stesse minacciando aizzandogli contro un gigante spaccaossa.
Suddetto gigante, intanto, ad un blando cenno della sua signora, lasciò andare il braccio del principe, pur rimanendo ancora alle sue spalle, e appoggiò la sua considerevole mole contro il muro di mattoni scalcinati.
La fata tornò ad arrampicarsi sul tavolino di metallo, e gli rivolse un nuovo, brillante, inquietante sorriso.
« Intanto, io sono Biancaneve », precisò, accompagnando la presentazione con un cameratesco occhiolino.
“Sì, certo”, avrebbe potuto rispondere Zur, se non fosse stato troppo vigliacco. “E i sette nani li hai condensati in uno solo Nano. Comodo. Complimenti”.
Si limitò a pensarlo.
“Biancaneve”, per rimanere fedele al nome che si era scelta, agitò le manine in cerchio, mormorando parole incomprensibili — Zur si era sempre rifiutato di studiare la lingua Faery: troppo complicata ed assolutamente inutile ai fini sociali, dato che tutte le fate parlavano correttamente il Linguaggio Comune —, e quell'apparente miscuglio casuale di gesti e suoni produsse una forte luce bianca, da cui la fata tirò fuori una mela: una mela così perfettamente tonda e rossa da sembrare il disegno di un bambino.
Il primo pensiero di Zur fu che lei volesse avvelenarlo.
« Non è avvelenata », specificò immediatamente la fata, quasi gli avesse letto nel pensiero. Il ragazzo arretrò comunque. Alle sue spalle, l'orco grugnì. Zur avanzò di nuovo.
« Questa, mio caro, è il tuo passaporto per MondoVero », aggiunse lei, sbattendo lentamente le ciglia.
Zur era stato abituato a cose ben più strane di una mela come passaporto, quindi non si mostrò affatto sorpreso. La cosa che lo rendeva perplesso, piuttosto, era quella strana aria confidente-ma-minacciosa che stava respirando.
Che razza di creature erano mai quelle? Buone? Cattive? Amici o nemici? Non capiva.
L'unica cosa che voleva, ormai, era che la bella fata si sbrigasse con i suoi vaneggiamenti e che lo lasciasse libero di raggiungere MondoVero, lontano da follie tipo questa.
« Facciamo una breve ricapitolazione, vuoi? », domandò la fata, distraendolo dalle sue riflessioni.
Come se fosse davvero una questione di volere o meno, pensò il ragazzo.
Si limitò ad un cenno col capo che poteva voler dire tutto. La fata, ovviamente, lo interpretò come un assenso.
« Sei un principe Azzurro », affermò Biancaneve, sorridendo, e facendo girare la mela sulla lunghissima unghia dell'indice.
Lui annuì. Biancaneve staccò un morso dal frutto che aveva tra le mani e chiuse gli occhi, assaporandolo lentamente, come se non avesse mai assaggiato nulla di più buono in vita sua.
Zur rimase a guardarla, affascinato ed impaurito, mentre il suo stomaco gli ricordava che dall'ultima volta che aveva mangiato qualcosa almeno due delle tre lune di MezzaLuna erano tramontate.
« E dimmi, ce l'avevi una principessa? », chiese ancora la fata, quando anche l'ultimo dolce rimasuglio della mela le si fu disciolto nella bocca.
Zur esitò, poi annuì di nuovo. Biancaneve, apparentemente soddisfatta dalla risposta, socchiuse appena gli occhi e diede un altro morso alla mela. Il succo cominciò a colarle lungo il mento, formando un appiccicaticcio sentiero zuccherato che tracciava la strada per arrivare, dall'angolo della sua bocca rossa, fino alla dolce curva gola.
Era fin troppo seducente per non essere ammirata. E lei lo sapeva.
Ad interrompere quell'incantesimo, comunque, ci pensò quasi subito l'orco, rifilando un violento ceffone al regale sedere.
« Paura della principessina, bimbo? », sghignazzò Nano, palpandogli una natica con la grossa mano pelosa. Zur s'irrigidì.
Sì, paura della principessina. E paura del re suo padre, della regina sua madre, di suo fratello che a soli quindici anni era già un principe migliore di lui, paura del regno che gli veniva affidato, del popolo che non sapeva gestire, delle guerre che non sapeva combattere, dell'esercito che non sapeva dirigere, dei combattimenti che sapeva di non poter vincere.
La paura era esattamente il problema del principe Azzurro.
Ma in fondo chi l'ha detto che tutti i principi debbano presentarsi al mondo come bellissimi, impavidi eroi muscolosi? E chi l'ha deciso che tutti i principi debbano non solo salvare la bella principessa da qualche incredibile pericolo, rischiando quindi la propria vita e quella di tutti coloro che, stupidamente, si sentono chiamati alla giusta causa, ma anche, alla fine del tutto, sposarla?
Che vergogna.
La mano dell'orco gli stava ancora accarezzando il culo.
Zur sentì le lacrime premergli insistentemente sotto le palpebre.
« E le ragioni che ti spingono a voler espatriare non sono assolutamente collegate a problemi con la legge, giusto? », continuò Biancaneve, ignorandoli entrambi. « Domanda di prassi. Sai, la burocrazia… », aggiunse sorridendo.
« Giusto », si limitò a soffiare fuori Zur, tentando di ricomporsi. Nano non aveva ancora finito di sghignazzare, ma perlomeno aveva smesso di molestarlo.
« Di che natura sono, allora? », domandò la fata, in tono professionale. Ma Zur non si lasciò ingannare. La burocrazia — e soprattutto i modi per aggirarla — gliel’avevano insegnata insieme all’ABC. Era, in effetti, una delle poche competenze che poteva vantare.
« Natura personale », rispose semplicemente.
« Personale », ripeté la fata, sempre con lo stesso tono professionale di prima. Diede un altro morso alla mela, di cui, ormai, rimaneva meno che la metà.
Come passaporto non sembrava valere granché, considerò Zur.
Impressione fortemente rafforzata pochi minuti dopo quando, dopo un ultimo morso, suddetta mela gli venne scaraventata ben poco delicatamente tra le mani.
Zur l’afferrò al volo più per caso che per riflesso, ma si guardò bene dal tirare un sospiro di sollievo. Un po’ di dignità, insomma!
La fata si stava asciugando il succo dalle labbra, passandoci sopra le dita dalle unghie perfette.
« Questo è il patto, piccolo principe: rimarrai a MondoVero per tre mesi, in prova, diciamo. Se non crei problemi puoi rimanere lì tutto il tempo che ti pare, e chi si è visto si è visto. Io e Nano saremo gli unici a sapere esattamente dove ti trovi, e saremo gli unici a conoscere la tua faccia », si fermò un attimo a riprendere fiato. « È un servizio abbastanza nuovo questo dell’anonimato, sai? Ma come ti ho detto di fuggitivi come te ce ne sono a bizzeffe, e di solito vogliono restare fuggitivi sconosciuti. Privacy e tutto il resto… ovviamente l’Ufficio Marketing ha sfruttato subito la situazione. Gnomi dell’Arcobaleno… figurati! Hanno un fiuto per gli affari che neanche un drago »
L’espressione assolutamente persa del principe la spinse a tornare all’argomento principale.
« Sì, dicevamo, i tre mesi. Ecco, ti farò visita personalmente un giorno o l’altro, non appena l’Ufficio Immigrazione mi approverà il viaggio. Durante questo periodo potrai fare quel che ti pare, essenzialmente. L’unico divieto è quello di usare la magia — ma non è un tuo problema, direi —, e ovviamente parlare del nostro mondo. Ma questo dovrebbe apparire scontato anche a te, dico bene? »
Il principe pigolò un “sì” abbastanza convinto.
“Ufficio marketing”? “Ufficio Immigrazione”? Che razza di storia era mai questa, si chiedeva intanto Zur. Possibile che fossero così tanto organizzati? Ma allora perché non si sapeva niente di tutta quell’organizzazione?
« Naturalmente dovresti anche evitare di finire nelle mani della loro legge », continuò intanto la fata. « Sono molto pignoli, gli ominidi di legge, e non si accontenteranno di un “sono forestiero” come risposta. Niente di illegale, quindi. Se proprio non puoi farne a meno, non farti beccare. Personalmente ti consiglio di non provarci neanche, ad occhio direi che finiresti nei guai prima ancora di riuscire a muovere un passo », interruppe il suo monologo per un attimo e piegò la testa di lato, come riflettendo. « Non che non scommetterei sul fatto che tu riusciresti comunque a metterti nei guai, il che mi porta al nostro passaporto », indicò la mela che Zur teneva stretta in una mano.
« Quello sarà il tuo unico collegamento con MezzaLuna, una volta di là. Nient’altro che quella mela, non possiamo rischiare che trovino qualcosa di nostro, no? »
Zur annuì di nuovo, pur riconoscendo la retoricità della domanda.
« Bene », mormorò la fata. Indicò di nuovo la mela.
« Come puoi vedere restano solo due morsi, mio bel principe. Uno per andare ed uno per tornare », spiegò, scandendo lentamente le ultime parole.
« Per andare? », si ritrovò a domandare Zur, prima ancora di aver realizzato di aver aperto bocca. D’altronde era sicuro che per andare a MondoVero bastasse…
« Per tutte le bacchette magiche! Credevi veramente che bastasse camminare per arrivare a MondoVero? », strepitò la fata, perdendo per la prima volta tutta la sua naturale compostezza.
« Bè… », iniziò Zur, profondamente a disagio. In realtà con la sua famiglia era piuttosto abituato a sentirsi lo scemo del villaggio — in tutta la sua vita non aveva mai brillato per intelligenza, ripeteva spesso la regina sua madre —, ma ad una cosa del genere non ci si abitua proprio mai.
Alle sue spalle l’orco sghignazzava apertamente, e Biancaneve, intanto, prendeva lunghi e profondi respiri nel tentativo di ricomporsi.
« Se non ti avessimo trovato », riprese dopo un attimo, il volto di nuovo al limite dell’impassibilità, « Adesso saresti polvere di principe. Polvere molto fine », specificò.
Zur sentì distintamente il proprio pomo d’Adamo fare su e giù.
« Ah, okay », mormorò. E dopo qualche istante: « Grazie »
Biancaneve non sapeva se ridere o piangere. Nel dubbio rimase impassibile.
Decisamente a disagio, Zur abbassò lo sguardo sul frutto che teneva tra le mani. Osservò la mela, ormai ridotta ad un torsolo smangiucchiato. Del succoso frutto non rimaneva altro che qualche sbuffo di buccia rossa intorno al picciolo.
E d’accordo che le stranezze, in linea generale, non gli erano propriamente estranee, però…
« Perché solo due morsi? », chiese, sinceramente perplesso. Non aveva senso. Insomma, perché se quella mela era il suo passaporto, lei se l’era mangiata quasi tutta?
La fata fece un sorriso terribile. Persino Nano ebbe il buongusto di rabbrividire (Zur se ne accorse dal tintinnio dei campanelli).
Avrebbe volentieri ritirato la domanda, se solo avesse potuto.
Biancaneve appoggiò il mento sulle mani incrociate e socchiuse gli occhi su di lui.
« Perché noi siamo quello che siamo, mio caro principe. E nello specifico siamo creature di fiaba. Cose come questa sono la nostra linfa vitale »
Zur non capì quello che lei voleva dire ma, a titolo strettamente precauzionale, decise di prenderlo come una minaccia.
Fortunatamente Biancaneve sembrava essere stufa della sua presenza. Gli rivolse un’ultima occhiata sprezzante e poi agitò una mano verso la porta.
« Su, vattene, ci hai già fatto perdere fin troppo tempo. Dobbiamo lavorare noi »
Zur la prese in parola. Dopo aver lanciato un’occhiata di sbieco all’orco, e appurato quindi che non aveva intenzione di prenderlo a pugni al primo passo, Zur si diresse quasi correndo verso la porta. Un attimo prima che riuscisse a varcarla, però, sentì la fata urlare il suo nome.
Il ragazzo si voltò appena, per nulla intenzionato a rimanere in quel tugurio un secondo di più.
« Ricorda che dovrai aspettare una notte di mezzaluna per tornare indietro », si limitò a dire Biancaneve. « Non mordere la mela prima di allora: non avrà alcun effetto. Mi hai capito? »
Il principe annuì e tornò a voltarsi verso la libertà.
« Una notte di mezzaluna, vedi di ricordartelo! », urlò ancora lei, alle sue spalle.
Parole buttate al vento: Zur era già scappato via a gambe levate.
Uscì dalla baracca sbattendosi dietro la porta, e cominciò a correre senza meta, circondato solo dalla placida immobilità di una MezzaLuna addormentata.
Quando infine si voltò indietro, la baracca era sparita.
Puff.
Zur sospirò, sollevato. Nella sua mano, la mela (o ciò che ne restava) era quasi bollente. La portò davanti al viso, esaminandola.
Due morsi erano più che sufficienti. Non aveva intenzione di tornare.
Chiuse gli occhi e ne aspirò l'odore, dolciastro e pungente, totalmente differente da quello di una semplice mela.
Poggiò le labbra contro la buccia ruvida, e si chiese se fosse il caso di contare di nuovo fino a tre. Decise di no.
Spalancò la bocca con sicurezza, e con altrettanta determinazione affondò i denti nel frutto.
MondoVero, sto arrivando.
E questa volta Zur tenne gli occhi chiusi e la testa ben dritta sulle spalle: nessun ultimo sguardo, nessun ultimo saluto. Semplicemente, andò avanti.

*****

Biancaneve — no, ovviamente quello non era il suo vero nome, ma era un soprannome che si portava dietro fin dalla più tenera infanzia, ed ormai quasi tutti la chiamavano così, quindi alla fine ci si era adattata anche lei —, odiava le ricognizioni a MondoVero.
Erano delle vere seccature.
Purtroppo suddette seccature erano incluse nel suo contratto di lavoro e, di nuovo purtroppo, lei non aveva modo di sbolognarle a qualcun altro, come facevano molte delle sue colleghe alle altre Frontiere. Non che non ci avesse provato, eh.
Ma il requisito base per una simile mansione era la diplomazia, ed il suo unico assistente era un orco. Inconciliabili, quindi.
Fortuna che la nuova Direttiva del Piano di Controllo per l'Integrazione degli Emigranti, aveva ridotto le visite di controllo da cinque ad una.
Quattro seccature trimestrali in meno.
La fata si strinse più forte nella sua pelliccia di grizzly alato e attraversò l'enorme strada, praticamente deserta nel grigiore del primissimo mattino.
Scavò a fondo nelle tasche, alla ricerca della lista che vi aveva ficcato dentro dieci minuti prima. Incredibile come le cose tendessero a dileguarsi dalle sue mani quando non poteva usare la magia per rievocarle. Fosse stata una fata meno concreta — una fata Madrina, ad esempio — avrebbe di sicuro sospettato un complotto ai suoi danni.
Dopo qualche minuto le sue dita riuscirono finalmente a chiudersi attorno ad un angolino di pergamena, e la fata sospirò, soddisfatta.
Tirò fuori il foglio spiegazzato con un movimento brusco e, portandoselo davanti al volto, cercò di decifrare il nome del prossimo Emigrato.
Il fatto di dover socchiudere gli occhi per riuscire a leggerlo, la innervosì non poco. D'altronde aveva anche i suoi bei trecento anni, qualche acciacco bisognava per forza metterlo in conto.
“Principe Azzurro, Area 234B, Ponte del Terzo Distretto, Primo Vicolo” , diceva comunque il foglietto.
La fata dovette sforzarsi poco per rievocare il ricordo del patetico sacco d'aria vuota che, quasi due mesi prima, aveva spedito a MondoVero.
Nano lo aveva dato per reso entro la settimana. Lei aveva puntato sul mese pieno. Entrambi, comunque, erano sicuri che sarebbe tornato indietro. Lì alla Frontiera, però, non si era mai visto. Biancaneve sperò che non fosse morto: un cadavere le avrebbe procurato un sacco di grane con l'Ufficio Immigrazione.
La fata si fermò nel bel mezzo di un incrocio e si guardò intorno: dove diamine era il Terzo Distretto? Non se lo ricordava.
“Se solo potessi volare...” , pensò. Ma ovviamente non poteva. Questioni di sicurezza.
Che gran rottura di ali.
Ammantata del suo usuale broncio, Biancaneve si preparò ad un lungo, faticoso, estenuante pellegrinaggio per le vie infinitamente simili di MondoVero.
Stupido Principe Azzurro.

Il cielo guardava il barbone, ed il barbone guardava il cielo. O perlomeno ci provava.
Fin dal loro primo incontro, tra il barbone ed il cielo era stato amore a prima vista. Più per il barbone che per il cielo, a dire il vero.
Non per altro, ma il cielo di MondoVero aveva smesso di stupirsi della gente parecchi millenni prima, e per un vecchio ammasso gassoso come lui, lo stupore era uno degli elementi essenziali dell’amore.
Il barbone, invece, non aveva mai visto un cielo così bello. Quando nessun turbamento lo incrinava, era talmente azzurro da bruciare gli occhi, quando invece si arrabbiava, o si svegliava, o si addormentava, prendeva a colorarsi come una tavolozza da pittore.
E le nuvole, oh, le nuvole! Che capolavoro di casualità!
Era tutto così incantevole.
Da dove veniva lui, il cielo era scontato. Programmato, anzi. C’era qualcuno o qualcosa — il barbone non aveva ricordi molto chiari del suo mondo — che ogni settimana decideva di che colore fare il cielo, giorno per giorno; le nuvole avevano sempre una forma ben precisa, non c’era proprio nulla su cui fantasticare, dato che gli scultori che le componevano erano tutti dei veri e propri maestri d’arte.
Certo, il cielo del mondodilà — era abbastanza sicuro che avesse un nome vero il suo mondo, ma il barbone non ricordava nemmeno quello —, aveva colori che questo cielo qua non si poteva neanche immaginare ma, insomma, si diceva il barbone, non è che si possa chiedere proprio tutto ad un CieloVero.
Già era tanto quando lui ed il cielo riuscivano a fissarsi negli occhi. Per farlo era sempre il barbone a doversi spostare, perche quello lassù non sembrava poi così interessato al loro amore, visto che non si curava affatto di tutti gli oggetti che si frapponevano tra loro.
E ce n’erano di schifezze che ostruivano la vista, oh se ce n’erano!
Curiosamente il barbone era l’unico a lamentarsi di questa cosa. Gli altri — e altri era inteso nel senso più profondo del termine —, non ci badavano affatto. Non lo guardavano nemmeno il cielo, loro. Sciocchi altri.
In quel momento, comunque, il barbone guardava un cielo nascosto dai palazzi.
Dal vicolo umido che gli fungeva da casa, non si poteva in nessun modo vederlo, il cielo, ma il barbone non riusciva a smettere di provarci. Ogni mattina, appena sveglio, alzava il volto e cercava quel pezzettino d’azzurro, pronto a dargli il buongiorno.
Ovviamente non lo trovava mai, a meno che non decidesse di alzarsi dal suo letto di cartone e spingersi fino alla fine del vecchio ponte. Cosa che faceva anche, ai primi tempi.
Ma ci volevano un sacco di energie per arrivare fin lì, e adesso il barbone non ne aveva molte da spendere, di energie, dato che mangiava due o tre volte alla settimana, quando gli andava bene.
Così aveva imparato la filosofia del ricordo: alzava gli occhi e ricordava il cielo azzurro, pur non vedendolo. L’arte della strada è l’arte dell’arrangiarsi, dopotutto.
Quella mattina, comunque, il suo cielo ricordato venne bruscamente ostruito da qualcosa che non era né un edificio, né una parabola, né un filo di bucato caricato di lenzuola.
Il qualcosa era una fata, una bella fata dal volto pallido, le labbra rosse e gli occhi verdi furibondi. Bel colore, il verde furibondo. Il barbone aveva dimenticato, oltre che tutto il resto, anche le varie sfumature di colori.
« Principe Azzurro? », domandò la fata, arricciando il naso, schifata.
L’interpellato fissò lo sguardo su di lei. Che fosse una fata, il barbone lo diede per scontato alla prima occhiata. Anche se non aveva la più pallida idea di come potesse, lui, riconoscere una fata alla prima occhiata. Gli era capitato, a volte, di incontrare creature del mondodilà — reietti come lui, perlopiù — e si erano sempre riconosciuti a vicenda senza mai capire il perché.
Apparentemente non c'era nulla che li accomunava, se non la profonda impressione di non appartenere al luogo dove si trovavano, qualunque esso fosse.
« Principe Azzurro? », lo richiamò ancora lei, in tono leggermente più stridulo.
Il barbone ci mise qualche istante di troppo per ricordare che Principe Azzurro era il suo nome: ormai capitava così raramente che pensasse a sé stesso, e d’altro canto non c’era nessuno che lo chiamasse. Non era una cosa indispensabile il suo nome. Anche quando stava a mondodilà — e questo lo ricordava bene —, non gli piaceva usarlo. Tanto che se n’era trovato uno nuovo. Un nome nuovo, sì, anche se era solo un diminutivo (mai avuta molta fantasia, lui), un nome che però gli piaceva parecchio, e se solo fosse riuscito a ricordarlo…
« Zur? », dal tono con cui la fata lo disse, Zur immaginò che lo avesse ripetuto molte volte prima di riuscire a sfondare la barriera dei suoi pensieri. Gli capitava spesso di estraniarsi dal mondo esterno quando pensava, ma ovviamente la fata non poteva saperlo.
Sembrava preoccupata, la fata. I capelli si arrotolavano nervosamente intorno alle sue braccia, e lei si mordeva piano le belle labbra.
Povera fata, pensò il principe barbone.
« Non te la passi molto bene, vero? », chiese lei, accigliandosi. « Ci avrei scommesso. Insomma, chiunque ci avrebbe scommesso. Perché non sei tornato indietro? »
Zur non riusciva a seguirla. Tornare dove? Ah, giusto. Mondodilà.
Perché non era tornato? Davvero poteva tornare?
Il suo volto doveva esprimere alla perfezione quelle domande, perché la fata parve allarmata.
« Amnesia, eh? Eppure sei qui da poco, nemmeno due mesi… deve averti preso proprio male questo mondo, per farti dimenticare tutto così in fretta. Ci avrei scommesso, oh sì, ci avrei proprio scommesso »
Zur pensò che la fata dovesse essere una grande scommettitrice.
Biancaneve chiuse gli occhi, prese due o tre respiri profondi e poi spalancò i suoi fanali verdi sull’ammasso di lerciume che le stava davanti.
« E la mela, Principe? Dov'è la mia mela? », chiese. « Non puoi esserti dimenticato anche della mela, giusto? Devi avercela ancora, lì da qualche parte… »
Sembrava, più che altro, che stesse cercando di convincere sé stessa.
Il barbone si limitò a mormorare qualcosa d'incomprensibile. Alzò di nuovo gli occhi verso il cielo ma, ancora una volta, per quanto si sforzasse di spingere lontano il suo sguardo, riuscì a vedere solo grattacieli e cemento.
Che brutto posto, un mondo senza cielo.
Zur pensò al cielo del mondodilà. E più precisamente pensò direttamente a mondodilà. Non lo aveva mai fatto prima.
Ricordò un castello, un re, una regina, un principe azzurro, una principessa in abito da sposa. Ricordò un popolo che si prostrava ai suoi piedi, un esercito pronto a farsi massacrare sotto suo ordine, ricordò un senso di estraneità che pareva davvero ridicolo in confronto a quello che aveva provato una volta arrivato lì a MondoVero.
Ripensò a tutti i suoi dubbi, alle sue insicurezze, alle paure continue.
Se fosse stato possibile misurare il livello di idiozia, decise, lui avrebbe di sicuro battuto ogni record.
Ma ‘fanculo la principessa! ‘Fanculo il re, ‘fanculo la regina, ‘fanculo tutti!
Sono il principe Azzurro, porca puttana!
Era ora di tornare a casa.
« … tutte le bacchette! Sul serio, qual è il tuo problema, stupido principe che non sei altro? Sei diventato sordo? Scemo? Non capisci più il Linguaggio Comune? Sei talmente tanto idiota da non riuscire nemmeno a sopravvivere sei schifose settimane in questo mondo del piffero? Hai idea di quanti guai potrei passare se… », bla, bla, bla.
“Ah già, la fata” , ricordò Zur, rendendosi conto solo in quel momento che lei stava urlando, inascoltata, da circa dieci minuti.
Problemi di concentrazione, si giustificò mentalmente. A proposito: cosa gli aveva chiesto pochi minuti prima? Albero? Fiore? Frutto? Chediamine…?!
Mela.
Sì, mela, ecco.
Zur si irrigidì. La fata lo notò e chiuse finalmente la bocca.
Il principe pensava alla mela e aveva voglia di piangere, senza sapere il perché.
Stupida memoria deficiente.
Dov’è la mela?
La mela fatata, quella che “un morso per andare ed un morso per tornare”, e perché non aveva preso prima quel benedetto morso? Gli dèi lo sapevano se dopo la prima settimana non avrebbe sacrificato vivo il figlio che non aveva pur di sfuggire a quell’infame mondo grigio.
Dove cazzo è la mela?
Biancaneve non parlava più.
Zur infilò la mano sotto il puzzolente straccio che era stato un mantello. Esplorò a lungo le pieghe, cercando in ogni anfratto di tessuto che riusciva a raggiungere. E quando infine le sue dita si richiusero intorno a ciò che cercava, Zur ricordò.
Ricordò il motivo per cui non era tornato a casa.
Guardò la fata con le lacrime agli occhi. Ma no! Adesso sarebbe andato tutto bene, si disse. Lei lo avrebbe aiutato. Sì, lei doveva aiutarlo.
Sfilò lentamente il braccio, e nella sua mano lercia apparve un torsolo di mela.
« L'ho mangiata », spiegò il principe, balbettando. « Avevo fame. Ho dimenticato... ho dimenticato di aspettare la mezzaluna. Avevo fame », ripeté ancora.
“Che idiota”, fu il primo pensiero della fata. Con un gesto quasi disgustato raccolse il torsolo e, dopo averlo guardato per bene, scosse la testa.
« Povero il mio incantesimo... divorato come una caramella », sembrava sinceramente addolorata dalla cosa.
Zur alzò su di lei uno sguardo supplicante e decisamente pentito.
« Aiutami. Riportami a casa »
La fata lo guardò come avrebbe guardato un cane moribondo ricoperto di letame, poi gli rilanciò la mela con un gesto schifato.
« Non posso farlo. Te la sei mangiata, la tua casa », replicò, in tono più duro di quanto realmente avrebbe voluto.
Non posso farlo.
Non può farlo.

Il principe ci mise ben più di un paio di secondi per elaborare l’informazione, e poi, senza sapere in che altro sperare, si sforzò di cercare negli occhi di lei un briciolo di pietà, o compassione, o qualsiasi altra cosa che potesse spingerla ad aiutarlo.
« Puoi contattare l’Ufficio Immigrazione, comunque. Gli porterò una tua lettera », tentò di recuperare la fata. « Forse possono fare qualcosa, considerando che sei un principe di MezzaLuna e tutto il resto »
E tutto il resto? Quale resto?
Zur ridacchiò appena.
L’Ufficio Immigrazione, certo. Zur se lo poteva ben immaginare: la sua richiesta d’aiuto sarebbe senz’altro finita nelle mani di un grosso troll annoiato che, nel migliore dei casi, avrebbe girato la divertente informazione a tutti coloro che gli fossero passati sotto l’enorme naso a carampana.
Forse — un grosso forse — uno dei pezzi grossi avrebbe raccattato quel gossip da ufficio, decidendo di controllare per un puro scrupolo di coscienza.
La notizia si sarebbe diffusa a tutti i regnanti: principe fuggitivo mangia il suo passaporto per tornare a MezzaLuna e rimane bloccato a MondoVero. Avanti, signori Re e signore Regine, chi di voi ha perso un tale esempio di stupidità filiale?
Zur immaginava suo padre — il suo fiero, gigantesco, valoroso padre, che non aveva mai perso una sola guerra in tutta la sua vita, e che regnava da oltre vent’anni sulla sua terra, amato e rispettato anche dal più infido verme nascosto nel sottosuolo — arrossire furiosamente e negare altrettanto furiosamente di aver personalmente messo al mondo un simile inetto.
Immaginava sua madre — bellissima come sempre, elegantissima come sempre, impassibile come sempre — dare, per l’ennesima volta, ragione al suo regale sposo.
Immaginava suo fratello minore — il vero principino della famiglia, quello carino, spiritoso, intrepido, oltremodo viziato, ed azzurro fino ai capelli, quello che già sapeva tirare di scherma meglio di lui, andare a cavallo meglio di lui ed, in generale, essere meglio di lui in qualsiasi situazione — scuotere le spalle con indifferenza.
Immaginava la principessa — quella che lui aveva salvato, anche se non proprio intenzionalmente e di sicuro non in modo eroico, e quella che, subito dopo il “salvataggio” aveva urlato un “ma perché mi dovevi capitare proprio tu? Che ho fatto di male, eh?” — asciugarsi le finte lacrime con un fazzoletto ricamato e pronunciare discorsi accuratamente preparati da innamorata disperata.
Avrebbero di sicuro trovato il modo di spiegare la sua definitiva assenza.
Mangiato da un drago che voleva radere al suolo un paesino, forse. O ucciso da una mandria di coboldi impazziti mentre cercava di salvare una vecchietta in pericolo, magari.
Insomma, morto, sì, ma in modo eroico.
Gli avrebbero fatto un funerale con tanti salamelecchi e poi avrebbero felicemente dimenticato quella macchietta imbarazzante che, in tutta la sua vita, non aveva regalato loro altro che umiliazioni. Oh, certo, ogni tanto lo avrebbero ricordato, probabilmente citandolo casualmente in momenti particolari, in modo da dare sfumature commoventi ai loro discorsi.
Sì, decisamente se lo vedeva il suo fratellino, una volta salito al trono, ad alzare la coppa del vino per brindare al “mio amato fratello, di cui mi trovo oggi costretto a prendere il posto”.
Falsi ipocriti schifosi.
La fata era ancora china su di lui. Zur rifletté in fretta, tentando di sfruttare quel momento di lucidità così inaspettato.
« Se tutto questo si venisse a sapere ti creerebbe dei problemi sul lavoro, non è vero? », buttò lì, come se nulla fosse.
Biancaneve si accigliò.
Il metodo delle mele non era mai piaciuto ai suoi superiori. Ogni fata aveva il diritto di crearsi il proprio passaporto, però, e quindi alla fine avevano dovuto concederle di portare avanti quella sua fiaba personale, cosa che lei faceva con molto piacere.
Adesso che questo idiota s’era mangiato il suo incantesimo — se l’era mangiato, per la Fata Madrina! Duecento anni di onorata carriera, e nessuno era mai stato così cretino da fare una cosa del genere — di sicuro quegli infidi folletti dirigenti avrebbero scaricato la colpa su di lei ed i suoi metodi inefficienti.
Seccata, la fata fece schioccare sonoramente le labbra. Era un tic nervoso che, per quanto lei credesse di aver sconfitto, si ripresentava sempre in situazioni altamente stressanti — tipo quella, sì.
« Possiamo fare un patto », continuò il principe, osservandola da sotto le ciglia incrostate di sporco. Non era mai stato un campione di idee, ma l’istinto di sopravvivenza, evidentemente, aguzzava l’ingegno anche degli stupidi più stupidi mai esistiti.
« Che patto? », domandò la fata, diffidente. In verità, dentro di sé, scartò immediatamente la sola idea di un qualsiasi legame tra quello straccione e sé stessa, ma ascoltarlo non poteva farle del male, no?
« Sei sicura che io non possa tornare a MezzaLuna? »
« Sicura », rispose lei immediatamente. « Non legalmente, almeno », aggiunse dopo un attimo. Poi, vedendo una scintilla di speranza fiorire in quei tristi occhi azzurri che le stavano davanti, si affrettò a precisare: « Non chiedermi come. Non lo so, e comunque non te lo direi anche se lo sapessi »
Zur annuì, rassegnato.
« Allora facciamo un patto », ripeté, dopo qualche secondo. « Io resto qui, e tu registri la mia permanenza volontaria, senza menzionare il fatto che non ho più il mio passaporto »
« Ed in cambio? »
« Polvere di fata. Dammi solo un po’ della tua polvere di fata per aiutarmi a sopravvivere »
« Impossibile! », sibilò Biancaneve, tirandosi immediatamente in piedi. « Non è permesso usare la magia qui a MondoVero, e la polvere di fata è una delle sostanze magiche più potenti, dovresti saperlo! »
« Lo so. Non mi farò scoprire », la implorò il ragazzo.
« E dovrei fidarmi di uno come te? Di uno che si è magiato il mio incantesimo? Di un Principe Azzurro che non è capace nemmeno di fare il suo stupidissimo lavoro? », a questo punto Biancaneve stava decisamente urlando. I capelli le si agitavano intorno alla testa come serpenti, e gli occhi verdi mostravano vaghe sfumature di rosso. Era molto, molto furiosa.
« È la soluzione più semplice, però », obiettò Zur, mentre il sudore gli scendeva a grossi rivoli sulla fronte. La fata era l’unica sua possibilità per riavere una vita degna di questo nome.
Cosa avrebbe fatto se lei avesse rifiutato? Non poteva sopravvivere ancora per molto in quelle condizioni. Già l’idea di rimanere a ModoVero lo terrorizzava, ma se solo avesse potuto contare sulla polvere di fata sarebbe già stata un’altra cosa.
E poi, Biancaneve aveva detto che di modi per tornare a casa ce n’erano, anche se illegali, no?
La fata, intanto, gli aveva voltato le spalle.
Zur chiuse gli occhi e attese, sinceramente dispiaciuto di non avere alcuna divinità da pregare.
« Potrei andarmene e basta, sai », mormorò la fata pochi minuti dopo, senza accennare minimamente a voltarsi verso di lui.
Il principe si lasciò sfuggire un gemito che suonava più come di sollievo che di paura.
« Non lo faresti », rispose, sicuro.
La fata si girò di scatto, ancora furiosa, e gli piantò di nuovo gli occhi negli occhi.
« Cosa ne sai? », ringhiò, acida. « Non sarebbe certo la cosa peggiore che ho fatto nella mia vita »
Zur sorrise appena.
« Ma tu sei una fata di Frontiera. Il tuo lavoro è la tua natura »
« E allora? Tu sei nato principe, ma non stai certo regnando »
« Forse non è ancora giunto il mio tempo », replicò Zur. « Ma il tuo tempo è giunto da un pezzo, invece »
« Non vuol dire nulla »
« Vuol dire tutto, invece », il principe sorrise ancora, prima di citare a memoria: « Noi siamo quello che siamo. E nello specifico siamo creature di fiaba »
Biancaneve riconobbe immediatamente le proprie parole e, dietro di esse, riconobbe la sua filosofia, la realtà della propria vita. Sospirò appena, poi tornò ad accoccolarsi di fronte al suo nuovo ed inatteso complice.
« Domani mi dimenticherò di te. Se mi capiterai davanti di nuovo, non ti riconoscerò. Potrai insistere quanto ti pare, ma io non ti riconoscerò. Chiaro? »
« Chiarissimo », si affrettò a rispondere Zur, sentendo il cuore mancare un battito alla realizzazione che la fata aveva accettato.
« Se mai qualcuno venisse a chiedermi di te, dirò che hai rinnegato MezzaLuna e tutto il suo popolo », continuò lei, « Dirò che sei un traditore, un disertore, un— »
« Di' quello che vuoi », la interruppe Zur. « Non importa. Non potrò mai essere una delusione peggiore di quanto non sia già stato fino ad oggi »
La fata annuì impercettibilmente e si sistemò una ciocca di capelli dietro le orecchie puntute.
« Dammi qualcosa di tuo », gli ordinò.
Preso in contropiede, Zur esitò. Lui non aveva nulla, assolutamente nulla, se non i propri vestiti lerci e le scarpe. Cose che, chiaramente, la fata avrebbe decisamente preferito non toccare.
Dopo qualche secondo di intenso sconforto, Zur si risolse a ridarle il torsolo di mela che pochi minuti prima la fata gli aveva lanciato contro.
Biancaneve alzò un sopracciglio, quasi divertita.
« Questo? », domandò, scettica.
« Questo », confermò Zur.
Biancaneve scosse le spalle, facendo così oscillare le ciocche intorno al volto.
« Come vuoi », borbottò, facendo levitare il torsolo a mezz’aria e cominciando a mormorare parole incomprensibili per chiunque non fosse una fata.
Con quella litania nelle orecchie, Zur osservò con attenzione il torsolo dilatarsi e restringersi, brillare di luce propria e poi spegnersi, fino a riprendere la sua originaria forma di mela ed assumere un tenue color argento.
Così, ad una prima occhiata, adesso sembrava un soprammobile un po’ pacchiano.
La fata gliela tese con un gesto seccato, e Zur l’afferrò con la massima cura, rigirandosela tra le dita. Biancaneve e le mele… il fascino del vecchio stile.
« Il nostro patto », sottolineò la fata. « Forse l’argento riuscirai a non mangiarlo », aggiunse sarcasticamente. Zur ignorò la provocazione.
« Come funziona? »
« Come qualsiasi oggetto magico. Può fare qualunque cosa io posso fare, con i miei stessi limiti, ovviamente. Non ho intenzione di stare qui ad elencarti ogni mio potere, quindi arrangiati. Ovviamente più la usi più si consuma. Tornerà ad essere un torsolo quando la polvere di fata si sarà esaurita »
Zur elaborò quanto più velocemente possibile una lista di tutte le cose che le aveva visto fare, aggiungendole alle dicerie popolari sui poteri delle fate di Frontiera. Si ritenne più che soddisfatto.
« Potrebbero ricondurla a te? », chiese poi, leggermente preoccupato.
« No », la fata sorrise malignamente. « Le mele magiche sono un incantesimo molto comune. Hanno un fascino vecchio stile, sai com’è »
« Sì », annuì Zur. « Sì, lo so »
La fata era già qualche passo più lontana da lui. Si aggiustò il cappotto, sistemò alla meglio i capelli e poi tornò a guardarlo.
« Sai, non so cosa tu fossi prima, ma adesso sei ancora meno », non c’era cattiveria nel suo tono. Non più di tanto, almeno. Sembrava più che altro una semplice constatazione. « Adesso non sei niente »
Zur annuì, sorridendo appena a sé stesso. Posò un leggero bacio sulla superficie fredda della mela argentata e rivolse un ultimo sguardo alla fata che si era già allontantata, e stava giusto scomparendo nella nebbia mattutina; Dopodiché, per la prima volta da parecchio tempo, si alzò in piedi e cominciò a camminare in direzione del vecchio ponte.
Le gambe gli facevano male, i muscoli atrofizzati strillavano di dolore ad ogni passo, ed intanto la sua pancia brontolava furiosamente, ricordandogli che aveva una fame da morire.
Con la mela stretta al petto, il principe barbone continuò ad andare avanti, senza prestare attenzione a nulla, se non all’oggetto che teneva tra le mani.
Aveva una seconda possibilità, si ripeteva. Non gli pareva vero.
Una volta arrivato al ponte, Zur alzò lo sguardo verso CieloVero, ancora azzurro, ancora bello, ancora reale. Una grossa nuvola dalla forma nettamente rettangolare attirò immediatamente il suo sguardo.
Sorrise.
Immaginò un libro, un bel libro di favole come quelli che si custodivano nella biblioteca del suo palazzo, e che portavano incisi sulla copertina i nomi dei suoi illustri antenati.
Questo libro, però, era il suo libro, ed era completamente bianco. Nuovo, pulito, pronto ad accogliere qualsiasi storia lui avesse deciso di scrivere.
“C’era una volta un principe che non era nulla, che viveva in un mondo che non era niente, e proprio per questo, insieme, avrebbero potuto diventare tutto…”, sarebbero state le prime righe. E poi… poi chissà.
La trama l’avrebbe scoperta strada facendo.

   
 
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