La
prima volta che incontrai Candy fu
come se tutta la mia vita avesse appena acquistato un significato.
La luce nei suoi occhi, sul suo
sorriso, il modo in cui si illuminava tutte le volte che parlava, o
camminava.
Mi fece sentire come se non avessi mai sperimentato nulla di realmente
piacevole nella mia esistenza, come se ciò che
c’era di più buono e stupendo
nel mondo dovessi ancora scoprirlo e che non sarei mai riuscito a
trovarlo se
non avessi incontrato lei.
Capii di non avere avuto niente prima
che potesse essere ritenuto abbastanza soddisfacente per uno scopo.
Le parole, i libri, la poesia, come
chiamavo ciò che sarebbe dovuto essere parte integrante di
me, della mia vita,
del mio futuro, non avevano senso davanti a lei che sembrava
così in alto,
sopra ogni limite immaginabile, così lontana, distante da
me…dal mio mondo,
dalla mia debolezza.
Quella camminata sicura, come la vidi
il primo giorno, fuori da quel bar, splendente sotto al sole
primaverile, i
capelli biondi accarezzati dal vento, il sorriso sempre acceso, anche
se in
quel momento non era con nessuno se non un cellulare alla mano da cui
stava
parlando.
E i nostri sguardi si erano
improvvisamente incrociati anche se avevo pensato che fosse uno
sbaglio, che
non stesse guardando me, ma qualcun altro vicino oppure che,
semplicemente,
stesse vedendo oltre il reale, uscendo dalla visuale quotidiana come
feci
anch’io, scorgendola, e come sempre riuscivo a fare da quando
era entrata nella
mia vita.
Ma non potevo crederci. Lei non poteva
essere mia. Non una ragazza così perfetta, così
speciale, bellissima. Era fuori
dalla mia portata.
Non si sarebbe mai potuta avvicinare a
uno come me. Sempre senza un soldo, poeta fallito di partenza e in
cerca di un
lavoro con la scusa che ciò che scrivevo non aveva ancora
trovato la giusta
collocazione, nonché drogato.
Non avrebbe…
Invece si era diretta verso di me,
salutandomi, niente era più riuscito a farmi togliere gli
occhi di dosso da lei
e inevitabilmente avevo capito che non avrei più potuto
starle lontano.
Non ero da biasimare. All’inizio tutti
l’avrebbero detto. Le nostre, anzi e soprattutto le mie,
intenzioni erano
buone, positive, ottime. Cercavo solo di essere giusto per lei, di
andarle
bene, di farla sentire felice, per non perderla.
Non vedevo quello che c’era già di
sbagliato in partenza: il fatto che fossimo insieme.
Tutto sarebbe dovuto andare per il
meglio ma quando cominci non sai come fermarti, non sai come dire di
no, non
sai come tirarti indietro e, in un certo senso, l’avevo fatto
per lei, perché
me l’aveva chiesto, e come ogni altra sua richiesta, non
avevo saputo dirle di
no, anche se era sbagliato.
Volevamo
condividere tutto.
Lei era una pittrice, io un poeta.
Quale miglior connubio?
Poi si aggiungeva l’amica esterna,
colei che aveva distrutto tutto già dal principio ma che lei
non aveva
rifiutato. Ogni volta mi diceva che voleva provarla come me, ma in quei
momenti
ritornavo un po’ lucido, capivo che erano dosi ancora troppo
pesati per lei che
aveva cominciato da poco e subito dopo il primo collasso avrei dovuto
dirle di
farla finita, come avrei dovuto fare io da tempo.
Ma non c’era più ritorno. Non ci
sarebbe mai stato e continuavamo con quella farsa, sentendoci bene allo
stesso
tempo, completandoci..perché dio quanto l’amavo.
Ci amavamo, sì a modo nostro.
Ma a me andava bene così e per quello
che mi diceva, anche a lei.
Non volevo farle del male, non
volontariamente, perché niente andò bene dal
principio. Ogni decisione presa o
ogni azione fatta fu un totale disfacimento che cominciò a
portarci sempre più
verso il fondo ogni istante che passava, sempre un gradino
più in basso, più
giù fino al baratro.
La droga. La prostituzione. Il
matrimonio. I furti. I tentativi di smettere. L’aborto.
Più mi dicevo che doveva finire, che
dovevo lasciarla perché ero io ad averla ridotta
così, era per colpa mia che
non sorrideva più, che non era più felice,
tranquilla e in salute, più mi
rendevo conto di non riuscirci perché avevo bisogno di lei
come l’aria che
respiravo, ne avevo bisogno per vivere o almeno tentare di farlo.
Non
avevo cercato di migliorare la sua vita, ma di rendere migliore la mia
con il
suo aiuto.
Ma avevo fatto solo errori, era stato
un obbiettivo ingiusto dal principio e ne ripagavamo le conseguenze.
Litigi. Pianti. Perdite anche troppo
sofferte. Perché doveva essere costretta a tutto questo
quando poteva ancora
salvarsi?
Così l’avevo lasciata andare.
L’esaurimento nervoso era stata quella lampadina finale che
mi aveva convinto
una buona volta, dio mi ci era voluto anche troppo cazzo.
Ma non potevo continuare a rovinarle
la vita in quel modo. Era talmente perfetta, stupenda e meravigliosa
che non se
lo meritava, io non meritavo lei, l’avevo saputo dal primo
momento, ma come
tutto il resto, ero sempre stato troppo debole per rifiutare o per far
terminare tutto prima.
E ora, ogni cosa aveva perso di
attrattiva, di prospettive non ce n’erano e quel bicchiere
d’acqua mezzo vuoto
sul tavolo mi sembrava ancora terribilmente pieno e la mia bocca
asciutta senza
più saliva dopo averla vista per l’ultima volta.
Avrebbe voluto tornare con me. Non
avevo capito come potesse essere possibile.
Non avevo capito nemmeno come avessi
fatto a dirle di no, a respingerla come avrei dovuto fare al nostro
primo
incontro.
Mi sentivo ancora su quella giostra,
di quel giorno che ormai mi sembrava lontano, perso nei ricordi di un
qualcosa
che non avrebbe mai dovuto esserci.
Una giostra che mi ruotava attorno,
come la mia vita.
Senza senso, monotona, vuota.
Le due frasi scritte in corsivo sono battute tradotte e prese dal film.
L'incontro, come l'ho descritto qui, l'ho lasciato molto generico perchè nel film non c'èe non viene spiegato, quindi non volevo inventarmi niente di troppo articolato.
Tutto il resto proviene ed è ispirato dal film.
Candy . di Neil Armfield . con Heath Ledger, Abbie Cornish, Geoffrey Rush
Grazie a tutti coloro che leggeranno, recensiranno o aggiungeranno tra i preferiti!
Bacissimi
Leia