Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: lewis_alice    09/02/2010    3 recensioni
Una donna, un uomo. Una mangiafuoco che è una lepre nella neve, un funambolo che è un falco davanti alla preda. Il loro ritrovarsi, un incontro fatale per entrambi, anche se in modo diverso. L'ultima fiammata della fenice, per davvero. [questa storia si è classificata prima al contest. "Teatranti, girovaghi e cantastorie" indetto da Alaide]    
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

La Fenice dei Giorni miei più Luminosi

 

Image Hosted by ImageShack.us

 

Fuoco come aliti di calore, potenza distruttrice e vitale, gemme di luce, riflettori.

Fuoco come un cinema che è bruciato in sé stesso, inghiottendo nel rosso i sogni di celluloide e nell’arancio l’ultimo applauso.

Fuoco come quello che fa roteare ai polsi nella sua ancestrale danza da incantatrice, fenice di piume e lustrini, che muore nelle sere umide e risorge in un’altra città, in un’altra piazza.

Fiamme di musica senza tempo, scintille di un pubblico stanco ma ammaliato, sprazzi di calore che dalle sue braccia e dalle sue corde vocali guizzano a scaldare una sala fredda di un vecchio night.

  A volte non è la  vita a cambiarci, a volte rimaniamo intrappolati nel nostro guscio di buoni propositi in cui stiamo tanto scomodi, ma dannatamente al sicuro.

Non lei.

La Fenice dei giorni miei più luminosi per me è morta una sera d’aprile, in cui è scappata come un ratto e non sembrava poi tanto bella nel mio giaccone logoro e troppo grande per lei. Si è trascinata via una borsa che scottava di soldi e sono morto anche io, per autocombustione.

Una stella solitaria, lontanissima. Esprimiamo i nostri desideri guardandola, sicuri che ci ascolterà; riponiamo in lei le speranze per il futuro. Ma forse è già morta e ne vediamo solo il riflesso nel tempo. O più probabilmente se ne frega di tutti noi, ci sorride e pensa ad altro, ai suoi problemi. E si chiede con che diritto la amiamo, lei che non capisce.

D’altronde è solo una stella.

 

Parigi, Vienna, Dresda, Bratislava, Budapest, Praga. Tutte uguali, diceva così. Tutte uguali viste dall’alto di una capriola di vita che è equilibrio, che è tensione e sudore. Un piede davanti all’altro e il dilatarsi infinito di un battito di ciglia che oscura il cielo per un secondo lunghissimo. Il funambolo e la mangiafuoco. Aria, aria, aria, aria: fuoco! Strana coppia, non è così?

Praga, Budapest, Bratislava, Dresda, Vienna, Parigi: tutte uguali dall’alto di un filo teso che determina la distanza tra te ed il suolo, tra te e gli altri.

Il fatto è che c’è sempre stata, questa dannatissima distanza, solo che non si vedeva.

Un filo invece… un filo è chiarissimo, è netto, è una ferita nel cielo per chi guarda verso l’alto.

E sta immobile, indifferente alla fatica ed al pericolo di chi non ha altro che il nulla attorno, salvo qualche grido d’incoraggiamento ed un paio di bocconi di vertigine che si inghiottono come niente.

Ma io penso che siano tutte stronzate: un filo è solo un filo, dopotutto.

   Aveva i piedi nudi ed oscillava nel mio campo visivo a scatti incontrollati.

Guardo-non guardo-guardo-non guardo-dannazione ma perché non c’è una rete là sotto?

Alla fine non potevo non osservare rapita la precisione quasi marziale di ogni suo passo: aveva l’incedere deciso ed incurante dell’altezza di chi è sicuro della propria abilità.

   E quando stava sospeso, così, ed era aria… quando stava così sospeso non pensava a me, ne sono sicura. Avrei davvero voluto saperlo, che cosa gli attraversasse la mente. Aveva un’espressione di massima concentrazione, e felicità, quella felicità speciale di chi è lontano anni luce dal mondo, a venti metri dal suolo.

Guardando quel viso potevo ancora ricordare come c’eravamo amati, riuscivo a dimenticare le botte e la stanchezza, il suo alito d’alcool quando tornava in piena notte da chissà dove. Ed io mi facevo piccola piccola nel letto cercando di non fare rumore mentre tutto attorno collassavano le pareti di una vita che sarebbe stata felice.

Quando lo vedevo lassù, stagliato contro il sole, potevo dimenticare. Però ci voleva poco per tornare a terra: era distante solo venti metri e pochi anni luce.

Così decisi di scappare. Ma non senza portarmi via qualcosa.

 

Da in mezzo alla folla riesco a  vederla, anche se con fatica. È davvero brava: ogni suo movimento è vero; come sempre è sola, concentrata su sé stessa. La curva del collo tesa, poi uno scatto delle braccia: non c’è nessuna delicatezza nella sua danza, nessuna dolcezza.

La gente né è turbata, posso capirlo. Eppure non riesce a non venire rapita dalla blasfema sacralità di ogni suo passo, dalle note della musica antichissima e trascinante che li riporta all’Africa. Non ci sono mai stati, ma pare che veniamo tutti da lì, da una culla di fango e caldo sole arancione.

Ed allora si fermano, attorno a lei, attorno ai mangiafuoco ed ai giocolieri di quella compagnia di anime sole e libere. Invidia, ammirazione. La gente prova questo per loro.

Osservano la mia Fenice e vengono colti da una sorta di timore reverenziale, da un brivido che risveglia le loro pulsioni messe a tacere da tempo, i loro sogni dimenticati in una valigia gettata nel fiume.

 E non sanno che lei era come loro! Questa creatura divina e guizzante che danza e gioca col fuoco suo amante è truccata molto bene. Abbastanza, perlomeno da dimenticare la sua casa, da rimuovere i ricordi di mattine fresche e di notti distrutte dal marcio di una relazione che si sgretola nell’indifferenza o nella stanchezza..

-Fuggire non è una soluzione, mia piccola fiamma!

Ha lasciato dietro di sé troppa cenere perché si potessero perdere le sue tracce. E nemmeno si è potuto dimenticare il sorriso che dolce le schiudeva le labbra quando, come una bambina, vedeva la prima neve dell’anno. O il nero profondissimo dei suoi occhi: tunnel intercostali che inghiottivano i tumori nel mio petto.

E non sa che non sono i soldi che cerco, non me ne importa nulla. Non si è portata via solo quelli. E nemmeno l’amore. Sempre che si possa chiamare amore quel dolore caldissimo che nuota nel mio petto da quando se n’è andata.

Ma lei ha qualcosa con sé, qualcosa che si annida nei suoi lividi ormai svaniti e nelle sue lacrime evaporate da anni.

 

Lo vedo. È in mezzo alla gente e mi sta fissando con quei suoi occhi da rapace.

Ed io sono solo una lepre che ha corso veloce, ma non abbastanza. Sono stanca, le mie orecchie sono gelate dal vento, le mie zampe addormentate dal freddo.

Un’ondata di panico mi assale con una forza tale che non posso far altro che assecondarla. E mi trascina a fondo.

Il falco vola pigro in volute sempre più strette sopra di me. Osserva senza espressione il mio pelo folto e la mia carne tenera tremare.

-Incontrarsi di nuovo, non è un caso.- dice il suo volo discensionale. Artigli affilati e morbido piumaggio. Come sempre.

Sembra che mi abbia cercato a lungo.

Incontrarsi così, sono stata poco saggia. Sono esposta ed indifesa ora.

Cerco di continuare a danzare, cerco la carica emotiva che ormai è perduta. Mi guardo attorno.

Gli altri stanno andando avanti, ignari, con il nostro numero. Giocare con il fuoco, quello che ho sempre fatto. Ora, certo, è solo un numero da circo da quattro soldi; per sopravvivere in qualche modo.

Ma, un tempo, il fuoco era molto diverso e più pericoloso. Era il fuoco insano negli occhi di chi confonde l’amore con l’ossessione. Ero troppo ingenua, troppo fragile.

Ma sono cresciuta molto in fretta, ho un esoscheletro invidiabile ora. E scappo veloce, quando ne ho la forza.

Vorrei averla anche adesso.

Alzo lo sguardo: il falco è sempre lì.

–So che sei qui. Non ho paura.

Vorrei urlare le mie menzogne, vorrei scuotere quel viso bello ed aguzzo, vorrei dirgli che ci amavamo ma abbiamo rovinato tutto. Dovremmo solo cercare di trovare nelle macerie qualcosa da cui ricominciare. Io ci ho provato, e pensavo di esserci riuscita. Illusa.

-Perché non te ne vai, amore mio, mio Falco? Perché non trovi un’altra preda stavolta?

  Ma nei suoi occhi, nelle sue pupille ridotte a spilli, vedo solo la sete della bestia. E si confonde bene in mezzo corpi vestiti da signori per bene.

Nella neve, in questo turbinio bianco, lui mi sovrasta. Con una lentezza intollerabile plana accanto a me. Ed è freddo nel gelo, o meglio: non pensavo di avere tanta paura. Codarda, codarda, codarda!

Facciamola finita! La caccia è terminata, la piccola lepre è stravolta ed a terra. La scena è immobile e fredda di attesa.

Anche la gente aspetta questo momento, vogliono rimanere stupiti, incantati. E non importa se sanno già come andrà a finire.

 

Il gran finale del numero.

Afferro la torcia di legno, la avvicino al viso. Il ritmo della musica accelera. Spalanco la bocca e lascio entrare le fiamme. Il pubblico è catturato, in attesa.

Inclino la testa all’indietro, poi con una mossa fluida ritorno su.

La gente trattiene il fiato.

Schiudo le labbra: fuoco!

 

Il gran finale del numero: la musica accelera. Lei porta al viso la fiaccola rovente di intrattenimento e calore.

-È il momento, mia fenice. Per me sei già morta una sera d’aprile. Ma, come ogni fenice, sei risorta con un nuovo piumaggio, più splendida e falsa che mai.

Inclina la testa all’indietro, i riccioli le ricadono morbidi sulla schiena. Dentro di sé le fiamme, ma io so che ci sono sempre state.

–Vai a fuoco, piccola mia!

Come un serpente si rialza rapida. Il pubblico è sospeso, trattiene il respiro aspettando la liberazione di quelle fiamme sopite, l’effimero sbuffo di fuoco che non soddisferà le loro frustrazioni. Ma, eccome se li stupirà!  

Impugno la pistola più saldamente.

Schiude le labbra: fuoco!

Fuoco!

Il proiettile è un sibilo che nessuno sente, il colpo viene frainteso nella nube di fiamme e sangue.

I suoi compagni accorrono stupiti e confusi, lenti come in un sogno terribile di gelatina in cui le gambe non rispondono più alla testa.

Me ne vado in silenzio, ma già la gente comincia a guardarsi intorno spaventata.

- Venitemi a prendere! Io ho finito il mio numero!

  Lei giace scomposta, circondata da una piccola pozza di rosso ed incredulità.

La mia fenice è morta in una fiammata. Ma questa volta non potrà rinascere dalle sue ceneri.

Ed io non ho che da osservare i resti di questa messa in scena che è l’amore, che è la  vita, che è solo un filo. Un maledettissimo filo da cui si può cadere al minimo colpo di vento, cadere e farsi molto male, questo è certo. Però il pubblico ha avuto la sua dose d’intrattenimento. E di sangue, ma forse è la stessa cosa.

Ed ora che ho cancellato la parte peggiore di me, il mio passato che si era trascinata  via –e che nonostante tutto sentivo prudere come un arto fantasma, ma più in profondità- come mi sento?

Ora che ho estirpato la mia ombra dai suoi lividi ormai svaniti e dalle sue lacrime evaporate da anni sono un uomo migliore?

Ho sempre avuto un grande equilibrio nelle mie esibizioni. Nella vita mai. È tutto un vortice che ti trascina giù senza darti il tempo di capire dove è il sopra, lo sbagliato, il sotto, il giusto.

- Venitemi a prendere.  Io ho finito il mio numero.

Quello che aspettavo: un nuovo inizio, un’altra vita libera dal peso dei ricordi che ti si attaccano addosso come mostruose sanguisughe di vergogna.

Non è quello che volevo? Ho lavato i miei peccati con un colpo preciso, eppure mi sento ancora lordo dentro.

Potrei davvero, però. Ricominciare, intendo: potrei farlo ma una grande stanchezza che sa di vuoto me lo impedisce in qualche modo.

Invece aspetterò la prima pietra, e chi la scaglierà sarà per me indifferente.

Ed avrà il gusto metallico delle manette ai polsi, delle sbarre di una gabbia per rapaci. Ed avrà il gusto metallico dell’espiazione, una volta per tutte.

-Venitemi a prendere… io ho finito.

 

 

 

 

   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: lewis_alice