Avevo
ventisei anni all’epoca. Ero ancora ingenua e
credevo molto in me stessa e nel mio lavoro; lo facevo con passione, mi
sentivo
completa ed appagata. Sicuramente, non si può considerare
una professione
semplice la mia, si ha a che fare con la morte praticamente tutti i
giorni;
perché se non è imminente, sai che aleggia
nell’aria in continuazione. Ero una
ragazza felice, e a dir la verità lo sono
tutt’ora, ma non sapevo mi potesse
capitare una cosa del genere, ero troppo preparata, ero sinceramente
pronta a
mantenere il distacco da tutti, seppur con gentilezza. Era quello uno
dei miei
compiti dopotutto, rimanere distaccata, non era poi tanto difficile.
Stronzate.
Decisamente stronzate. Perché quando lavori in ospedale e
sei un’infermiera,
non puoi fare a meno di affezionarti ai tuoi pazienti. Specialmente se
lavori in
un reparto per bambini malati di AIDS.
Lavoravo
li già da tre anni, ho cominciato subito dopo
la laurea in Infermieristica Pediatrica, e mi sono trovata bene da
subito:
Infermieri simpatici, Dottori umili… tutto il personale era
disponibile.
Naturalmente non è stato facile sin dall’inizio,
in un reparto del genere di
dolore ne senti tanto, una malattia del genere non è facile
per i grandi, non
lo è persino per chi se l’è quasi
cercata, figuriamoci quando a subire i danni
sono degli innocenti. Gli occhi pieni di dolore dei genitori, non erano
nulla
in confronto a quelli dei bambini. Nonostante tutto, andavo avanti con
la mia
vita, i bambini purtroppo andavano e venivano, ma ero forte, riuscivo a
sopportare tutto.
Un
giorno la porta del reparto si spalancò ed entrò
una
figura minuta, seguita da una donna così bella che persino i
capelli legati con
un mollettone avevano una certa poesia. I suoi occhi verdi erano
perfettamente
riprodotti nel viso della figura, che si guardava intorno con aria
curiosa, con
quei suoi occhi… quegli occhi non li dimenticherò
mai. L’accompagnai io stessa
al suo nuovo lettino, con le decorazioni di aeroplanini e barche a
vela, che
l’attendeva già da qualche ora, bello stirato.
Guardò la madre con aria felice,
e allora mi chiesi se per caso non sapesse il motivo della sua presenza
in quel
posto; fu l’unica volta che lo feci.
“Mamma
qui mi piace! Sono certo che guarirò!”
Un
sorriso così spiazzante, che dovetti uscire dalla
stanza di corsa, portandomi la mano sul viso, e lasciandoli a sistemare
le
poche cose del mio nuovo paziente. Non saprei spiegarvi quello che
lessi negli
occhi verdi della donna quando uscì e mi sorrise, posso solo
dirvi che
piangeva. Più avanti mi avrebbe detto che sapeva che quelle
frasi non erano
certo per rincuorare se stesso, ma per rincuorare la madre stessa.
Non
posso dirvi il suo vero nome, perciò lo chiameremo
Daniele. Era un ragazzino come tutti gli altri, amava giocare, amava
guardare i
cartoni animati, sognava di diventare tante cose. Primo tra tutti
astronauta;
sognava quei cieli come se fossero biscotti, guardava le stelle con la
stessa
golosità con cui si guarda un biscotto particolarmente
grande e ben riuscito.
In poco tempo ci affezionammo l’uno all’altra, era
l’unico a rimanere così
tanto tempo. Passarono parecchi mesi e lui riusciva sempre a
sorprendermi,
aveva dieci anni ma era molto sveglio; aveva dieci anni e sapeva della
sua
malattia. Sapeva che sarebbe morto eppure aveva quel sorriso
abbagliante
stampato sul viso. Daniele era gentile, allegro, sognatore e diceva
cose
incredibili. Era pallido, smunto, ma pimpante. Chiunque
l’abbia conosciuto non
potrà mai dimenticare i suoi occhi verdi, così
pieni di dolore… così pieni di
speranza. Aveva una parola buona per tutti i suoi parenti, e non riesco
neanche
a ricordare quando cominciò a dirne qualcuna anche a me,
forse quando una
mattina mi aveva trovata in lacrime davanti al suo lettino.
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“Wendy?”
amava chiamarmi così, solo perché adorava la
storia di Peter Pan, e mi vedeva bene come racconta storie, infondo
lavoravo
con i bambini sperduti. Così li chiamava. “Sai che
stamattina ho visto un
uccellino sulla finestra? Penso che mi porterà fortuna!
Starò bene presto!” non
seppi mai se l’avesse visto davvero. Daniele inventava spesso
cose da
raccontare, la sua vita era tutta una storia. Quando si dice che i
bambini
parlano di cose incredibili è proprio vero, lui non faceva
che raccontare di
mondi fantastici e dire cose che non sembravano uscire da un ragazzino
di soli
dieci anni.
“Quando
vedo gli occhi della mamma, mi sembra di vedere
un prato fiorito, ma non per il verde!”
“Ah
no?” lo guardai con un sorrisetto mentre mi tendeva
la mano alla ricerca di una carezza da regalare.
“Nei
suoi occhi sbocciano sempre tanti fiori quando mi
guarda! Sembra che li faccia crescere solo per me, e sono
felice!”
“Certo
che li fa crescere per te! Sei la cosa più
preziosa al mondo per lei!” gli carezzai i capelli, facendo
finta di rimetterli
a posto.
“Nei
tuoi occhi vedo le stelle Wendy” si sedette sul
letto, per mettere il suo viso al pari del mio. Lo guardai con
curiosità.
“Sì!
Le regali a tutti. Brillano quando sorridi,
accecano quando sei felice” annuì con un mezzo
sorriso.
“E’
una cosa bella allora” risi divertita, non capivo
perché mi stesse dicendo quelle cose, ma lo assecondai.
“Perché
quando sei sola, le tue stelle si spengono,
Wendy?”
Quel
bambino mi aveva capita più di chiunque altro in
vita mia.
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Passavano
i mesi e lui rimaneva nello stesso lettino,
con la stessa speranza negli occhi smeraldini. Nessuno si chiederebbe
più
perché verde speranza se avessero visto il viso di Daniele.
Sarebbe bastato un
solo sguardo, un solo sorriso, una semplice richiesta di carezza, e
tutto il
mondo sarebbe cambiato. Sono sempre le cose pure a rimetterci,
perché io so,
che se avesse avuto la possibilità, lui avrebbe cambiato il
mondo.
“Wendy,
sai perché il cielo ha così tanti
colori?” mi
guardò per un solo istante, prima di tornare affacciato alla
finestra. Era
mezzogiorno.
“La
Terra gira intorno al suo asse, perciò il Sole non
è sempre li ad illuminarlo” alzai le spalle, come
se fossi stata una
professoressa e lui un alunno curioso.
“Secondo
me c’è di più… secondo me
è per rendere
diversi momenti del giorno speciali!” anche lui mi rispose
con semplicità. “Se
per esempio il cielo fosse sempre celeste, non vedremmo le stelle, e se
fosse
sempre blu, non potremmo indovinare le forme delle nuvole!”
“Forse
hai ragione tu, sai? Quando si è grandi
minimizziamo il tutto alle nostre conoscenze. Quando si sa qualcosa, si
accantona la propria fantasia. È la conoscenza a
distruggerla” quel ragazzino
mi stupiva giorno dopo giorno, la sua forza era fonte di speranza anche
per me.
“E
se esistessero due bambini?” mi chiese
all’improvviso.
“Beh,
ne esistono più di due! Lo sai benissimo!”
ridacchiai, non capendo appieno le sue parole; rise anche lui, per
gentilezza.
“No,
Wendy! Intendevo nel cielo! Se esistesse un
bambino del giorno e un bambino della notte! Immagina che il primo
faccia
rotolare il Sole, per creare i giochi di luce dei raggi e per regalare
al mondo
l’arcobaleno quando piove, e che invece il secondo salti di
stella in stella,
riaccendendole quando diventano troppo fioche! Non sarebbe
bello?” mi guardò
con quegli occhi brillanti, così accesi da accecarmi e non
riuscii a far altro
che annuire e sorridergli con delicatezza per almeno dieci secondi.
“Come
vogliamo chiamarli?” gli chiesi curiosa, quando
lui raccontava qualcosa era sempre totalmente inaspettata.
“Eromyl
e Mejiastick! Giorno e Notte! Sì… però
loro due
sarebbero tristi!” per un secondo solo vidi il suo sguardo
velarsi di tristezza.
“Cosa?
E perché?” lo guardai così stupefatta e
sconvolta, che lui torno immediatamente sorridente.
“Prova
ad immaginare di non poter mai giocare con il
tuo migliore amico, Wendy! Come ti sentiresti?” nuovamente lo
guardai
incuriosita: quel bambino aveva creato una storia tutta sua. Da quanto
ci
pensava? L’aveva sognata? Immaginava di avere un amico? E
soprattutto, si
considerava il bambino della notte o del giorno?
“Sarei
molto triste, Daniele” gli carezzai la testa
“per me la mia migliore amica è importantissima.
Tutti gli amici lo sono”.
Tornai a sorridergli ancora una volta, mentre lui spostò lo
sguardo verso il
cielo.
“Io
sono certo che il cielo farebbe loro un regalo!”
“Che
genere di regalo?” chiesi, non riuscivo proprio ad
avere la sua stessa immaginazione.
“Un
momento solo per loro, un istante unico, in cui
Eromyl e Mejiastick possano giocare liberamente tra di loro, per
passare la
giornata seguente in piena felicità, nell’attesa
del nuovo incontro! Un momento
in cui il cielo regala ai due bambini mille colori diversi!”
esclamò con tanta
euforia che sentii gli occhi riempirsi di lacrime, ma le trattenni.
“Oh,
sarebbe stupendo! Anche se per breve tempo, i due
bambini sarebbero pieni di felicità!” gli fissai
la nuca, mentre guardava
l’edificio davanti.
“Tu
ti chiami Aurora, come quel magnifico momento, ma
stavolta vorrei che tu fossi il Cielo, Wendy!” sbuffai una
risatina.
“Che
vuoi dire?”
“Regalami
l’aurora… porta me e Mejiastick in
giardino!”
allora lui era il giorno, chissà perché la cosa
non mi stupì affatto. Amava le
stelle, ma dovevano rimanere irraggiungibili per lui.
“Ti
porto sempre in giardino! Specie se ci sono belle
giornate come questa!” lo rassicurai, preparando un giacchino
per lui.
“Ma
Mejiastick non esce mai!” esclamò, e per la prima
volta vidi quella bambina.
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Ogni
volta che avevamo il turno insieme di pomeriggio,
io e Matteo portavamo i due bambini a giocare in giardino. Non ci
aspettavamo
di certo che i due si guardassero in continuazione alla ricerca
l’uno
dell’altra, di un compagno di giochi. Daniele non sapeva che
il suo Majiestick
in realtà fosse una bambina, lo scoprì solamente
quando lei si presentò come
Eleonora (nome falso, naturalmente). Non fu difficile convincere Peter,
come lo
soprannominò Daniele, a passare con noi alcuni pomeriggi,
anche lui era affezionato
ad Eleonora quanto io lo ero a quel bambino dagli occhi vispi; proprio
come fu
naturale per i due ormai undicenni, chiamarsi continuamente Eromyl e
Majiestick,
come due supereroi imbattibili, convinti fino in fondo di poter
combattere
ognuno la propria malattia.
Peter
mi raccontò che Eleonora era malata di leucemia.
Abbassai lo sguardo e piansi per la prima volta davanti a qualcuno. Lo
sapevo
ma non volevo crederci, finchè non me l’avesse
detto qualcuno, finchè non
avessi sbattuto la testa contro la realtà. Gli occhi azzurri
della bambina
erano talmente familiari da farmi paura: la stessa speranza, la stessa
vivacità, lo stesso maledetto sorriso rivolto a chi ha paura
per lei. Le
lacrime mai scese dai volti di quei bambini, rigavano il mio volto, e
sentii le
manine di Daniele posarsi sulle mie ginocchia, senza dire neanche una
parola.
I
giorni dell’estate passavano felici e noi quattro non
facevamo altro che giocare, sognando di essere al mare, a fare castelli
di
sabbia, oppure di stare sul cielo, a giocare con le nuvole durante
l’Aurora. Ma
come dopo ogni favoloso sogno, ci si risveglia, ogni volta troppo
presto.
Ricordo solamente che le ultime parole che mi rivolse furono ancora una
volta
per me. Solo per me.
“Wendy,
mi ricordi come si va all’Isola Che Non
C’è?”
disse in un sibilo, mentre usava tutte le sue forze per carezzare i
capelli non
più perfetti della madre.
“Seconda
stella a destra… e poi dritti fino al mattino.
Quando incontri la tua Mejiestick all’aurora, saprai di
essere arrivato” avevo
gli occhi lucidi ancora una volta. Un mese fa Eleonora era morta,
devastando
tutti e tre. Ancora una volta il più forte si era dimostrato
Daniele. Mi
sorrise.
“Wendy…
grazie per questi due anni insieme. Ti voglio
bene. Ti chiami Aurora, ma sei stata il mio Cielo” solo
quelle parole. Solo
quelle. Mi alzai e lo guardai con aria triste, ma gli sorrisi.
“Buonanotte
Eromyl. Ti voglio bene anche io” lo lasciai
con i genitori, il padre sembrava talmente spento da farmi paura. La
madre era
così bella, che mi fece rimpiangere di aver criticato i suoi
capelli. Era bella
perché lo guardava. Sarebbe potuta essere la donna
più brutta del mondo, ma chi
potrebbe mai criticare chi ha generato una persona tanto meravigliosa
qual era
Daniele?
Uscii
dalla stanza e non lo vidi mai più. Vedo spesso i
genitori del mio Eromyl, che oggi sono il padrino e la madrina di mio
figlio,
che ha gli stessi occhi di Matteo, mio marito Peter. Due angeli ci
hanno unito.
Due angeli hanno lasciato il vuoto nel nostro cuore, ma sappiamo dove
sono.
Sono lassù, a far rotolare il Sole, a illuminare le stelle.
A sorridere di
speranza a tutti i bambini che ogni giorno rischiano la loro vita con
forza.
Oggi aspetto un altro bambino. Daniele non vede l’ora, e
vorrebbe essere lui il
primo a raccontare la storia di Eromyl e Mejiastick. Sorrido ogni
giorno grazie
a chi ha donato il nome a mio figlio. E sorriderò il doppio
quando mia figlia
verrà alla luce e si chiamerà Eleonora. Un giorno
incontreranno qualcuno a cui
donare il loro sorriso, proprio come qualcuno l’ha regalato a
me.
Una
vita di lavoro non ti regala tanto, i soldi non
comprano la speranza. Un sorriso può far nascere un intero
cielo.
A
tutti i bambini malati,
sani, felici, tristi…
Sono loro a regalarci ancora
la fantasia.
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Salve
a tutti!
Ok, ancora una volta scrivo una storia triste. Mi stupisco di me
stessa, perché
in genere non scrivo cose così, ma devo dire che mi piace.
^^ mi ha reso molto
triste però scrivere la storia di Aurora e Daniele, visto
che li ho sognati
stanotte, e mi hanno lasciato un vuoto immenso dentro. Non è
una storia vera,
ve l’assicuro. Qualcuno di voi sa che lavoro in ospedale, ma
sono in quel
genere di reparto, per fortuna e per sfortuna. Vorrei far aprire gli
occhi a
chiunque legga la storia, facendo notare la purezza infinita dei
bambini, che
spesso viene sporcata da colpe di genitori sciocchi, o di gente
malvagia. I bambini
sono magici. I bambini sono vita. Proteggiamoli insieme.
Ad
ogni modo, grazie a tutti per aver letto questa storia ^^ speriamo che
i nostri
angioletti ci proteggano mentre fanno rotolare il sole e illuminano le
stelle! I
nomi Eromyl e Mejiastick sono stati inventati da me, proprio come la
storia del
cielo e dell’aurora, vi prego di non rubarla, a meno che non
me lo chiediate ^^
mi farebbe piacere vederla in un’altra storia, sempre sotto
permesso!
Un
saluto a tutti e grazie a chi legge le mie altre fic ^___^ un bacio!
*-._Kalie_.-*