Il figlio del demonio
*Prologo*
Vomitò l’anima in quel bagno.
O almeno avrebbe potuto dire così
se ne avesse posseduta una.
Con le mani sulle ginocchia,
piegato in due e scosso da brividi che non riusciva a controllare, scosse la testa fra se e se: no, lui un’anima
non l’aveva. Tutti quelli che lo conoscevano avrebbero tranquillamente giurato
che l’aveva venduta al diavolo già troppo tempo prima.
E forse era davvero così: forse
era una sottospecie di figliastro del demonio.
Ma allora perché stava così male?
Il fatto di non possedere
un’anima non lo avrebbe anche dovuto proteggere dal dolore?
A quanto pareva no.
Si sollevò a fatica, e
barcollando si appoggiò al piano del lavandino. Aprì l’acqua lasciando scorrere
un getto freddo e preso un bel respiro ci mise la testa sotto. Rimase così per
qualche minuto, aspettando che il mondo attorno a lui si fermasse, smettendo di
vorticare. Quando gli sembrò che si fosse stabilizzato chiuse il getto e si
guardò allo specchio: non era quel che si dice una bella vista.
Era un bel ragazzo certo, anzi
uno dei più attraenti del liceo scadente in cui andava, ma in quel momento
aveva un aspetto orribile: era stravolto, pallido e con gli occhi spenti.
Gli occhi di cui andava tanto
fiero: quelli neri più dell’ebano che sembravano risplendere di luce propria,
ora erano come morti. Le immagini di poche ore prima continuavano a ripetersi
nella sua testa, come se fosse un disco che si era impallato, e che rimandava
sempre le stesse scene: quelle orrende che non avrebbe mai dimenticato, quelle
che gli si sarebbero ripresentate per sempre come un filmino horror… quelle che
lo avrebbero tormentato a vita.
Con mano tremante si scompigliò i
capelli scuri che fradici gli si erano appiccicati sulla fronte.
Si lasciò cadere, scivolando con
la schiena lungo il muro, dando le spalle allo specchio che gli rimandava
un’immagine che non voleva vedere.
Piegò le ginocchia contro il
petto, stringendo le mani fino a farsi sbiancare le nocche: doveva smettere di
tremare. Chiuse gli occhi, prendendosi la testa fra le mani e dondolandosi
lentamente, avanti e indietro… come faceva da bambino quando i tuoni lo
spaventavano.
Il problema era che ora non si
trovava in quello stato per colpa dei tuoni.
I tuoni non avrebbero mai potuto
ridurlo così.
No. Stava così male per un
qualcosa che non era una paura irrazionale.
Smise di dondolare cercando di
pensare ad altro, sperando di riuscire a distrarsi.
Ma non poteva riuscirci, non
restandosene lì solo con i suoi pensieri.
Non era abbastanza forte da poter
combattere contro se stesso, o almeno non in quel momento.
A salvarlo fu il rumore della
porta che si apriva.
Sollevò lo sguardo, troppo stanco
per fare di più, e osservò apaticamente l’uomo appena entrato: doveva essere
sui trent’anni, alto, atletico, indossava un vestito nero e una camicia bianca.
Sul fianco destro notò un
rigonfiamento che senza problemi identificò come una pistola: era l’ennesimo
impiegato del governo o dei servizi segreti o qualunque persona avente a che
fare con il suo caso, dotata di arma, che lo fissava con sguardo
indagatore.
Chiuse gli occhi quando nello
sguardo dell’altro vide prendere il sopravvento quella punta di pietà e
compassione che aveva sfuggito per tutta la sera.
Avvertì chiaramente il disagio
dell’uomo che dopo un po’ si decise a parlare:
-E’ ora-
Ivan serrò ancora di più gli
occhi sentendo quelle parole: era il momento.
Avrebbe lasciato quella città,
quella dove viveva da sempre. Avrebbe lasciato la sua scuola, i suoi amici, se
così si potevano definire, e soprattutto avrebbe lasciato la sua casa.
La sua casa.
L’unica in cui aveva mai vissuto,
l’unica che aveva mai riconosciuto davvero come tale.
E il tutto per seguire una
schiera di “men in black” che lo avrebbero portato lontano… via da quel luogo
che ormai era diventato per lui solo un teatrino degli orrori.
Perché?
Perché lui, il figlio del
demonio, ora faceva parte del programma protezione testimoni.
Perché lui, il figlio del
demonio, avrebbe finalmente lasciato, dopo ore di tormento, quello che ora
poteva tranquillamente definire inferno.
Sogghignò, seduto sul sedile
posteriore dell’auto che correva nella notte, attirando su di sé gli sguardi
sorpresi degli uomini che erano in macchina con lui.
Ma loro non potevano e non
avrebbero mai capito.
Ivan sogghignava perché stava
lasciando il suo inferno personale.
E ovunque sarebbe andato a
finire… non poteva certo essere peggio.
O almeno così la pensava.
Bisogna pur tenere conto però che
tutti ci sbagliamo.
E in questo preciso caso anche
lui sbagliava.
Si passò la mano fra i capelli
ancora umidi, aveva quasi smesso di tremare.
Si lasciò andare contro il
sedile, chiudendo gli occhi, concentrandosi sul mormorio proveniente dai suoi
accompagnatori.
Stava meglio perché si stava auto
convincendo che non potesse esistere un inferno peggiore a quello che aveva
visto non molte ora prima.
Il figlio del demonio non sapeva
cosa lo aspettava.
*