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Autore: miseichan    18/02/2010    6 recensioni
Ivan si definisce il figlio del demonio. Chiunque lo conosca non oserebbe mai contraddirlo, e su questo sicuramente gli darebbe ragione, perché ha tutte le sembianze di un demone: alto, con un fisico asciutto e scolpito, occhi neri più dell’ebano… occhi che però ora sembrano morti, perché hanno visto cose orribili: immagini che purtroppo non dimenticherà mai. Ma in quel nuovo paese, una ragazza riuscirà a superare le difese di Ivan, i muri che ha alzato attorno a sé. Una ragazza riuscirà a vedere oltre quella sua aria da bello e dannato… l’unica che riuscirà a far tornare a brillare quelle due gocce d’ebano, dure all’esterno e fragili all’interno. STORIA SOSPESA PER VACANZE ( brevi )… scusate!!
Genere: Romantico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prologo

Il figlio del demonio

 

*Prologo*

 

 

Vomitò l’anima in quel bagno.
O almeno avrebbe potuto dire così se ne avesse posseduta una.
Con le mani sulle ginocchia, piegato in due e scosso da brividi che non riusciva a controllare,  scosse la testa fra se e se: no, lui un’anima non l’aveva. Tutti quelli che lo conoscevano avrebbero tranquillamente giurato che l’aveva venduta al diavolo già troppo tempo prima.
E forse era davvero così: forse era una sottospecie di figliastro del demonio.
Ma allora perché stava così male?
Il fatto di non possedere un’anima non lo avrebbe anche dovuto proteggere dal dolore?
A quanto pareva no.
Si sollevò a fatica, e barcollando si appoggiò al piano del lavandino. Aprì l’acqua lasciando scorrere un getto freddo e preso un bel respiro ci mise la testa sotto. Rimase così per qualche minuto, aspettando che il mondo attorno a lui si fermasse, smettendo di vorticare. Quando gli sembrò che si fosse stabilizzato chiuse il getto e si guardò allo specchio: non era quel che si dice una bella vista.
Era un bel ragazzo certo, anzi uno dei più attraenti del liceo scadente in cui andava, ma in quel momento aveva un aspetto orribile: era stravolto, pallido e con gli occhi spenti.
Gli occhi di cui andava tanto fiero: quelli neri più dell’ebano che sembravano risplendere di luce propria, ora erano come morti. Le immagini di poche ore prima continuavano a ripetersi nella sua testa, come se fosse un disco che si era impallato, e che rimandava sempre le stesse scene: quelle orrende che non avrebbe mai dimenticato, quelle che gli si sarebbero ripresentate per sempre come un filmino horror… quelle che lo avrebbero tormentato a vita.
Con mano tremante si scompigliò i capelli scuri che fradici gli si erano appiccicati sulla fronte.
Si lasciò cadere, scivolando con la schiena lungo il muro, dando le spalle allo specchio che gli rimandava un’immagine che non voleva vedere.
Piegò le ginocchia contro il petto, stringendo le mani fino a farsi sbiancare le nocche: doveva smettere di tremare. Chiuse gli occhi, prendendosi la testa fra le mani e dondolandosi lentamente, avanti e indietro… come faceva da bambino quando i tuoni lo spaventavano.
Il problema era che ora non si trovava in quello stato per colpa dei tuoni.
I tuoni non avrebbero mai potuto ridurlo così.
No. Stava così male per un qualcosa che non era una paura irrazionale.
Smise di dondolare cercando di pensare ad altro, sperando di riuscire a distrarsi.
Ma non poteva riuscirci, non restandosene lì solo con i suoi pensieri.
Non era abbastanza forte da poter combattere contro se stesso, o almeno non in quel momento.
A salvarlo fu il rumore della porta che si apriva.
Sollevò lo sguardo, troppo stanco per fare di più, e osservò apaticamente l’uomo appena entrato: doveva essere sui trent’anni, alto, atletico, indossava un vestito nero e una camicia bianca.
Sul fianco destro notò un rigonfiamento che senza problemi identificò come una pistola: era l’ennesimo impiegato del governo o dei servizi segreti o qualunque persona avente a che fare con il suo caso, dotata di arma, che lo fissava con sguardo indagatore. 
Chiuse gli occhi quando nello sguardo dell’altro vide prendere il sopravvento quella punta di pietà e compassione che aveva sfuggito per tutta la sera.
Avvertì chiaramente il disagio dell’uomo che dopo un po’ si decise a parlare:
-E’ ora-
Ivan serrò ancora di più gli occhi sentendo quelle parole: era il momento.
Avrebbe lasciato quella città, quella dove viveva da sempre. Avrebbe lasciato la sua scuola, i suoi amici, se così si potevano definire, e soprattutto avrebbe lasciato la sua casa.
La sua casa.
L’unica in cui aveva mai vissuto, l’unica che aveva mai riconosciuto davvero come tale.
E il tutto per seguire una schiera di “men in black” che lo avrebbero portato lontano… via da quel luogo che ormai era diventato per lui solo un teatrino degli orrori.
Perché?
Perché lui, il figlio del demonio, ora faceva parte del programma protezione testimoni.
Perché lui, il figlio del demonio, avrebbe finalmente lasciato, dopo ore di tormento, quello che ora poteva tranquillamente definire inferno.
Sogghignò, seduto sul sedile posteriore dell’auto che correva nella notte, attirando su di sé gli sguardi sorpresi degli uomini che erano in macchina con lui.
Ma loro non potevano e non avrebbero mai capito.
Ivan sogghignava perché stava lasciando il suo inferno personale.
E ovunque sarebbe andato a finire… non poteva certo essere peggio.
O almeno così la pensava.
Bisogna pur tenere conto però che tutti ci sbagliamo.
E in questo preciso caso anche lui sbagliava.
Si passò la mano fra i capelli ancora umidi, aveva quasi smesso di tremare.
Si lasciò andare contro il sedile, chiudendo gli occhi, concentrandosi sul mormorio proveniente dai suoi accompagnatori.  
Stava meglio perché si stava auto convincendo che non potesse esistere un inferno peggiore a quello che aveva visto non molte ora prima.
Il figlio del demonio non sapeva cosa lo aspettava.

 

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