“… my spirit is sleeping somewhere cold…”----
Evanescence
Il locale, quel giorno, era
particolarmente pieno di gente, che si affannava per chiamare l’attenzione
delle cinque giovani cameriere, che correvano da un tavolo all’altro per
soddisfare le richieste dei clienti.
Strawberry si
sedette per qualche istante su una sedia bianca e si passò una mano sulla
fronte sudata. Si chiese ancora una volta perché veniva ancora lì a lavorare,
adesso che erano passati quattro anni dalla sconfitta degli alieni. Aveva ormai
diciannove anni ed era una bella ragazza, alta e snella, dai lunghi capelli
rossi e dai luccicanti occhi color foglie d’autunno. Mark, il suo ragazzo, le
aveva detto spesso di lasciare quel lavoro, era troppo stancante per lei, ma
lei si era limitata a sorridere e aveva detto che voleva continuare a lavorare
per pagarsi da sola l’università e il piccolo appartamento, che divideva con
Lory. Ma, in realtà, lei stessa dubitava che fosse quello il reale motivo, e
magari anche Mark stesso lo aveva capito, e non osava proferire parola. Non, di
fronte, ai suoi occhi così decisi, e, al contempo, tristi.
Erano passati quattro
anni e delle cinque mew mew era rimasto poco quanto niente. Mina era diventata
molto più alta, e si era tagliata i capelli in un pratico caschetto, che le
lasciava due ciocche di capelli, ai lati del viso; Lory aveva messo le lenti a
contatto e si era finalmente sciolta le trecce, che portava da quando aveva
tredici anni; Paddy si era fatta crescere i capelli, che adesso le arrivavano
fino e oltre le spalle, mentre Pam, che in realtà si vedeva molto poco, era
rimasta sempre la solita ragazza elegante e scostante. Ma, in ognuna di loro,
era cambiato anche qualcos’altro, qualcosa che tentavano di celare, ma che
emergeva chiaro in loro. Quella che lo mostrava di meno, era proprio
Strawberry, e lo faceva per amore di Mark, per non farlo soffrire; ma ancora
adesso piangeva da sola, chiusa nella sua stanza, quando era certa che nessuno
la sentisse.
Mina si avvicinò alla
ragazza e chiese: “Che c’è? Batti la fiacca? Guarda che il tuo turno finisce solo
tra un’ora, e, a meno che io mi sbagli, non vedo neanche il tuo amato Cavaliere
Blu… perciò, perché stai seduta qui?”.
Strawberry sospirò,
stancamente, e replicò: “Mi stavo solo riposando un po’, non si può?! Tu lo
facevi sempre…”.
Mina ribatté fieramente:
“Sì, ma quattro anni fa, quando avevo quindici anni, non adesso! Permetti che
anche io ho bisogno di lavorare, ora che me ne sono andata di casa?! Se non
metto da parte del denaro, non potrò mai andare in Francia a studiare danza!”.
Strawberry accennò ad
un sorriso e disse: “Certo che siamo veramente cambiate! Tu che vuoi lavorare
per guadagnare del denaro…”
“E tu…” proseguì Mina,
leggermente rischiarata nell’espressione “… che non aspetti ogni venti secondi,
in posa languida, che arrivi Mark! Anche tu sei cambiata…”.
“Già…” replicò lei
malinconicamente, lo sguardo incollato alla gonna nera della sua uniforme.
Anche lei era cambiata e lo sapeva. Mark glielo aveva detto tante di quelle
volte… “Non sei più tu, piccola. Sei strana, sei diversa, come se non ti
importasse niente di nulla… ne vuoi parlare?”. E allora lei si forzava a
sorridere, per lui, solo per lui, ma poi, a distanza di qualche tempo, era di
nuovo uguale a prima. Un essere di carne fredda, privo di luce, che cercava di
ostentare un chiarore, che non esisteva ormai più.
Mina si era alzata per
andare a prendere un’ordinazione, incitandola ad alzarsi. Lei obbedì, ma il suo
sguardo fu inaspettatamente condotto ad un piccolo porta foto sul bancone di
Kyle. Si avvicinò, come se fosse in trance, e lo guardò attentamente, anche se
lo conosceva a memoria. Toccò la fredda superficie del vetro con le dita, come
ad accarezzarla, e incrociò ancora il suo sguardo umido su quello di carta
lucida della foto. Della foto di quel
ragazzo, della foto di Ryan. Ryan, il suo Art, quel ragazzo dai capelli color
del grano e dagli occhi mare in tempesta, quel ragazzo con quella smorfia
impertinente sul volto, quel gattino grigio dagli occhi chiari, che l’aveva
salvata tante volte.
Si accorse di stare
piangendo, quando la voce di Lory la richiamò alla realtà: ”Strawberry… che
hai?”. Lei si voltò di lato, nascondendo le lacrime dietro le mani, passate ad
asciugarle. Sorrise all’amica e rispose: “Assolutamente niente… vado a prendere
il conto del tavolo 5!”.
Si allontanò velocemente,
diretta in cucina, ma all’ultimo secondo, deviò e andò in bagno, dove si
chiuse, girando più volte la chiave nella toppa.
Sospirò di sollievo a
sentire le voci attutite dalla porta chiusa, e si fissò nello specchio nella
luce fredda del neon. Aveva gli occhi rossi e le occhiaie sotto gli occhi, in
definitiva aveva un aspetto orrendo. Erano settimane, che non dormiva, e
all’università le cose non andavano per il meglio. Non che lo fossero mai
state… era un anno che era fuori corso. Non aveva dato mai neanche un esame.
Si sedette per terra e
si prese la testa fra le mani. Da quanto tempo stava così? Erano più di tre
anni, che stava così male, la ricordava ancora l’ultima sera, in cui era stata
bene.
Era stata l’ultima
sera, che aveva visto lui, Ryan.
E la ricordava ancora,
come se fosse ieri.
Era la sera di Natale e
avevano fatto una festa al locale. Avevano preparato un grande albero di
Natale, decorato con fiocchi rossi e dorati, e con una grande stella d’argento
in cima. Lei si era seduta davanti all’albero e lo aveva guardato per qualche
minuto, rapita, come una bambina, dai giochi di luce delle lampadine colorate.
Allora era capace di
meravigliarsi per ogni cosa bella.
Mina era seduta in
angolo, sorseggiando della cioccolata calda, mentre parlava con Pam dei suoi
ultimi progetti, Lory aiutava Kyle a preparare da mangiare, Paddy giocava a
carte con i suoi fratelli, mentre Mark leggeva una rivista.
Non si era mai trovato
bene con il resto della squadra, eppure a lei non era mai importato, e le era
sembrato più che naturale passare il Natale assieme a loro, dato che i suoi
genitori erano andati a trovare sua nonna in montagna.
All’improvviso, sentii
una mano calda scompigliarle i capelli. Una mano dolce, ma forte.
“Ryan, accidenti a te!
Mi sono appena spazzolata i capelli!” urlò nel tentativo di sistemarli, senza
farsi vedere spettinata e disordinata da Mark.
Ryan sorrise e lei
rimase per un attimo a guardarlo, imbronciata. Poi sorrise e disse: “Credo che
anche te le luci facciano il mio stesso effetto… ai gatti piacciono e io ne
sono affascinata perché ho DNA felino… accade anche a te?”.
Ryan si sedette accanto
a lei e disse: “Sì, non riesco a smettere di guardarle. E’ strano… è come se le
vedessi per la prima volta…”.
“Già…” rispose lei, poi
la voce del ragazzo biondo interruppe i suoi pensieri: “E’ bello essere qui…
con voi, intendo… mi sembra di avere di nuovo una famiglia…”.
Lei si voltò a
guardarlo, stupita. Non era da lui confessare candidamente delle cose del
genere; di solito, tendeva a tenersi tutto dentro e a non parlare mai di sé e
dei propri sentimenti.
Strawberry gli sorrise
e disse: “Sono felice anche io…”.
Si guardarono,
sorridenti per qualche istante, poi Strawberry aveva distolto lo sguardo,
sentendosi strana . Era così, ogni volta che guardava Ryan, il suo sguardo lo
sentiva addosso, come se le potesse leggere sull’anima nuda.
La voce di Kyle gli
aveva raggiunti ed erano andati a mangiare. Dopo, si erano messi a giocare a
carte e ad altri giochi tipicamente natalizi, ma poi, dopo la mezzanotte, Mark
aveva iniziato a fare pressioni per tornare a casa e, dopo un po’, Strawberry
aveva acconsentito. Aveva salutato tutti, facendo nuovamente gli auguri, ma
poi, non trovando Ryan tra loro, aveva detto a Mark di aspettarla fuori e aveva
chiesto a Kyle dove fosse.
Kyle aveva accennato
con il capo alla veranda e lei era uscita fuori. Faceva freddo, molto freddo,
ma a Ryan sembrava non importare. Se ne stava lì, avvolto nel suo cappotto
nero, che portava sopra un maglione grigio ed un paio di jeans, e guardava il
cielo, in silenzio.
Gli si avvicinò e
disse, rabbrividendo: “Non hai freddo? Ti prenderai un raffreddore!”.
Ryan si era voltato e
le aveva sorriso. Lei era inspiegabilmente arrossita… ancora quella sensazione:
la sua anima, che usciva dal suo corpo e si era rendeva troppo visibile a lui.
Si era avvicinata a lui, e si era
messa anche lei a guardare le stelle, accanto a Ryan, le braccia conserte
appoggiate sulla ringhiera della veranda.
Dopo qualche minuto di
completo silenzio, interrotto solo dalle voci degli altri, che provenivano
dall’interno, lei gli aveva chiesto: “A che cosa pensi? Stasera sei stranamente
silenzioso… di solito, sei fin troppo loquace…”.
Ryan non aveva raccolto
la sua battuta ed era rimasto qualche istante, con lo sguardo incatenato alla
bianca superficie della luna. Ma lei aveva aspettato, guardando rapita i suoi
occhi, illuminati dalla luce adamantina dell’astro della sera, e i suoi
capelli, che si muovevano dolcemente nel freddo vento di dicembre. Strawberry
non capiva. Possibile che solo adesso si fosse accorta di quanto Ryan fosse…
insomma, era , era… davvero molto, molto carino…anzi,
adesso che ci pensava meglio, non era solamente carino, era veramente un
bellissimo ragazzo. Eppure lei, ogni volta, che lo aveva guardato, non lo aveva
mai notato, persa com’era nel pensiero di Mark. Lui e Ryan erano totalmente
diversi, l’opposto uno dell’altro, e forse, per questo, era innamorata di Mark,
e, invece, spesso faticava a trattenersi dallo prendere a schiaffi Ryan. Eppure,
avvertiva qualcosa di particolare con Ryan dalla prima volta che l’aveva
incontrato, qualcosa che aveva provato anche con Mark, sebbene molto mitigato…
la sensazione, che lui sarebbe stato importante, importante per la sua vita… e
adesso, si chiedeva se fosse solo perché era stato il direttore de progetto
mew…
Ryan sospirò
leggermente, socchiudendo gli occhi, poi si decise a rispondere: “Non sto
pensando a niente di particolare… tu, piuttosto, non dovresti andare via? Il
tuo cavaliere ti sta aspettando…” e fece segno con il capo ad una piccola
sagoma scura immobile per la strada, poco sotto di loro.
Strawberry si ricordò
solo allora che Mark la stava aspettando e si decise ad allontanarsi dalla
ringhiera, dopo aver salutato Ryan e avergli fatto nuovamente gli auguri.
Non aveva fatto in
tempo a girarsi che aveva sentito la sua voce richiamarla bruscamente indietro.
Si era voltata verso di lui e lo aveva visto appoggiato alla ringhiera. Le
lanciò senza parlare un pacchettino di carta rossa e verde, decorato con una
stampa a fiori, che sembrava molto vecchia.
Strawberry lo guardò
senza parlare, soppesando il pacchetto tra le mani, ma, vedendo che lui non
diceva ancora niente, si decise ad aprirlo. Conteneva un piccolo fermaglio, con
tre fiocchi di neve tempestati di piccoli brillantini. Lei lo tenne tra le mani
per un po’, poi sollevò lo sguardo e disse, gli occhi leggermente stupiti dal
gesto del ragazzo: “Ma Ryan…”.
“Non farti illusioni”
disse lui, voltandosi ancora una volta verso il cielo, sopra di lui “L’ho
trovato per caso e non sapevo che farmene… se vuoi, puoi tenerlo tu, altrimenti
lo getto via…”.
Lei sorrise e disse che
l’avrebbe tenuto lei. Lo ringraziò e gli disse che si sarebbero visti
l’indomani.
E, invece, non si
sarebbero visti mai più.
Ricordava di essersi
allontanata, di essersi fermata tra l’oscurità non dissipata dalla luce della
luna e di essersi voltata ancora verso di lui, per chiedersi ancora che cosa
pensasse, ma poi, aveva scrollato le spalle ed era corsa da Mark.
E mai, come allora, mentre
stava seduta sul freddo pavimento del bagno del caffè, si chiese perché non era
tornata indietro, perché se ne era andata così presto quella sera, perché,
quando Mark non le aveva detto di tornare a casa, lei non aveva risposto di no,
ed era rimasta lì ancora per un po’, per un’ora, per un minuto soltanto…
Sorrise
malinconicamente a sé stessa nello specchio, mentre si ravvivava i capelli con
le dita. Che ne sapeva allora quanto il tempo inganna, quanto sembri
lunghissimo e quanto, invece, alle volte, scorreva troppo velocemente,
portandosi via tutto? La felicità, l’allegria, la speranza, la rabbia, il
rancore, l’indifferenza, l’odio, l’amore… tutto, portava via tutto, sempre e
per sempre, e nulla poteva mai riportare niente indietro… una sola cosa l’aveva
lasciata…
Il dolore… solo quel suo eterno compagno, che non la lasciava
mai, nemmeno per un secondo…
Perché Ryan è morto, perché Ryan non c’è più…
Pensarlo, le fece molto
più male di quello che pensasse, e si accasciò ancora sul lavandino,
ricominciando a piangere. Uscì dalla tasca il fermaglio, che le aveva regalato
Ryan quel giorno, e lo strinse forte tra le mani, fino a farsi quasi male. Lo
portava sempre con sé, da tre anni a quella parte, da quando Ryan era morto, e
non se ne separava mai. Era l’unica cosa che le era rimasta di lui.
Prese nervosamente a
pugni il muro, continuando a piangere. Perché non ce la faceva a voltare
pagina? Perché non riusciva a scordarsi di lui, perché… non erano mai stati
grandi amici, eppure il suo pensiero la tormentava sempre, ogni giorno… non
capiva che cosa le stesse succedendo. Da quando Ryan era morto, aveva
semplicemente smesso di vivere e si era limitata ad esistere per forza di
inerzia, come se non dipendesse da lei. C’erano stati sì, momenti, in cui tutto
sommato, era stata felice, ma li ricordava a fatica ed erano avvolti in una
nebbia vorticosa, che occupava tutta la sua memoria dei suoi ultimi anni. Era
sempre deconcentrata, non riusciva tenere a mente le cose più semplici e non
sapeva perché. Aveva tentato persino di entrare in terapia, ma non aveva
funzionato: appena aveva nominato Ryan, aveva iniziato a sudare freddo, come se
si sentisse in trappola ed era diventata tutta rossa in viso.
Alla domanda dello
psicologo: “Lui era il tuo ragazzo? Un tuo caro amico?”, non era stata in grado
di rispondere.
Che cosa era stato Ryan
per lei? Più di un amico, ne era certa, se non riusciva ancora a dimenticarsi
di lui, ma non ne era mai neanche stata innamorata. Andava bene soffrire per
lui, ricordarlo, piangerlo, quando lo si nominava, ma annullarsi per lui,
perdersi nella quiescenza, di chi non vuole accettare che qualcuno se ne sia
andato per sempre, non era una cosa normale. Non lo era assolutamente.
Strawberry smise di
picchiare i pugni, ormai lividi, sulla parete, e si guardò ancora nello
specchio. Si vergognava, si sentiva in colpa… perché doveva far preoccupare
tutti con quel suo strano atteggiamento? Perché Ryan Shirogane non la lasciava
andare via, non la lasciava scorrere nel suo tempo?
Chiuse gli occhi,
mentre congiungeva le mani al petto. Aprì lievemente le labbra e disse,
sottovoce: “Ryan, io non ti dimenticherò mai, nemmeno quando sarò vecchia… tu
resterai sempre accanto a me, in me, per sempre, dovunque tu adesso sia… non
penso che tu abbia mai creduto in Dio, ma adesso io affido a Lui la tua anima…
e la mia… io ricomincerò a vivere e lo farò per te, Ryan Shirogane… addio
Ryan…” .
Strawberry riaprì
lentamente gli occhi, come per rendersi conto che effettivamente quelle sue
parole, che forse avrebbe dovuto dire da tanto tempo, non avessero fatto
rovesciare il mondo. Sapeva che non sarebbe stata mai più la stessa, ma doveva
ricominciare da capo. Ma, mentre usciva
dal bagno, chiudendosi la porta alle spalle, facendo un gran sorriso a Mark,
che era appena arrivato, si accorse con terrore che nulla dell’angoscia che
provava, sembrava essersene andata via. Niente. Era ancora tutta lì. Non
riusciva a lasciare dietro di sé Ryan Shirogane.
Strawberry era tornata
a casa verso le 20,00, sebbene Mark le avesse chiesto di uscire. Lei aveva
detto che stava poco bene ed era tornata a casa sua, dove adesso passava molto
tempo, invece che nell’appartamento di Lory. A casa sua, c’erano i suoi
genitori, che la facevano sentire come una bambina e lei si crogiolava nel
sentirsi tale; annullava i suoi sentimenti e il suo dolore, quando era con
loro, quando loro le dicevano che cosa fare e che cosa non fare. Particolari
che sembrava non essere più in grado di ponderare da sola.
Gridò un: “Sono
tornata!”, poi si accorse che, nell’ingresso, c’era un paio di scarpe che non
conosceva. Una visita. Poteva scommettere che si trattasse di un amico di suo
padre, con eventuale figlio a seguito, ovviamente promessa nel mondo del
lavoro, e che suo padre cercava di mostrare come un ottimo partito. Chiaro che
suo padre detestava Mark, ed era perfettamente inutile dirgli che lei lo amava
e che voleva stare con lui. Lo era stato, quando aveva voglia di dirlo, e
adesso che non ne aveva più la forza, lo sarebbe stato ugualmente.
Entrò in salotto con un
sospiro e vide sua madre, intenta a chiacchierare con un ragazzo, che lei non
conosceva. Lui aveva i capelli castano scuro e due scintillanti occhi dorati.
Stavano ridendo, seduti sul divano, mentre il padre addentava con un mezzo
sorriso sul volto un pasticcino alla crema di fragole.
“Ciao a tutti!” ripeté
Strawberry per farsi sentire e attirare la loro attenzione.
La madre sollevò lo
sguardo su di lei e replicò: “Ciao tesoro… sei tornata presto stasera… hai
visto chi è venuto a trovarti? Il tuo amico Ghish…”.
“Eh?! Ghish?!” urlò la
ragazza a dir poco, sconvolta.
Il ragazzo si affrettò
a dire: “Ciao gattina… non mi sembra che tu sia molto cambiata…”.
Strawberry non si
trattenne dal dire: “E tu, invece, sei cambiato molto… e le tue orecchie?!”,
poi si ricordò della presenza dei genitori, e disse, ridendo nervosamente:
“Sapete, aveva un bel paio di orecchie a sventola, quando ci siamo conosciuti…
ci siamo conosciuti… all’asilo!”.
“Ma non andavate alle
elementari assieme?!”chiese la madre scettica, mentre Ghish si sbatteva una
mano sulla fronte e si affannava a correggere Strawberry: “Certo, certo, noi
siamo andati alle ELEMENTARI ASSIEME, non ALL’ ASILO, vero?!”.
“Ah sì, che smemorata!”
replicò lei, guardando Ghish “Come ho fatto a dimenticarmene!”.
Forse perché non è mai successo- bofonchiò tra sé e sé.
La madre guardò
alternativamente i due, l’aria imbarazzata di sua figlia e quella quasi
rassegnata del suo amico, e sorrise tra sé e sé, dicendo: “Bè, credo che adesso
tu e Ghish vogliate parlare un po’ da soli di faccende, che certamente io e tuo
padre non dovremmo ascoltare… io e papà andiamo al cinema e torneremo verso le
22,30… ci ha fatto piacere conoscerti Ghish…”.
Il ragazzo, dopo un
grosso sospiro, replicò: “Anche a me, signora Momomiya…”. Anche Strawberry fece
un grosso sorriso alla madre e la salutò.
Il padre della ragazza,
in realtà, non è che avesse tutta questa voglia di uscire, soprattutto
lasciando sola la figlia in casa con un perfetto sconosciuto, che poteva essere
andato pure con lei alle elementari o all’asilo, ma adesso era pur sempre un
ragazzo, e anche abbastanza carino.
Poi, di fronte, allo
sguardo glaciale della moglie, si affannò ad uscire velocemente dalla casa,
anche perché, in fondo, quel ragazzo non gli aveva fatto del tutto una cattiva
impressione, sembrava anzi piuttosto simpatico, a differenza di quel damerino
del fidanzato di Strawberry, sebbene il soprannome “gattina”, affibbiato alla
figlia, non lo convinceva poi tanto.
Non appena i due, si
chiusero la porta alle spalle, Ghish riprese il suo aspetto normale, spiegando:
“Era solo una trasformazione provvisoria… avevo bisogno di parlarti e non
volevo spaventare i tuoi genitori…”.
Strawberry si sedette
nella poltrona, di fronte all’alieno, notando che in fondo, non era per niente
cambiato da quattro anni a quella parte.
“Non che non mi faccia
piacere rivederti, anche se siamo stati comunque nemici” esordì “Ma si può
sapere che ci fai qui? Devi parlarmi di qualcosa di importante? E’ successo
qualcosa?”.
Ghish esordì, con voce
leggermente preoccupata: “Non è successo niente, o almeno spero che non sia
successo niente di preoccupante…” poi bisbigliò un: “…ancora…”.
“Cosa hai detto?!”
chiese Strawberry, ma Ghish scrollò il capo e disse malinconico: “Niente di
importante, micetta… piuttosto, come vanno qui le cose?”.
Strawberry sussultò.
Che cosa poteva dirgli? La sua sola vista le faceva ritornare in mente molti
ricordi del passato, la maggior parte dei quali di Ryan, e, cavolo, quanto
faceva male vedere ancora il passato prendersi il presente, con una violenza e
una forza tale da lasciarla stordita, come se avesse ricevuto un forte colpo
sulla nuca.
Reagendo inconsciamente
a quei ricordi, replicò stizzita: “Che cosa vuoi che ti dica?!”.
Ghish si nascose dietro
le palme delle mani, come a difendersi dalla sua aggressività e disse: “Calmati
gattina! Non sei per niente cambiata… sei sempre la solita violenta e
permalosa!”.
Lei accennò ad un
broncio, che, poi, stemperò in un leggero sorriso. Non era mica colpa sua se
lei era un’anormale e se pensava ancora ad un ragazzo, morto ormai da quasi tre
anni…
“Bè, il Caffè esiste
ancora e io e le altre ci lavoriamo tuttora” iniziò “Per quanto riguarda me,
sono iscritta al primo anno di Pedagogia e divido una casa con Lory… e, nel
caso te lo stia chiedendo, sono ancora fidanzata con Mark…”.
Ghish rispose con
un’espressione indecifrabile e replicò, sorridente: “Guarda, micetta, che non
era questo che volevo sapere… considerando che anch’io adesso sto assieme ad
una persona…”.
Strawberry sobbalzò e,
per poco, non cadde dal divano, mentre gridava: “CHE COSA?! E chi è la
sfortunata?!”.
Ghish continuò,
leggermente rosso in viso: “Bello spirito di patata lessa… comunque, lei si
chiama Blanche ed era una mia amica di infanzia… quando sono partito per la
Terra, ho lasciato un fagottino informe, che mi sembrava non sarebbe sbocciato,
e poi, quando sono tornata, ho ritrovato l’essere più bello e dolce che esista
nell’intero Universo… la amo molto, davvero… sai, ha due occhi azzurri così
profondi, che mi viene voglia di perdermici dentro…”.
Strawberry sorrise,
ricordando anche lei due meravigliosi occhi acquamarina, che non riusciva a
scordare.
Ghish riprese,
leggermente più vivace nella voce da tono canzonatorio: “Sai, mia piccola
fragolina, tra noi non poteva funzionare… tra noi c’era sempre quel bellimbusto
del tuo ragazzo, e le rare volte, che ti scollavi da lui, c’era quell’altro, il
biondino… come è che si chiama?”.
L’improvvisa allusione
a Ryan le fece ancora più male dei ricordi di prima, ma, nonostante il dolore
che le crepava le vene del cuore, si decise a rispondere: “Lui… il biondino,
insomma, Ryan è morto tre anni fa…”.
Ghish la guardò
tristemente, balbettando: “Mi dispiace veramente… nonostante tutto, mi stava
simpatico… com’è successo?”.
Strawberry trasalì,
sbarrando gli occhi, ora di nuovo, umidi di calde lacrime. Già, com’era
successo? Aveva cercato ossessivamente di dimenticare quel giorno, di
rimuoverlo dalla sua mente, ma quello in tutta risposta, la perseguitava, la
tormentava sempre di più.
Non voleva parlarne,
non voleva assolutamente dire a Ghish quello che era successo, e fu tentata da
dirgli di lasciarla in pace, che non aveva voglia di dire niente, ma, per la
prima volta, al contrario, avvertì forte il desiderio di svuotare il suo cuore
e la sua mente, che avvertiva orribilmente pieni di dolore, compresso negli
anfratti di sé stessa dal tempo che per lei non era mai passato.
Il suo sguardo si
eclissò ed iniziò freddamente a raccontare quello che era successo in quelle
ventiquattro ore, che le avevano cambiato la vita, portandole via per sempre
qualcosa della sua anima, che temeva non sarebbe più tornata.