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Autore: Cassie chan    20/07/2005    36 recensioni
Ciao a tutti! Mi chiamo Cassie-chan e questa è la mia prima fanfiction su Tokyo mew mew! Non so se sia venuta molto bene, ma scriverla per me è stato molto bello perché sono riuscita a completarla e di solito non ci riesco quasi mai! Spero che vi piaccia! Un piccola serie di avvisi:
1. La coppia principale è ovviamente Ryan-Strawberry, dato che Mark non lo sopporto e sono rimasta molto delusa dalla fine dell’anime; ci speravo fino all’ultimo che si mettesse con Ryan, ma quella niente! Rimane con il merluzzo umano! Quindi, alle fan di Mark consiglio di non leggerla… non è che faccia proprio bella figura…
2. Uso i nomi dell’anime, anche se non ne vado pazza, ma mi piacciono di più di quelli originali…
3. All’inizio, la storia sembra contorta, ma spero che si capisca tutto alla fine…
4. Commentate! Commentate! Commentate! Altrimenti, mi demoralizzo e non la pubblico più, dato che è praticamente finita!
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ichigo Momomiya/Strawberry, Ryo Shirogane/Ryan, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1 - Without you 

 

 

 


“… my spirit is sleeping somewhere cold…”---- Evanescence

 

 

Il locale, quel giorno, era particolarmente pieno di gente, che si affannava per chiamare l’attenzione delle cinque giovani cameriere, che correvano da un tavolo all’altro per soddisfare le richieste dei clienti.

Strawberry si sedette per qualche istante su una sedia bianca e si passò una mano sulla fronte sudata. Si chiese ancora una volta perché veniva ancora lì a lavorare, adesso che erano passati quattro anni dalla sconfitta degli alieni. Aveva ormai diciannove anni ed era una bella ragazza, alta e snella, dai lunghi capelli rossi e dai luccicanti occhi color foglie d’autunno. Mark, il suo ragazzo, le aveva detto spesso di lasciare quel lavoro, era troppo stancante per lei, ma lei si era limitata a sorridere e aveva detto che voleva continuare a lavorare per pagarsi da sola l’università e il piccolo appartamento, che divideva con Lory. Ma, in realtà, lei stessa dubitava che fosse quello il reale motivo, e magari anche Mark stesso lo aveva capito, e non osava proferire parola. Non, di fronte, ai suoi occhi così decisi, e, al contempo, tristi.

Erano passati quattro anni e delle cinque mew mew era rimasto poco quanto niente. Mina era diventata molto più alta, e si era tagliata i capelli in un pratico caschetto, che le lasciava due ciocche di capelli, ai lati del viso; Lory aveva messo le lenti a contatto e si era finalmente sciolta le trecce, che portava da quando aveva tredici anni; Paddy si era fatta crescere i capelli, che adesso le arrivavano fino e oltre le spalle, mentre Pam, che in realtà si vedeva molto poco, era rimasta sempre la solita ragazza elegante e scostante. Ma, in ognuna di loro, era cambiato anche qualcos’altro, qualcosa che tentavano di celare, ma che emergeva chiaro in loro. Quella che lo mostrava di meno, era proprio Strawberry, e lo faceva per amore di Mark, per non farlo soffrire; ma ancora adesso piangeva da sola, chiusa nella sua stanza, quando era certa che nessuno la sentisse.

Mina si avvicinò alla ragazza e chiese: “Che c’è? Batti la fiacca? Guarda che il tuo turno finisce solo tra un’ora, e, a meno che io mi sbagli, non vedo neanche il tuo amato Cavaliere Blu… perciò, perché stai seduta qui?”.

Strawberry sospirò, stancamente, e replicò: “Mi stavo solo riposando un po’, non si può?! Tu lo facevi sempre…”.

Mina ribatté fieramente: “Sì, ma quattro anni fa, quando avevo quindici anni, non adesso! Permetti che anche io ho bisogno di lavorare, ora che me ne sono andata di casa?! Se non metto da parte del denaro, non potrò mai andare in Francia a studiare danza!”.

Strawberry accennò ad un sorriso e disse: “Certo che siamo veramente cambiate! Tu che vuoi lavorare per guadagnare del denaro…”

“E tu…” proseguì Mina, leggermente rischiarata nell’espressione “… che non aspetti ogni venti secondi, in posa languida, che arrivi Mark! Anche tu sei cambiata…”.

“Già…” replicò lei malinconicamente, lo sguardo incollato alla gonna nera della sua uniforme. Anche lei era cambiata e lo sapeva. Mark glielo aveva detto tante di quelle volte… “Non sei più tu, piccola. Sei strana, sei diversa, come se non ti importasse niente di nulla… ne vuoi parlare?”. E allora lei si forzava a sorridere, per lui, solo per lui, ma poi, a distanza di qualche tempo, era di nuovo uguale a prima. Un essere di carne fredda, privo di luce, che cercava di ostentare un chiarore, che non esisteva ormai più.

Mina si era alzata per andare a prendere un’ordinazione, incitandola ad alzarsi. Lei obbedì, ma il suo sguardo fu inaspettatamente condotto ad un piccolo porta foto sul bancone di Kyle. Si avvicinò, come se fosse in trance, e lo guardò attentamente, anche se lo conosceva a memoria. Toccò la fredda superficie del vetro con le dita, come ad accarezzarla, e incrociò ancora il suo sguardo umido su quello di carta lucida della foto. Della foto di quel ragazzo, della foto di Ryan. Ryan, il suo Art, quel ragazzo dai capelli color del grano e dagli occhi mare in tempesta, quel ragazzo con quella smorfia impertinente sul volto, quel gattino grigio dagli occhi chiari, che l’aveva salvata tante volte.

Si accorse di stare piangendo, quando la voce di Lory la richiamò alla realtà: ”Strawberry… che hai?”. Lei si voltò di lato, nascondendo le lacrime dietro le mani, passate ad asciugarle. Sorrise all’amica e rispose: “Assolutamente niente… vado a prendere il conto del tavolo 5!”.

Si allontanò velocemente, diretta in cucina, ma all’ultimo secondo, deviò e andò in bagno, dove si chiuse, girando più volte la chiave nella toppa.

Sospirò di sollievo a sentire le voci attutite dalla porta chiusa, e si fissò nello specchio nella luce fredda del neon. Aveva gli occhi rossi e le occhiaie sotto gli occhi, in definitiva aveva un aspetto orrendo. Erano settimane, che non dormiva, e all’università le cose non andavano per il meglio. Non che lo fossero mai state… era un anno che era fuori corso. Non aveva dato mai neanche un esame.

Si sedette per terra e si prese la testa fra le mani. Da quanto tempo stava così? Erano più di tre anni, che stava così male, la ricordava ancora l’ultima sera, in cui era stata bene.

Era stata l’ultima sera, che aveva visto lui, Ryan.

E la ricordava ancora, come se fosse ieri.

Era la sera di Natale e avevano fatto una festa al locale. Avevano preparato un grande albero di Natale, decorato con fiocchi rossi e dorati, e con una grande stella d’argento in cima. Lei si era seduta davanti all’albero e lo aveva guardato per qualche minuto, rapita, come una bambina, dai giochi di luce delle lampadine colorate.

Allora era capace di meravigliarsi per ogni cosa bella.

Mina era seduta in angolo, sorseggiando della cioccolata calda, mentre parlava con Pam dei suoi ultimi progetti, Lory aiutava Kyle a preparare da mangiare, Paddy giocava a carte con i suoi fratelli, mentre Mark leggeva una rivista.

Non si era mai trovato bene con il resto della squadra, eppure a lei non era mai importato, e le era sembrato più che naturale passare il Natale assieme a loro, dato che i suoi genitori erano andati a trovare sua nonna in montagna.

All’improvviso, sentii una mano calda scompigliarle i capelli. Una mano dolce, ma forte.

“Ryan, accidenti a te! Mi sono appena spazzolata i capelli!” urlò nel tentativo di sistemarli, senza farsi vedere spettinata e disordinata da Mark.

Ryan sorrise e lei rimase per un attimo a guardarlo, imbronciata. Poi sorrise e disse: “Credo che anche te le luci facciano il mio stesso effetto… ai gatti piacciono e io ne sono affascinata perché ho DNA felino… accade anche a te?”.

Ryan si sedette accanto a lei e disse: “Sì, non riesco a smettere di guardarle. E’ strano… è come se le vedessi per la prima volta…”.

“Già…” rispose lei, poi la voce del ragazzo biondo interruppe i suoi pensieri: “E’ bello essere qui… con voi, intendo… mi sembra di avere di nuovo una famiglia…”.

Lei si voltò a guardarlo, stupita. Non era da lui confessare candidamente delle cose del genere; di solito, tendeva a tenersi tutto dentro e a non parlare mai di sé e dei propri sentimenti.

Strawberry gli sorrise e disse: “Sono felice anche io…”.

Si guardarono, sorridenti per qualche istante, poi Strawberry aveva distolto lo sguardo, sentendosi strana . Era così, ogni volta che guardava Ryan, il suo sguardo lo sentiva addosso, come se le potesse leggere sull’anima nuda.

La voce di Kyle gli aveva raggiunti ed erano andati a mangiare. Dopo, si erano messi a giocare a carte e ad altri giochi tipicamente natalizi, ma poi, dopo la mezzanotte, Mark aveva iniziato a fare pressioni per tornare a casa e, dopo un po’, Strawberry aveva acconsentito. Aveva salutato tutti, facendo nuovamente gli auguri, ma poi, non trovando Ryan tra loro, aveva detto a Mark di aspettarla fuori e aveva chiesto a Kyle dove fosse.

Kyle aveva accennato con il capo alla veranda e lei era uscita fuori. Faceva freddo, molto freddo, ma a Ryan sembrava non importare. Se ne stava lì, avvolto nel suo cappotto nero, che portava sopra un maglione grigio ed un paio di jeans, e guardava il cielo, in silenzio.

Gli si avvicinò e disse, rabbrividendo: “Non hai freddo? Ti prenderai un raffreddore!”.

Ryan si era voltato e le aveva sorriso. Lei era inspiegabilmente arrossita… ancora quella sensazione: la sua anima, che usciva dal suo corpo e si era rendeva troppo visibile a lui.

Si era avvicinata a lui, e si era messa anche lei a guardare le stelle, accanto a Ryan, le braccia conserte appoggiate sulla ringhiera della veranda.

Dopo qualche minuto di completo silenzio, interrotto solo dalle voci degli altri, che provenivano dall’interno, lei gli aveva chiesto: “A che cosa pensi? Stasera sei stranamente silenzioso… di solito, sei fin troppo loquace…”.

Ryan non aveva raccolto la sua battuta ed era rimasto qualche istante, con lo sguardo incatenato alla bianca superficie della luna. Ma lei aveva aspettato, guardando rapita i suoi occhi, illuminati dalla luce adamantina dell’astro della sera, e i suoi capelli, che si muovevano dolcemente nel freddo vento di dicembre. Strawberry non capiva. Possibile che solo adesso si fosse accorta di quanto Ryan fosse… insomma, era , era… davvero molto, molto carino…anzi, adesso che ci pensava meglio, non era solamente carino, era veramente un bellissimo ragazzo. Eppure lei, ogni volta, che lo aveva guardato, non lo aveva mai notato, persa com’era nel pensiero di Mark. Lui e Ryan erano totalmente diversi, l’opposto uno dell’altro, e forse, per questo, era innamorata di Mark, e, invece, spesso faticava a trattenersi dallo prendere a schiaffi Ryan. Eppure, avvertiva qualcosa di particolare con Ryan dalla prima volta che l’aveva incontrato, qualcosa che aveva provato anche con Mark, sebbene molto mitigato… la sensazione, che lui sarebbe stato importante, importante per la sua vita… e adesso, si chiedeva se fosse solo perché era stato il direttore de progetto mew…

Ryan sospirò leggermente, socchiudendo gli occhi, poi si decise a rispondere: “Non sto pensando a niente di particolare… tu, piuttosto, non dovresti andare via? Il tuo cavaliere ti sta aspettando…” e fece segno con il capo ad una piccola sagoma scura immobile per la strada, poco sotto di loro.

Strawberry si ricordò solo allora che Mark la stava aspettando e si decise ad allontanarsi dalla ringhiera, dopo aver salutato Ryan e avergli fatto nuovamente gli auguri.

Non aveva fatto in tempo a girarsi che aveva sentito la sua voce richiamarla bruscamente indietro. Si era voltata verso di lui e lo aveva visto appoggiato alla ringhiera. Le lanciò senza parlare un pacchettino di carta rossa e verde, decorato con una stampa a fiori, che sembrava molto vecchia.

Strawberry lo guardò senza parlare, soppesando il pacchetto tra le mani, ma, vedendo che lui non diceva ancora niente, si decise ad aprirlo. Conteneva un piccolo fermaglio, con tre fiocchi di neve tempestati di piccoli brillantini. Lei lo tenne tra le mani per un po’, poi sollevò lo sguardo e disse, gli occhi leggermente stupiti dal gesto del ragazzo: “Ma Ryan…”.

“Non farti illusioni” disse lui, voltandosi ancora una volta verso il cielo, sopra di lui “L’ho trovato per caso e non sapevo che farmene… se vuoi, puoi tenerlo tu, altrimenti lo getto via…”.

Lei sorrise e disse che l’avrebbe tenuto lei. Lo ringraziò e gli disse che si sarebbero visti l’indomani.

E, invece, non si sarebbero visti mai più.

Ricordava di essersi allontanata, di essersi fermata tra l’oscurità non dissipata dalla luce della luna e di essersi voltata ancora verso di lui, per chiedersi ancora che cosa pensasse, ma poi, aveva scrollato le spalle ed era corsa da Mark.

E mai, come allora, mentre stava seduta sul freddo pavimento del bagno del caffè, si chiese perché non era tornata indietro, perché se ne era andata così presto quella sera, perché, quando Mark non le aveva detto di tornare a casa, lei non aveva risposto di no, ed era rimasta lì ancora per un po’, per un’ora, per un minuto soltanto…

Sorrise malinconicamente a sé stessa nello specchio, mentre si ravvivava i capelli con le dita. Che ne sapeva allora quanto il tempo inganna, quanto sembri lunghissimo e quanto, invece, alle volte, scorreva troppo velocemente, portandosi via tutto? La felicità, l’allegria, la speranza, la rabbia, il rancore, l’indifferenza, l’odio, l’amore… tutto, portava via tutto, sempre e per sempre, e nulla poteva mai riportare niente indietro… una sola cosa l’aveva lasciata…

Il dolore… solo quel suo eterno compagno, che non la lasciava mai, nemmeno per un secondo…

Perché Ryan è morto, perché Ryan non c’è più…

Pensarlo, le fece molto più male di quello che pensasse, e si accasciò ancora sul lavandino, ricominciando a piangere. Uscì dalla tasca il fermaglio, che le aveva regalato Ryan quel giorno, e lo strinse forte tra le mani, fino a farsi quasi male. Lo portava sempre con sé, da tre anni a quella parte, da quando Ryan era morto, e non se ne separava mai. Era l’unica cosa che le era rimasta di lui.

Prese nervosamente a pugni il muro, continuando a piangere. Perché non ce la faceva a voltare pagina? Perché non riusciva a scordarsi di lui, perché… non erano mai stati grandi amici, eppure il suo pensiero la tormentava sempre, ogni giorno… non capiva che cosa le stesse succedendo. Da quando Ryan era morto, aveva semplicemente smesso di vivere e si era limitata ad esistere per forza di inerzia, come se non dipendesse da lei. C’erano stati sì, momenti, in cui tutto sommato, era stata felice, ma li ricordava a fatica ed erano avvolti in una nebbia vorticosa, che occupava tutta la sua memoria dei suoi ultimi anni. Era sempre deconcentrata, non riusciva tenere a mente le cose più semplici e non sapeva perché. Aveva tentato persino di entrare in terapia, ma non aveva funzionato: appena aveva nominato Ryan, aveva iniziato a sudare freddo, come se si sentisse in trappola ed era diventata tutta rossa in viso.

Alla domanda dello psicologo: “Lui era il tuo ragazzo? Un tuo caro amico?”, non era stata in grado di rispondere.

Che cosa era stato Ryan per lei? Più di un amico, ne era certa, se non riusciva ancora a dimenticarsi di lui, ma non ne era mai neanche stata innamorata. Andava bene soffrire per lui, ricordarlo, piangerlo, quando lo si nominava, ma annullarsi per lui, perdersi nella quiescenza, di chi non vuole accettare che qualcuno se ne sia andato per sempre, non era una cosa normale. Non lo era assolutamente.

Strawberry smise di picchiare i pugni, ormai lividi, sulla parete, e si guardò ancora nello specchio. Si vergognava, si sentiva in colpa… perché doveva far preoccupare tutti con quel suo strano atteggiamento? Perché Ryan Shirogane non la lasciava andare via, non la lasciava scorrere nel suo tempo?

Chiuse gli occhi, mentre congiungeva le mani al petto. Aprì lievemente le labbra e disse, sottovoce: “Ryan, io non ti dimenticherò mai, nemmeno quando sarò vecchia… tu resterai sempre accanto a me, in me, per sempre, dovunque tu adesso sia… non penso che tu abbia mai creduto in Dio, ma adesso io affido a Lui la tua anima… e la mia… io ricomincerò a vivere e lo farò per te, Ryan Shirogane… addio Ryan…” .

Strawberry riaprì lentamente gli occhi, come per rendersi conto che effettivamente quelle sue parole, che forse avrebbe dovuto dire da tanto tempo, non avessero fatto rovesciare il mondo. Sapeva che non sarebbe stata mai più la stessa, ma doveva ricominciare da capo.  Ma, mentre usciva dal bagno, chiudendosi la porta alle spalle, facendo un gran sorriso a Mark, che era appena arrivato, si accorse con terrore che nulla dell’angoscia che provava, sembrava essersene andata via. Niente. Era ancora tutta lì. Non riusciva a lasciare dietro di sé Ryan Shirogane.

 

 

Strawberry era tornata a casa verso le 20,00, sebbene Mark le avesse chiesto di uscire. Lei aveva detto che stava poco bene ed era tornata a casa sua, dove adesso passava molto tempo, invece che nell’appartamento di Lory. A casa sua, c’erano i suoi genitori, che la facevano sentire come una bambina e lei si crogiolava nel sentirsi tale; annullava i suoi sentimenti e il suo dolore, quando era con loro, quando loro le dicevano che cosa fare e che cosa non fare. Particolari che sembrava non essere più in grado di ponderare da sola.

Gridò un: “Sono tornata!”, poi si accorse che, nell’ingresso, c’era un paio di scarpe che non conosceva. Una visita. Poteva scommettere che si trattasse di un amico di suo padre, con eventuale figlio a seguito, ovviamente promessa nel mondo del lavoro, e che suo padre cercava di mostrare come un ottimo partito. Chiaro che suo padre detestava Mark, ed era perfettamente inutile dirgli che lei lo amava e che voleva stare con lui. Lo era stato, quando aveva voglia di dirlo, e adesso che non ne aveva più la forza, lo sarebbe stato ugualmente.

Entrò in salotto con un sospiro e vide sua madre, intenta a chiacchierare con un ragazzo, che lei non conosceva. Lui aveva i capelli castano scuro e due scintillanti occhi dorati. Stavano ridendo, seduti sul divano, mentre il padre addentava con un mezzo sorriso sul volto un pasticcino alla crema di fragole.

“Ciao a tutti!” ripeté Strawberry per farsi sentire e attirare la loro attenzione.

La madre sollevò lo sguardo su di lei e replicò: “Ciao tesoro… sei tornata presto stasera… hai visto chi è venuto a trovarti? Il tuo amico Ghish…”.

“Eh?! Ghish?!” urlò la ragazza a dir poco, sconvolta.

Il ragazzo si affrettò a dire: “Ciao gattina… non mi sembra che tu sia molto cambiata…”.

Strawberry non si trattenne dal dire: “E tu, invece, sei cambiato molto… e le tue orecchie?!”, poi si ricordò della presenza dei genitori, e disse, ridendo nervosamente: “Sapete, aveva un bel paio di orecchie a sventola, quando ci siamo conosciuti… ci siamo conosciuti… all’asilo!”.

“Ma non andavate alle elementari assieme?!”chiese la madre scettica, mentre Ghish si sbatteva una mano sulla fronte e si affannava a correggere Strawberry: “Certo, certo, noi siamo andati alle ELEMENTARI ASSIEME, non ALL’ ASILO, vero?!”.

“Ah sì, che smemorata!” replicò lei, guardando Ghish “Come ho fatto a dimenticarmene!”.

Forse perché non è mai successo- bofonchiò tra sé e sé.

La madre guardò alternativamente i due, l’aria imbarazzata di sua figlia e quella quasi rassegnata del suo amico, e sorrise tra sé e sé, dicendo: “Bè, credo che adesso tu e Ghish vogliate parlare un po’ da soli di faccende, che certamente io e tuo padre non dovremmo ascoltare… io e papà andiamo al cinema e torneremo verso le 22,30… ci ha fatto piacere conoscerti Ghish…”.

Il ragazzo, dopo un grosso sospiro, replicò: “Anche a me, signora Momomiya…”. Anche Strawberry fece un grosso sorriso alla madre e la salutò.

Il padre della ragazza, in realtà, non è che avesse tutta questa voglia di uscire, soprattutto lasciando sola la figlia in casa con un perfetto sconosciuto, che poteva essere andato pure con lei alle elementari o all’asilo, ma adesso era pur sempre un ragazzo, e anche abbastanza carino.

Poi, di fronte, allo sguardo glaciale della moglie, si affannò ad uscire velocemente dalla casa, anche perché, in fondo, quel ragazzo non gli aveva fatto del tutto una cattiva impressione, sembrava anzi piuttosto simpatico, a differenza di quel damerino del fidanzato di Strawberry, sebbene il soprannome “gattina”, affibbiato alla figlia, non lo convinceva poi tanto.

Non appena i due, si chiusero la porta alle spalle, Ghish riprese il suo aspetto normale, spiegando: “Era solo una trasformazione provvisoria… avevo bisogno di parlarti e non volevo spaventare i tuoi genitori…”.

Strawberry si sedette nella poltrona, di fronte all’alieno, notando che in fondo, non era per niente cambiato da quattro anni a quella parte.

“Non che non mi faccia piacere rivederti, anche se siamo stati comunque nemici” esordì “Ma si può sapere che ci fai qui? Devi parlarmi di qualcosa di importante? E’ successo qualcosa?”.

Ghish esordì, con voce leggermente preoccupata: “Non è successo niente, o almeno spero che non sia successo niente di preoccupante…” poi bisbigliò un: “…ancora…”.

“Cosa hai detto?!” chiese Strawberry, ma Ghish scrollò il capo e disse malinconico: “Niente di importante, micetta… piuttosto, come vanno qui le cose?”.

Strawberry sussultò. Che cosa poteva dirgli? La sua sola vista le faceva ritornare in mente molti ricordi del passato, la maggior parte dei quali di Ryan, e, cavolo, quanto faceva male vedere ancora il passato prendersi il presente, con una violenza e una forza tale da lasciarla stordita, come se avesse ricevuto un forte colpo sulla nuca.

Reagendo inconsciamente a quei ricordi, replicò stizzita: “Che cosa vuoi che ti dica?!”.

Ghish si nascose dietro le palme delle mani, come a difendersi dalla sua aggressività e disse: “Calmati gattina! Non sei per niente cambiata… sei sempre la solita violenta e permalosa!”.

Lei accennò ad un broncio, che, poi, stemperò in un leggero sorriso. Non era mica colpa sua se lei era un’anormale e se pensava ancora ad un ragazzo, morto ormai da quasi tre anni…

“Bè, il Caffè esiste ancora e io e le altre ci lavoriamo tuttora” iniziò “Per quanto riguarda me, sono iscritta al primo anno di Pedagogia e divido una casa con Lory… e, nel caso te lo stia chiedendo, sono ancora fidanzata con Mark…”.

Ghish rispose con un’espressione indecifrabile e replicò, sorridente: “Guarda, micetta, che non era questo che volevo sapere… considerando che anch’io adesso sto assieme ad una persona…”.

Strawberry sobbalzò e, per poco, non cadde dal divano, mentre gridava: “CHE COSA?! E chi è la sfortunata?!”.

Ghish continuò, leggermente rosso in viso: “Bello spirito di patata lessa… comunque, lei si chiama Blanche ed era una mia amica di infanzia… quando sono partito per la Terra, ho lasciato un fagottino informe, che mi sembrava non sarebbe sbocciato, e poi, quando sono tornata, ho ritrovato l’essere più bello e dolce che esista nell’intero Universo… la amo molto, davvero… sai, ha due occhi azzurri così profondi, che mi viene voglia di perdermici dentro…”.

Strawberry sorrise, ricordando anche lei due meravigliosi occhi acquamarina, che non riusciva a scordare.

Ghish riprese, leggermente più vivace nella voce da tono canzonatorio: “Sai, mia piccola fragolina, tra noi non poteva funzionare… tra noi c’era sempre quel bellimbusto del tuo ragazzo, e le rare volte, che ti scollavi da lui, c’era quell’altro, il biondino… come è che si chiama?”.

L’improvvisa allusione a Ryan le fece ancora più male dei ricordi di prima, ma, nonostante il dolore che le crepava le vene del cuore, si decise a rispondere: “Lui… il biondino, insomma, Ryan è morto tre anni fa…”.

Ghish la guardò tristemente, balbettando: “Mi dispiace veramente… nonostante tutto, mi stava simpatico… com’è successo?”.

Strawberry trasalì, sbarrando gli occhi, ora di nuovo, umidi di calde lacrime. Già, com’era successo? Aveva cercato ossessivamente di dimenticare quel giorno, di rimuoverlo dalla sua mente, ma quello in tutta risposta, la perseguitava, la tormentava sempre di più.

Non voleva parlarne, non voleva assolutamente dire a Ghish quello che era successo, e fu tentata da dirgli di lasciarla in pace, che non aveva voglia di dire niente, ma, per la prima volta, al contrario, avvertì forte il desiderio di svuotare il suo cuore e la sua mente, che avvertiva orribilmente pieni di dolore, compresso negli anfratti di sé stessa dal tempo che per lei non era mai passato.

Il suo sguardo si eclissò ed iniziò freddamente a raccontare quello che era successo in quelle ventiquattro ore, che le avevano cambiato la vita, portandole via per sempre qualcosa della sua anima, che temeva non sarebbe più tornata.

 

   
 
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