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Autore: amimy    05/03/2010    3 recensioni
What-if, Post- 4.14 - il fanstasma del passato
Cosa siamo disposti a fare per le persone che amiamo? E’ quello che deve scoprire Seeley Booth, quando all’improvviso riceve una chiamata disperata da Rebecca, e appura che Parker è scomparso. Si ritrova così catapultato improvvisamente in una corsa contro il tempo, una caccia all’ultimo indizio per ritrovare il figlio. Avrà bisogno dell’aiuto e della collaborazione di tutti per risolvere una situazione che sembra già disperata in partenza. E si ritroverà anche, così, a doversi confrontare con dei sentimenti che non aveva mai assaporato prima.
Genere: Drammatico, Suspence, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Seeley Booth, Temperance Brennan
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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NOTE: L’idea è piuttosto banale. Lo so. Ma è l’unica che avevo, quindi prendere o lasciare.

Una seconda cosa, più sensata. Dato che le mie conoscenze di antropologia forense sono pari a meno di zero, di sicuro commetterò qualche errore. E lo stesso vale per le procedure attraverso cui agisce l’FBI.Quindi, ovviamente, non esitate a correggermi o a dirmi che devo darmi all’ippica XD

Ah, e visto che scrivo la storia capitolo per capitolo, se volete darmi consigli, sggerimenti, critiche o volete che succeda una determinata cosa (nei limiti dell’attinenza alla trama) o volete qualche personaggio in particolare, fatemi sapere.

P.s.: scusate la brevità del prologo, ma ho una fretta spaventosa.  Mi scuso in anticipo se ho fatto qualche errore di battitura, ma non ho davvero tempo di rileggerla. Più tardi la controllerò.

 

Prologo

 

Le cose possono essere semplici oppure complicate. Generalmente, poi, c’è anche una via di mezzo. Quindi semplici, complicate o, diciamo, risolvibili. A volte, però, si presentano situazioni impossibili da catalogare. Situazioni che seplicemente non hanno una soluzione. Situazioni in cui l’unica possibilità che abbiamo è lasciare che le cose facciano il loro corso, che quello che deve essere sia. Non è facile, però, arrendersi al destino. A volte si lotta con tutte le proprie forze per uscire da situazioni che semplicemente non vogliono lasciarci uscire. E allora combattiamo e combattiamo, sprechiamo le nostre energie. E, senza rendercene conto, ci troviamo più invischiati di prima in qualcosa di molto più grande di noi. In qualcosa magari di inaspettato, che non riguarda il problema di partenza. Ma ci siamo dentro, e possiamo solo ricominciare da capo: cercare di catalogare la difficoltà da superare, e poi lottare o arrendersi. Ci sono volte in cui ti arrendi volentieri. In cui  vuoi che il destino segua la sua strada. Ma ci sono volte in cui lotti, e dai tutto e stesso, e non smetti di combattere finchè hai vita. Ci sono volte in cui, semplicemente, non puoi arrenderti.

<< Pronto? >>

<< Seeley… >>

<< Rebecca? C’è qualche problema? >>

<< Seeley… >> Rebecca s’interruppe di nuovo, e all’agente Booth sembrò di udire un singhiozzo represso nella sua voce. La donna prese un respiro profondo, e continuò. << Parker è con te? >>

<< Cosa significa se è con me? Non lo vedo dalla scorsa settimana. >> rispose Booth, frastornato. Parker…non era con Rebecca… era…

<< Non è con la governante? >>

<< No. Le ho già telefonato. >> rispose Rebecca. Ora Seeley poteva distinguere chiaramente la paura nella sua voce. Tentava di parlare chiaramente, di apparire quantomeno in sé, ma l’uomo poteva sentirla sussultare e gemere all’altro capo del telefono.

<< Dov’era l’ultima volta che l’hai visto? >> domandò Seeley. Lui ci provava. Ci provava davvero, a sembrare professionale. Co provava perché era la cosa più sensata da fare in caso di scomparsa. Ci provava, ma non ci riusciva. C’erano delle parole che gli rimbombavano nel cervello, e gli impedivano di concentrarsi. “Mio figlio…Parker…Parker…Dov’è?”. E non era in grado di farle tacere.

<< Era…andato al parco, con Ian e sua madre. Anne mi ha chiamato, mi ha chiesto se era tornato da me…oddio, Seeley, cosa devo fare? Cosa può essergli successo? >> strepitò Rebecca, in un crescendo di panico e apprenzione. Booth si accorse che lei stava facendo esattamente la stessa cosa che faceva lui: stava tentando si stare calma, di spiegare la situazione razionalmente, per il bene di Parker. Ma l’istinto di genitore era impossibile da sopprimere. Era impensabile che rimanesse tranquilla, quando era disperata. Aveva paura. Anche Seeley ne aveva. Nessuno dei due aveva preso in considerazione, nemmeno per un istante, l'idea che il bambino si fosse semplicemente allontanato per prendere un gelato o per salutare un amico. Sarebbe stato troppo. Troppo bello. Troppo semplice.

<< Hai chiamato la polizia? >> domandò, velocemente, prima che le emozioni lo sopraffacessero. Iniziò a muoversi, intanto. Afferrò il telefono fisso, per vedere se c’erano messaggi in segreteria. Sfregò la fondina. Aveva bisogno di sentire l’arma sotto le sue dita.

<< Sì. Arriveranno a momenti. >> replicò Rebecca.

<< Vengo da te. >> disse immediatamente Booth.

<< No. Seeley, no. Io non ho bisogno di aiuto. Vai al parco. Setaccia il quartiere. Fai quello che vuoi, ma trovalo. Per favore. Trovalo. >>

Booth annuì, anche se ovviamente lei non lo poteva vedere. << Lo farò. >> promise. Era vero. L'avrebbe trovato.

Riattaccò. Si prese la testa fra le mani. Toccò di nuovo la pistola. Si alzò dal divano. Rapido, deciso, efficiente. Ecco come doveva essere. Senza pensare troppo. Ma Parker…no. Rapido, deciso, efficiente. Andò dritto verso il tavolino dell’ingresso, afferrando le chiavi della macchina sepolte sotto qualche strato di cianfrusaglie. Le monete nel portaoggetti tintinnarono, e fiumi di oggetti si riversarono sul tavolo. Non importava.

Si voltò, pronto a uscire.

Tunk.

Booth si immobilizzò, nel centro del corridoio dell’ingresso. Un rumore all’esterno.

Tok. Tsiii. Tok.

Passi. Un fruscio. Altri passi.

Lentamente, l’agente camminò in punta di piedi verso la porta. Provava l’istinto di correre, ma aveva paura di spaventare e far fuggire chiunque fosse dall’altro lato. Volveva spalancare la porta, o urlare “Parker? Bones? Chi è?” , ma sapeva che non avrebbe dovuto.

Arrivò finalmente al portoncino d’ingresso. La sua mano destra era stretta sulla maniglia, pronta ad abbassarla. Lo fece. La porta di socchiuse, senza un cigolio.

Si accorse subito che il cortile era deserto. Nessun’ombra che non avrebbe dovuto esserci, niente rumore di passi. Nessun movimento furtivo, nemmeno nella via frontale.

Booth abbassò lo sguardo. Non seppe bene perché lo fece. Però guardò in basso, e vide. Capì.

Sullo zerbino, una foto.

   
 
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