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Autore: Trick    05/03/2010    11 recensioni
"«Combattete per amore e questa non sarà la nostra ultima notte, ma l'ultima notte di guerra. Combattete per amore, ragazzi, perché domani vedremo un'alba più bella»".
- Missing Moments dell'ultima battaglia di Remus e Tonks -
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Remus/Ninfadora
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Titolo: Rassegnato è l'atto ultimo
Rating: Giallo, ma solo per il contenuto di termini volgari
Conteggio parole: 7165
Note dell'autrice: La prima frase della fan fiction è tratta da una famosa citazione di George Bernard Shaw, «In battaglia, tutto ciò che ti serve, è un po' di sangue caldo e la consapevolezza che perdere è più pericoloso che vincere».
Non avevo intenzione di pubblicarla, in realtà, ma essendo passato così tanto dall'ultimo aggiormento del Diario mi sono sentita in colpa. :) Questa è l'unica fan fiction in archivio di cui, al momento, dispongo.
È stata scritta per la seconda prova del Torneo di Quidditch di HpQuiz.it, al fantastico staff e agli iscritti del quale, fra l'altro, vorrei dedicare questa storia.
A Piero, in particolare, che ne sa già il motivo.


«C'è del buono in questo mondo, padron Frodo.
È giusto combattere per questo».
Da Il Signore degli Anelli – Le due torri”


Se è vero che per resistere alla ferocia della guerra occorre avere una pari quantità di coraggio e fortuna, è altrettanto vero che si è obbligati a sapere che perderla, in effetti, ci sfregerebbe molto più che non vincerla.
Remus ne era consapevole dall'età di nove anni. Non era che un bambino quando fu costretto a comprendere la differenza fra ciò che era vittoria e ciò che era sconfitta. Qualcuno avrebbe potuto alludere al fatto che, in fondo, si vince quando si resta vivi – ma, così dicendo, non farebbe che dimostrare la propria stoltezza. La vita non era affatto una vittoria, e Remus, questo, lo sapeva perfettamente: aveva dimenticato il numero di volte in cui era caduto con le ginocchia nel fango, incapace di sopportare altri dolori e ingiustizie, miseramente umiliato e sconfitto. Chi può osare cingersi in capo con foglie d'alloro se sovente crolla sulle proprie gambe e abbassa penosamente lo sguardo?
Con un sospiro spossato, Remus sollevò il capo al di là delle belle trifore che circondavano il cortile di Hogwarts e osservò colpito la serenità del cielo notturno. Mentre contemplava lo splendore delle sue stelle incantate, cercò di immaginare cosa sarebbe accaduto se avessero perduto quell'ultima battaglia decisiva. Socchiuse gli occhi e vide lunghe fila di Nati Babbani, sporchi e sciupati, violentemente trascinati verso un ampio patibolo grondante di sangue. Immaginò il cielo di Londra tinto dello stesso colore, su cui le grandiosità degli edifici Babbani si sarebbero stagliate tetre, buie e deserte. Focalizzò ogni conseguenza della vittoria di Lord Voldemort, stringendo sempre di più i pugni e pregando affinché potesse rimane niente più di una sua tragica e nefasta fantasia. Se lo figurò decretare la morte di tutti i traditori del proprio regime e, tentando di figurarsi morto, si scoprì molto più tranquillo di quanto non lo fosse al pensiero delle orde bellicose dei Mangiamorte che appiccavano fuoco alle dimore dei Babbani e dei Sanguesporco – o agli stessi Babbani e Sanguesporco, nelle più macabre delle sue ipotesi. D'un tratto, fu duramente colpito dall'immagine del corpo privo di vita della moglie, riverso nel pavimento del soggiorno e contorno in angolature innaturali, con i begli occhi scuri vacui e distanti e il ventre squarciato e sanguinante. Non poté resistere alla visione di Fenrir Grayback che affondava i denti gialli e puntuti nella piccola e fragile gola di Teddy e spalancò gli occhi, impietrito dall'orrore. Fece un profondo respiro e deglutì forzatamente, mentre tentava di ricacciare indietro quei disgustosi pensieri.
Non possiamo perdere” si disse con angosciata determinazione. “Buon Dio, non possiamo”.
«Remus» lo chiamò la voce profonda di Kingsley.
Colto alla sprovvista, Remus trasalì impercettibilmente e volse rapido il capo verso il compagno. Con apparente calma, gli rivolse un mesto sorriso.
«Buonasera, Kingsley» rispose roco, mentre appoggiava nuovamente la schiena ad una delle colonne di marmo e appoggiava l'avambraccio destro al ginocchio.
Kingsley lo studiò dettagliatamente per qualche istante, prima di avvicinarsi e prendere posto accanto a lui. Anch'egli, sovrappensiero, alzò gli occhi al cielo.
«Se non altro, è una bella serata» affermò con triste ironia.
Le labbra di Remus s'incrinarono lievemente verso l'alto.
«Non hai idea di quanto fossi preoccupato all'idea che potesse piovere» scherzò. «Mi avrebbe rovinato la giornata».
Kingsley emise un breve sbuffo divertito.
«Come sta Tonks?» s'informò dopo un attimo di silenzio.
Remus annuì fugacemente.
«È a casa con Teddy».
«Sei esasperante» ridacchiò appena Kingsley. «Mai una volta che ti si senta rispondere con chiarezza ad una domanda».
«Ho il timore di annoiare i miei interlocutori» ribatté Remus. «Soprattutto quando mi chiedono di cose di cui sono già a conoscenza».
Kingsley rimase zitto qualche secondo e gli rivolse un debole sorriso.
«Touché» disse, volgendo nuovamente il viso verso di lui. «L'hai costretta a rimanere a casa, allora?».
Alla franchezza di quella domanda, Remus reagì nervosamente. Chinò lesto la testa e cercò di evitare lo sguardo indagatore dell'altro, mentre sfregava fra loro i polpastrelli della mano destra.
«Non potevo permetterle di venire» rispose laconico. «Non ora che c'è Teddy».
«No, infatti» ne convenne Kingsley, con una punta di rimprovero. «Nemmeno lei avrebbe dovuto permetterti di venire. Non ora che sei padre, Remus».
«È per lui che sono qui» affermò con estrema convinzione, muovendo concitato il capo. «Non posso rischiare che cresca in un mondo...» ruotò vagamente la mano, incerto sulle parole da usare. «Be', non certo in un mondo così. Non voglio pensare a cosa potrebbe loro accadere se questa dannata guerra dovesse concludersi con la nostra sconfitta».
Kingsley fece una smorfia.
«E hai pensato a cosa potrebbe accadergli se tu dovessi...» replicò, lasciando volutamente cadere la frase nel vuoto.
Remus strinse le labbra e fece un profondo respiro.
«Sinceramente» disse, «non desidero pensarlo affatto».
«Professor Lupin?» l'interruppe una timorosa voce femminile.
Remus si voltò verso la grande porta di legno di quercia che conduceva al Salone d'Ingresso e vide la piccola ombra di Lavanda Brown stagliarsi nella luce delle torce della stanza. La giovane fece un paio di passi in avanti e li scrutò intimorita qualche istante. Remus le rivolse un sorriso disponibile.
«Buonasera, Lavanda» la salutò gentilmente.
Parve stupita che si ricordasse il suo nome dopo quasi quattro anni, perché esitò un attimo ancora prima di parlare.
«La professoressa McGranitt ha chiesto di lei e del signor Shacklebolt» spiegò. «È in Sala Grande, ora. Vi sta aspettando».
«Ti ringrazio, Lavanda. Puoi dirle che arriviamo fra un istante, per favore?».
La ragazza annuì rapidamente e si diresse verso la porta. Sull'uscio, si voltò per rivolgere un debole sorriso in direzione di Remus. Kingsley ridacchiò leggermente.
«Quando dici che sei un professore discreto, Remus, mi verrebbe voglia di prenderti a sberle» commentò con schiettezza. «Al contrario di quanto ti ostini a ribadire, questi ragazzi sembrano ammirarti parecchio».
Remus si alzò in piedi e finse di sistemare il polsino sdrucito della propria camicia, incerto su come replicare.
«Non è difficile insegnare quando i propri studenti sono volenterosi di imparare» disse, mentre un lieve sorriso gli inarcava le labbra. «Un po' come vincere una guerra quando il cielo ci fa la cortesia di essere tanto sereno».
Kingsley inarcò un sopracciglio, sarcastico.
«Inizia a pregarlo, allora, questo maledetto cielo» rispose, mentre si alzava a sua volta e si lisciava le pieghe del mantello con aria distratta. «Dio solo sa quanto ne avremmo bisogno».
Remus gli rivolse un'occhiata eloquente.
«Puoi giurarci che lo farò».

Plinio il Vecchio sosteneva che la nostra casa si erge in una terra assai più distante e inesplorata di quelle sulla quale abbiamo posato mattoni e calcestruzzo. Egli era solito ribadire che la più riparata ed intima delle dimore non fosse quella sotto la quale dormiamo, ma quella nella quale riposa il nostro cuore.
Con i palmi delle mani sottili appoggiati al davanzale della finestra della sua vecchia camera da letto, l'esile figura di Tonks si stagliava contro i riflessi vagamente rossastri del cielo di Londra, inondato dalle luci dei lampioni e dei grandi palazzi Babbani. Non andava osservando nulla di particolare nel cortile che circondava la casa, ma le sue sopracciglia erano corrugate in un'espressione estremamente concentrata e le sue labbra erano tirate in una smorfia nervosa. Nonostante indossasse solo una leggera canottiera di cotone, non pareva curarsi dell'aria vagamente pungente della notte.
La porta alle sue spalle si aprì con un debole schiocco della maniglia. Per un attimo, un fascio di luce dorato invase la stanza, illuminando una variopinta giostra di lune e stelline appesa alle staffe di sostegno di una modesta culla di legno.
«Chiudi la finestra, Ninfadora» la ammonì con voce incerta Andromeda, richiudendo la porta alle spalle e scrutandola con trepidazione. «Non vorrai fare ammalare il bambino».
Tonks ruotò impercettibilmente il capo verso di lei, fece un passo indietro e chiuse la vetrata con un gesto meccanico. Quando Andromeda intuì che la figlia non era intenzionata a spostarsi, si avvicinò alla culla del nipote e rimboccò la piccola trapunta celeste. Nel vederlo storcere il piccolo naso e stringere le manine paffute, non poté trattenere un sorriso lievemente amaro. Con un sospiro spossato, sollevò di nuovo la testa verso Tonks.
«Non serve a nulla restarsene impalate lì» le disse mestamente. «Non lo vedrai tornare attraversando il nostro cortile».
Tieni d'occhio il cortile, mia cara risuonò una voce dolorosamente familiare nella sua testa. “È l'unica strada che potrei mai usare per tornare a casa”.
«Lo so» mormorò flebile Tonks, spostando faticosamente lo sguardo dalla finestra alla volto magro e provato della madre. «Ma non posso farci niente. Continuo a immaginare che possa comparire davanti al cancello da un momento all'altro».
«È troppo presto, Ninfadora» affermò con franchezza Andromeda. «Non credo che la battaglia sia ancora cominciata».
A quell'affermazione, Tonks trasalì e socchiuse angosciata gli occhi, trattenendo il respiro per un paio di istanti. Quando dischiuse di nuovo le palpebre, osservò la madre con uno sguardo di folle risolutezza.
«Devo andare da lui».
Andromedà sgranò gli occhi e s'irrigidì, spaventata. Scosse febbrilmente la testa, incapace di credere a quanto aveva appena udito. Aveva l'impressione che il proprio cuore avesse appena perso un paio di battiti.
«No» le proibì con un autorevole sospiro. «Non lo farai. Non anche tu».
«Non posso restare» protestò con voce rotta. «Io sono un'Auror, mamma».
«Tu sei una madre, Ninfadora!» esclamò concitata Andromeda, avvicinandosi rapidamente alla figlia e stringendole le mani. «Buon Dio, pensa al tuo bambino. Cosa mai potrei dirgli se tu dovessi... dovessi...» si fermò, incapace di concludere il pensiero dell'orribile eventualità della sua morte e scosse di nuovo il capo, fermamente. Strinse con violenza gli occhi e gettò le braccia al collo della figlia con un sommesso singhiozzo.
«Tornerò» le disse piano Tonks, abbracciando la madre con energia e affondando il volto rigato di lacrime fra i suoi bei capelli mori. «Te lo giuro, mamma. Te lo giuro».
«Non dirmi questo...» biascicò addolorata Andromeda. «Lo ha detto anche tuo padre».
Tremante, Tonks si morse il labbro inferiore e cercò di ricacciare dalla mente l'immagine del corpo scarno e straziato del padre, abbandonato ai corvi e ai ratti fra le sterpaglie e il fango del bosco di Dean.
Non fare domande sciocche al tuo vecchio eruppe una distante risata piacevole e rassicurante. “Sarò di ritorno in tempo per convincervi a chiamare il mio primo nipote come il suo fortissimo nonno”.
Allontanò stentatamente da sé la madre, ma non fu in grado di sollevare la testa e guardarla negli occhi.
«Non rendere tutto così difficile» la pregò.
Le narici di Andromeda fremettero appena, mentre sgranava gli occhi dallo sgomento e gonfiava indignata il petto.
«Come puoi dirmi questo?» mormorò minacciosa, scrutando nervosamente il volto pallido della figlia. «Come puoi farmi questo!?».
«Io devo andare, mamma!» gridò con veemenza Tonks, liberandosi dalla sua presa e scuotendo affranta il capo. «Ho il dovere di farlo!».
«Finiscila di parlare di doveri, quando è evidente che non hai ancora capito quali siano i tuoi!».
Nella sua culla, Teddy emise un piccolo strillo di disapprovazione; nessuna delle due donne, tuttavia, parve accorgersene. Rimasero un paio di istanti in silenzio, occhieggiandosi con ardente rimprovero e respirando allo stesso ritmo frenetico.
«Il mio dovere di Auror mi impone di raggiungere Hogwarts e combattere. Il mio dovere di moglie mi impone di combattere al fianco di mio marito» scandì con durezza, mentre si avvicinava alla culla del figlio. «E il mio dovere di madre mi impone di combattere per mio figlio».
«E il tuo dovere di figlia, Ninfadora, non t'impone nulla?» fremette appena Andromeda, mentre la osservava sollevarlo con delicatezza e dondolarlo piano fra le braccia.
«Di tornare da te, mamma» rispose mestamente Tonks, distogliendo con aria colpevole lo sguardo dal bambino per lanciarle un'occhiata penetrante. «E farò di tutto per rispettarlo».
Andromeda continuò a fissarla mentre tentava di calmare il pianto del neonato, cullandolo appena e bisbigliando una filastrocca con voce debole.
«Bimbo bello della mamma, falla tutta la tua nanna. Bimbo bello del papà, domattina arriverà» canticchiò a bassa voce. S'interruppe per carezzare la guancia rosea di Teddy e cercò di reprimere le lacrime. «Vado a riportare a casa il tuo papà, cucciolo» mormorò con un sorriso tremulo. «E domani, quando sarà mattina, ti racconterò di quanto la tua mamma sia stata in gamba nell'acciuffarlo al volo prima che potesse cadere. Perché io e te lo sappiamo che è lui, in realtà, quello che inciampa spesso».

La piccola folla di giovani combattenti si fermò davanti alla porta che conduceva al cortile esterno della scuola, tesi e silenziosi. In parecchi si erano offerti di provvedere alla difesa degli ingressi di Hogwarts. Ritti come prodi soldatini, osservavano con frenetica impazienza i tre maghi che li stavano guidando, attendendo agitati di ricevere i loro ordini.
Dopo averli scrutati con espressione marmorea per diversi istanti, Remus rivolse loro un sorriso di gentile indulgenza.
«So che avete paura» disse. «L'abbiamo tutti».
«Non abbiamo paura, professor Lupin!» protestò una voce con un calcato accento irlandese. «Vogliamo combattere!».
Mentre il sorriso gli si allargava, Remus allungò il collo per scorgere il volto tumefatto e scarno di Seamus Finnigan fissarlo con aria indignata. Al suo fianco, Dean Thomas annuì con estrema risoluzione.
«Conosco il talento di ognuno di voi, Seamus. Ricordo perfettamente quanto grande fosse la vostra abilità» rispose con lo stesso tono posato che usava durante le proprie lezioni. «Ma non dovete credere che la paura sia cosa di cui vergognarsi. Anch'io ho molta paura».
Risentire la voce del loro insegnante preferito ebbe un effetto sanatorio sugli studenti. Le gemelle Patil sfoggiarono un coraggioso sorriso; Lavanda Brown, alla sinistra di Calì, mosse il capo un paio di volte con aria concentrata; dietro di loro, Anthony Goldstein e i suoi compagni di Corvonero si scambiavano occhiate eloquenti; le spalle di Seamus Finnigan e Dean Thomas si piegarono in una curva più rilassata, sebbene le loro dita continuassero a stringere con violenza le impugnature delle proprie bacchette.
«Vi avevo salutato quando eravate dei ragazzini – in gamba, certo, ma pur sempre dei ragazzini. Oggi mi ritrovo davanti ad uomini e donne che hanno dimostrato molto più valore della maggior parte degli impiegati del Ministero della Magia. Permettetemi di dirvi che sono estremamente fiero di voi» Remus si fermò per fare un profondo respiro. «Tuttavia, ciò che vi chiederò di affrontare questa notte è una sfida ben più ardua di quelle che avete affrontato nel corso di quest'ultimo anno. Sarete costretti ad uccidere per non essere uccisi ed io vi prego con tutte le mie forze di non sottovalutare la perfidia dei vostri avversari, poiché va al di là di qualunque perfidia abbiate mai incontrato» s'interruppe ancora e li scrutò gravemente. «Questa notte cambierà la vostra vita. Cambierà i vostri amici. Cambierà voi stessi. Potreste anche perdere, questa notte» aggiunse una smorfia di disappunto. «Potreste morire, questa notte, e potreste veder morire i vostri amici. Potreste perdere ciò a cui tenete. Potreste perdere davvero molto» mormorò. «Ma ciò che vi ha convinto a restare, quello è immortale e niente – niente – di questa notte potrà mai portarvelo via. La vostra arma più potente non è il coraggio dei Grifondoro» disse, volgendo il capo verso Seamus e Dean. «Non l'arguzia dei Corvonero» riprese, scrutando le cravatte argento e blu delle ultime fila. «Non la generosità dei Tassorosso» concluse in direzione della testa ricciolina di Ernie MacMillan. «Ma l'amore che vi ha condotto qui. Il Preside Silente sosteneva che non esiste forza al mondo in grado di sconfiggerlo» fece un'altra pausa e carezzò vagamente la propria bacchetta. «Combattete per amore e questa non sarà la nostra ultima notte, ma l'ultima notte di guerra. Combattete per amore, ragazzi, perché domani vedremo un'alba più bella».

Incurante del fatto che il suo corpo non si fosse ancora del tutto ripreso dalla gravidanza, Tonks iniziò a correre lungo High Street non appena si fu Materializzata nel villaggio di Hogsmeade. Superò Scrivenshaft, il negozio di piume e calamai, e si gettò in una stretta e maleodorante stradina alla sua sinistra. Oltrepassò un paio di case e spalancò senza alcuna cautela la porta sgangherata. Prima che potesse rendersene conto, si ritrovò sotto il tiro della bacchetta di un'anziana signora dall'aspetto temibile. Indossava un lungo abito verde e un cappello a punta sul quale svettava l'avvoltoio impagliato più grosso che Tonks avesse mai visto. La strega aggrottò le sopracciglia mentre osservava la sua capigliatura rosa. Dopo un attimo di riflessione, abbassò la bacchetta e scosse il capo con aria di disapprovazione.
«Sei forse impazzita, signorina Tonks?» la rimproverò. «Ti sembrano questi i tempi per sfondare una porta a calci?».
Tonks strabuzzò gli occhi un paio di volte, domandandosi se la donna che le stava di fronte fosse la stessa a cui le stava pensando-
«Lei è la signora Paciock?» domandò incerta.
«Ovviamente» rispose quella, gonfiando il petto d'orgoglio. «Ed ora, se non ti dispiace, dovrei controllare che mio nipote non si sia cacciato nei pasticci un'altra volta» aggiunse, mentre raddrizzava il cappello e si voltava verso il ritratto della giovane fanciulla appeso al muro.
«Aspetti!» la chiamò con urgenza lei, rovesciando una sedia. «Devo sapere dov'è Aberforth. So che conosce un modo di entrare ad Hogwarts eludendo la sorveglianza dei Mangiamorte!».
La signora Paciock la guardò con un sopracciglio educatamente inarcato.
«Mia cara, Aberforth è già ad Hogwarts».
Tonks si sentì mancare.
«Ma io devo andare ad Hogwarts».
«Oh, non avevi dubbi a riguardo. Tua madre lo ripete sempre che sei un'inguaribile ritardataria» ribatté con leggerezza la donna. «Chiudi la porta di questa bettola, signorina Tonks».
Tonks estrasse lestamente la bacchetta e la puntò in direzione della maniglia.
«Protego Totalum».
Si voltò appena in tempo per scorgere la signora Paciock issarsi con sorprendente agilità su una mensola. Laddove prima era attaccato il quadro, ora faceva mostra un grande passaggio oscuro. Tonks si avvicinò a grandi passi.
«È una galleria!» esclamò stupita.
«Una galleria che porta ad Hogwarts, cara» disse la donna, mentre ne varcava l'entrata. «L'ha scoperta mio nipote» aggiunse con fierezza.
Puntellandosi con la punta degli anfibi alla parete, Tonks si aggrappò alla mensola e saltò con un guizzo nel tunnel. Completamente distratta dalla visione delle lampade di ottone appese al muro, non vide il primo gradino e rischiò di cadere in avanti.
«Mi venisse un attacco di Spruzzolosi!» sbottò la signora Paciock. «Parola mia, sei più goffa di un Troll di montagna. Fortuna che non puzzi altrettanto».
Tonks fissò la schiena della donna con un'occhiata torva, ma preferì tacere. Per diversi minuti, l'unico rumore che si udì nella galleria fu il ritmico rimbombo dei loro passi.
«Perché sei così in ritardo, signorina Tonks?» le chiese d'un tratto la signora Paciock, schietta. «Credevo che voi Auror foste addestrati a correre all'arrembaggio per primi».
«In genere, è così, ma io sono in congedo temporaneo» rispose Tonks. Notò lo sguardo interrogativo della donna e aggiunse brevemente: «Ho avuto un bambino un paio di mesi fa».
La signora Paciock sgranò dapprima gli occhi, poi le rivolse un'occhiata estremamente grave.
«Credevo fosse una sciocchezza, quando me l'hanno riferito» disse. «Hai davvero sposato Remus Lupin, dunque».
Le gote di Tonks s'imporporarono d'indignazione e le dita scattarono leste all'impugnatura della propria bacchetta.
«Qualche motivo per il quale non avrei dovuto farlo?» sibilò in tono vagamente minaccioso.
Per la prima volta, la donna le rivolse un lieve sorriso.
«Affatto. Remus Lupin è stato l'insegnante migliore che mio nipote abbia mai avuto» ribatté. «Ma potrei trovarti almeno un centinaio di motivi per i quali non saresti dovuta venire».
«Mio marito è ad Hogwarts».
«E vostro figlio è a casa con tua madre, immagino».
Tonks annuì fugacemente.
«Il tuo è un gesto sconsideratamente precipitoso» la rimproverò. «Essere madre comporta sacrifici di natura ben diversa da quelli a cui andrai incontro questa notte. Non è facendoti uccidere nel nome della giustizia che gli garantirai un futuro migliore».
«Si sbaglia» la corresse con forza Tonks. «Non è standomene a casa che posso sperare di garantirglielo».
La signora Paciock fece un profondo respiro.
«Sai chi era mio figlio?» le chiese debolmente, come se quella domanda l'avesse svuotata di tutta la sua altera energia.
«Sì, signora Paciock».
La donna annuì, mentre indicava vagamente una seconda rampa di scale in salita.
«Allora non è necessario che ti spieghi per quale motivo un bambino non dovrebbe mai crescere senza genitori».
«Io tornerò da mio figlio» scandì con violenta determinazione. «Non permetterò che questo non accada».
«Fosse l'ultima cosa che fai?» replicò con uno sbuffo sdegnoso la signora Paciock.
«Non sono pronta per immolarmi alla guerra. E nemmeno mio marito lo è» ribatté Tonks. «Non lo siamo più, perciò non moriremo, questa notte».
Sbucarono nella stanza oltre il passaggio e Tonks si guardò intorno con aria curiosa. Era un ambiente dalle dimensioni imponenti. Le pareti erano decorati da vivaci arazzi raffiguranti gli emblemi delle case di Hogwarts (eccezion fatta per quello di Serpeverde, notò con una punta di soddisfazione Tonks) e qua e là erano appese diverse amache colorate. Non ricordando l'esistenza di una simile aula, stava per domandare alla signora Paciock se fosse certa che la galleria conducesse realmente all'interno della scuola, quando si sentì chiamare da una flebile voce familiare.
«Tonks?» chiamò Ginny, alzandosi da una sedia nascosta da una traballante libreria in un angolo. «Tonks, sei tu?».
«Ginny?» esclamò sorpresa lei, avvicinandosi alla ragazza.
Pallida e con gli occhi arrossati, la giovane le rivolse un'occhiata inquisitoria.
«Che ci fai qui?».
«Potrei chiederti la stessa cosa» replicò Tonks, incrociando le braccia al petto con un sopracciglio inarcato.
Ginny distolse lo sguardo e iniziò a fissarsi la punta della scarpe.
«Mia madre voleva che restassi a casa» borbottò risentita. «E quando sono arrivata, mi ha costretto a rimanere qui».
Tonks fece un sorriso storto.
«Non rimproverare tua madre, Ginny. È comprensibile che voglia tenerti lontano da... be', qualunque schifezza stia accadendo là fuori».
«Senti chi parla!» sbottò irrequieta l'altra. «Il professor Lupin ha detto che anche tu saresti rimasta a casa!».
Trasalendo appena, Tonks si grattò nervosamente la nuca.
«Giusta osservazione, signorina Weasley» intervenne con voce stentorea la signora Paciock, sfilando la bacchetta da una tasca della veste e lisciandosi distrattamente il cappello.
Ginny la guardò con espressione grave.
«Io non posso restare qui» affermò decisa, prima di spostare lo sguardo dall'anziana strega a Tonks. «Portami con te» la implorò con gli occhi brillanti. «Devo sapere dov'è la mia famiglia. Ti prego, Tonks».
«Se ben ricordo, mia cara, tu non sei ancora maggiorenne» s'intromise ancora la signora Paciock, scrutandola con evidente disappunto.
«Se tua madre ti ha ordinato di restare, io non ho l'autorità di contraddirla» iniziò vagamente Tonks. «Tuttavia, sono anche estremamente sbadata» aggiunse con un'occhiata eloquente. «E potrei... ecco, dimenticare accidentalmente di chiudere la porta».
Ginny gridò la sua gioia e le lanciò le braccia al collo, mentre la signora Paciock sbuffava contrariata e Tonks si lasciava andare ad una leggera risatina.
«Mi devi un centinaio di Cioccorane, Ginny» scherzò.
«Domani te ne darò un migliaio, Tonks».

Per quanto lui, Kingsley e Arthur avessero abilmente tentato di fermare l'avanzata delle truppe di Lord Voldemort, i Mangiamorte erano riusciti a oltrepassare la soglia di Hogwarts. Quando avevano visto i violenti giganti trascinarsi alle spalle del secondo gruppo di Mangiamorte, Kingsley non aveva potuto far altro che ordinare la ritirata al gruppo.
Mentre correva verso le scale che conducevano dalla parte opposta del castello – Bill aveva detto di avere dei problemi alla torre ovest - e si disse che se non l'avesse conosciuta tanto bene, avrebbe stentato a riconoscere in quel cumulo di macerie e marmi il Salone d'Ingresso di Hogwarts.
D'un tratto, una vecchia signora dai capelli rossi raffigurata in uno dei quadri malamente appesi alla parete, lanciò uno strillo acuto.
«Alle tue spalle, giovanotto! Alle tue spalle!».
Remus ruotò su se stesso appena in tempo per schivare un fiotto di luce verde. Sollevò lo sguardo e individuò una ammantata figura nera con la bacchetta puntata verso di lui, con una lunga maschera dal sorriso perverso a coprirgli il volto.
«Voldemort non ti ha insegnato che è maleducazione attaccare l'avversario alle spalle?» gli gridò Remus, sollevando la propria bacchetta in perfetta posizione di guardia.
Il Mangiamorte s'irrigidì.
«Tu, cane!» gridò ferocemente, scagliandogli un potente Schiantesimo. «Non osare chiamare il mio Signore con la tua lurida bocca infetta!».
Remus respinse prontamente con un Sortilegio Scudo di notevole forza e rivolse all'avversario una smorfia disgustata: aveva riconosciuto il timbro aspro della sua voce.
«Sfila quella maschera, Dolohov» disse. «Non combatto con chi è troppo vigliacco per mostrare il viso al nemico».
«Fottiti, animale!».
Il braccio di Dolohov si mosse con un guizzo estremamente rapido, ma Remus ebbe i riflessi per gettarsi oltre la statua di Barnaba il Babbeo e rispondere con altrettanta velocità. Il Mangiamorte ricacciò indietro il suo incantesimo con un movimento annoiato e iniziò a marciare ad ampi passi verso il proprio avversario. Accucciandosi ancora di più oltre la statua, Remus si rigirò la bacchetta fra le dita, in nervosa attesa.
«Ti stai nascondendo, Sanguelercio? Lo schifoso mannaro addomesticato di quel vecchio di Silente se la sta già facendo sotto?» lo schernì Dolohov, alzando il braccio e puntandolo verso la statua.
Remus arricciò irritato il naso, ma rimase al proprio posto, immobile.
«Dimmi, quella troia Mezzosangue di tua moglie è a conoscenza dell'abominio da cui si fa fottere?».
«Idiota» mormorò fra sé Remus, muovendo con incredibile rapidità la bacchetta.
Il grande arazzo appeso alla parete si staccò con uno fragoroso strappo e si scagliò con potenza contro Dolohov, che venne sommerso dalla stoffa e cadde a terra. Remus tenne la bacchetta puntata contro il proprio avversario, in modo che restasse schiacciato al pavimento dal ricamato ornamento.
«La tua abilità come duellante è scandalosamente peggiorata, Dolohov. E non è che l'ultima volta in cui abbiamo combattuto fosse un granché» commentò acido, calciando lontano la bacchetta del Mangiamorte. «Dimmi, quello schifoso del tuo padrone è a conoscenza dell'incapacità dell'imbecille che ha arruolato?».
Un agitato mormorio incomprensibile si levò dall'arazzo. Remus suppose che il Mangiamorte stesse tentando di Appellare la propria bacchetta, nonostante fosse un tentativo pressoché impossibile, dal momento che non poteva avere idea verso quale direzione indirizzare l'incantesimo.
«La mattina in cui trovai i corpi di Gideon e Fabian Prewett fu uno dei più brutti della mia vita» sentenziò gelido Remus. «Credo di non aver mai assistito ad un esempio di così perversa infamia. Ricordo chiaramente ogni ustione impressa sui loro corpi. Ricordo il modo in cui hai disonorato i tuoi nemici. Vedere le loro carni bruciate e i loro occhi mangiati dai corvi fu un oltraggio che giurai di ricambiare, Dolohov» aggiunse con disprezzo. «Lacarnum Inflamare».
Un piccolo fuoco s'appiccò improvvisamente ad uno degli angoli dell'arazzo. Mentre osservava il proprio incantesimo espandersi lentamente, Remus lanciò un'ultima occhiata glaciale al Mangiamorte, che aveva iniziato a dimenarsi frenetico.
«Ci rivediamo all'inferno».

«Aberforth!» gridò Tonks, rincorrendo il manipolo di studenti guidato dal vecchio mago.
Fece uno scatto fulmineo per raggiungerlo e si adeguò al suo passo, fiancheggiandolo. Lui le lanciò un'occhiata veloce, mentre saltava una testa di gargoyle di pietra in mezzo al corridoio.
«Ci sono dei problemi nella parte della torre nord!» le comunicò lui. «Questi stronzi hanno una cavalleria di giganti!».
«Merda!» imprecò Tonks, mentre sollevava la bacchetta e faceva esplodere una scala a diversi metri di distanza, lungo la quale stavano per scendere un paio di Mangiamorte incappucciati. «Io devo trovare Remus, Aberforth!».
«Non mi pare proprio il momento di giocare a Giulietta e Romeo, ragazza!» latrò lui, mentre incantava delle armature un po' ammaccate affinché si frapponessero alle loro spalle.
«Fanculo» ribatté lei, piccata.
Corsero fino al colonnato che portava nel cortile e trasalirono quando l'eco di un potente ruggito si levò dalla parte opposta del muro esterno del castello. Si nascosero dietro un angolo e sbirciarono in direzione dell'entrata principale del castello. Una folla di persone stava combattendo davanti ai cancelli scardinati: Tonks riconobbe parecchie divise da Auror, ma da quella distanza le era impossibile riconoscere i propri colleghi.
«Che cazzo stai aspettando, Aberforth?».
«Hagrid» rispose brevemente lui. «Ha detto di avere una sorpresa per quei bastardi ed è sparito nella Foresta Nera».
Tonks emise un gemito a metà fra lo stupore e la preoccupazione.
«Adesso sì che sono davvero tranquilla» borbottò sarcastica.
Il suo viso si irrigidì improvvisamente e la mano che impugnava la bacchetta si strinse con tale forza che le nocche sbiancarono. Bellatrix Lestrange aveva appena fatto la sua comparsa nella battaglia che infuriava ai pochi piedi da loro e aveva già sfoderato il suo mortale arsenale di Maledizioni Senza Perdono. Un uomo si stava già contorcendo implorante ai suoi piedi e Tonks scattò istintivamente in avanti. Aberforth la bloccò con violenza e la costrinse a tornare al proprio posto.
«Che diavolo pensi di fare, eh!?» la rimproverò aspro. «Sei venuta per farti ammazzare o per esserci utile?».
«Lasciami andare!» protestò rabbiosa Tonks, dimenandosi nel tentativo di liberarsi dalla sua stretta. «Voglio uccidere quella puttana!».
«No, tu vuoi farti uccidere, stupida! Non puoi competere con Bellatrix Lestrange!».
Tonks gli rivolse un'occhiata assassina.
«Io valgo dieci volte quello che vale lei!».
«Lo diceva anche quell'irresponsabile di tuo cugino e guarda che bella fine ha fatto!».
Con furiosa energia, Tonks riuscì a svincolare da lui.
«Vaffanculo, Aberforth!» strillò, lanciandosi oltre il colonnato e correndo indiavolata in direzione dei cancelli. «Vaffanculo!» strillò di nuovo, lanciando una potente maledizione contro Bellatrix Lestrange.
Il colpo arrivò con estrema brutalità, ma risultò non essere altrettanto preciso. S'infranse con un boato a pochi centimetri da Bellatrix, che dovette gettarsi a terra per evitare di restare coinvolta nell'esplosione. Se l'incantesimo l'avesse colpita, le sarebbe probabilmente stato fatale. Quando rialzò lo sguardo furente e vide chi l'aveva scagliato, le sue labbra tremarono appena e si storsero in un ghigno di inumana malvagità.
«Oh, sì...» mormorò con folle gioia, rialzandosi in piedi e allontanando con un calcio violento l'uomo accucciato ai suoi piedi. «Sì, viscida Mezzosangue. Sei tu che ero venuta a cercare».
Con il respiro affannato, Tonks sollevò di nuovo la bacchetta, pronta a colpire una seconda volta.
«Ho i saluti del tuo sporco papà da recapitarti!» le gridò con un ghigno Bellatrix, inclinando la testa come una leonessa che fiuta la propria preda. «Te li manda dal regno dei Morti!» rise selvaggiamente.
Tonks si sentì invadere da una rabbia incontrollabile e smise di respirare, mentre i capelli rosa viravano verso un tetro colore scuro.
«Muori, puttana!» urlò, scagliando un'Anatema Mortale verso la Mangiamorte.
Bellatrix mosse la bacchetta con rapidità e frappose fra lei e la maledizione il corpo svenuto dell'Auror che aveva torturato fino a qualche secondo prima. Tonks trasalì quando si rese conto che il proprio incantesimo lo avrebbe colpito, ma era troppo tardi per modificarne la traiettoria. Il corpo del mago rimase avvolto da una luce verde un labile istante ancora, prima che Bellatrix lo scagliasse con foga verso la propria avversaria. Tonks si gettò di lato per evitare l'impatto e s'irrigidì nel sentire il chiaro schiocco delle ossa che si frantumavano. Non riuscì a trattenersi dal guardare quale dei suoi colleghi avesse colpito. Di sfuggita, scorse una lunga chioma di capelli corvini stretti in una coda.
Williamson” si disse, stringendo con un moto di ardente dolore gli occhi lucidi. “Dio, dove cazzo sei finito?”.
Bellatrix aveva appena alzato il braccio per colpirla, quando le mura attorno a lei crollarono con un assordante rumore, facendola scomparire dallo sguardo di Tonks. Alle sue spalle, decine di gigantesche Acromantule stavano artigliando con le loro zanne Mangiamorte e Auror, senza alcuna distinzione di schieramenti. Prima di scappare in direzione del Salone d'Ingresso, Tonks ebbe appena il tempo di sentire le urla strazianti di un uomo incappucciato, intrappolato da una delle creature, prima che questa addentasse la sua testa con un acuto verso raggelante.
Si diresse a perdifiato verso la porta d'ingresso, controllando che nessuna delle Acromantule la stesse seguendo. Mentre oltrepassava la soglia, qualcuno le agguantò il braccio sinistro. Ruotò istintivamente su se stessa, alzando prontamente la bacchetta.
«Ferma, Tonks!» la rassicurò spaventato Charlie, tirandola verso il muro e trascinandola attraverso l'affollato Salone d'Ingresso.
«Cosa sta suscedondo là fuori, Tònks?» chiese una voce tremante alle sue spalle.
Tonks si voltò per vedere il bel volto di Fleur, sporco e insanguinato, osservarla con incontenibile ansia. D'un tratto, i suoi grandi occhi celesti si sgranarono dallo stupore.
«Tònks?» ripeté. «Che sci fai qui!? Remùs ha detto che eri a casa con tua mamàn e il piccolo Teddì!».
Tonks scosse il capo con veemenza.
«Non ce la facevo a restarmene a casa» rispose laconica. «Hai visto Remus?» domandò impaziente a Charlie.
«Sì» annuì il ragazzo. «L'ho visto mentre aiutava Kingsley a respingere uno o due di quei dannati giganti. Cosa c'è là fuori che fa tutto questo casino?».
«Acromantule» spiegò francamente Tonks.
Charlie e Fleur spalancarono gli occhi.
«Roba di Hagrid, vero?» domandò lui con un'inappropriata smorfia divertita.
«Naturalmente» lo liquidò Tonks, guardandosi febbrilmente intorno. «Da che parte è andato Remus?».
«Non ne ho idea, ma l'ho sentito urlare a Kingsley qualcosa riguardo ad un paio di gargoyle di pietra. Forse, si stavano dirigendo verso l'ufficio del Preside».
Con un breve cenno di assenso, Tonks fece per voltar loro le spalle, ma Charlie le bloccò per la seconda volta il braccio.
«Ehi» le disse con un sorriso storto. «Mi devi ancora dieci galeoni. I Cannoni di Chudley hanno stracciato le Holyhead, nella scorsa partita».
Tonks lo fissò in silenzio qualche secondo, prima di rivolgergli uno sguardo grato.
«Domani salderò il debito, bastardo» concluse con una smorfia, prima di salutarli con un movimento della testa e scattare in direzione del secondo piano.
«Ci conto, Tonks!» gridò la voce tuonante di Charlie. «Tienilo a mente, svampita di una Tassorosso: voglio che tu ci sia, domani!».

Remus era tristemente consapevole di come fosse già piuttosto provato: l'ultimo duello con Rabastan Lestrange gli era costato parecchio. Aveva cercato di medicare un'orribile ferita al fianco sinistro con una fasciatura approssimativa, ma questa continuava a sanguinare e a provocargli massacranti spasimi. Strinse i denti per soffocare un lamento di dolore e serrò la presa sulla bacchetta, combattivo.
«Incarcerarmus!» gridò, puntando la bacchetta verso il piede destro di un Mangiamorte.
Attorno alla sua caviglia comparve una resistente fune, che frenò la sua corsa e lo fece cadere al suolo. Un paio di giovani studenti di Grifondoro piombarono improvvisamente alle sue spalle, circondandolo con le bacchette levate. Una ragazza dai folti riccioli scuri e dalla carnagione scura, che Remus riconobbe come Angelina Johnson, gli rivolse un occhiolino grato. Remus le rispose con un breve sorriso, prima di lanciarsi verso una delle rampe di scale che conduceva al piano inferiore.
Non aveva ancora raggiunto il pianerottolo, quando fu colpito alla spalla da una potente maledizione. Riuscì a stento a rimanere in piedi e, barcollando e portando la mano sinistra al braccio dolente, si voltò indietro, sollevando la bacchetta. Non riuscì a trattenere un'espressione di puro sgomento nel trovarsi di fronte il lungo e pallido viso di Dolohov. La parte destra del suo viso era irriconoscibile: il suo incantesimo gli aveva bruciato una notevole porzione di pelle, che ora brillava sanguigna alla luce tremante delle torce.
«Torna qui, mannaro!» urlò faticosamente il Mangiamorte, fissandolo con occhi alienati e scattando verso di lui. «Torna qui, figlio di puttana!».
Con una smorfia indispettita, Remus puntò la propria bacchetta contro l'ultimo gradino della scalinata.
«Dominusterra!» scandì con forza.
Le pietre del pavimento iniziarono a tremare con impeto crescente: Dolohov fu costretto a sostenersi al corrimano di marmo, ma non fu sufficiente ad arrestare la sua avanzata.
«Reducto!» gridò Dolohov, facendo esplodere la parete alla sinistra di Remus e saltando gli ultimi gradini tremanti.
Remus dovette abbassarsi per evitare di essere colpito dalle pietre vaganti e Dolohov ebbe la prontezza di sfruttare quel suo istante di vulnerabilità, centrandolo in pieno con uno Schiantesimo. Viste le condizioni del Mangiamorte, il colpo fu sorprendentemente potente: Remus fu sbalzato indietro di parecchi metri e atterrò sulla schiena con un tonfo sordo. Tentò di rialzarsi il più rapidamente possibile, ma prima che potesse riuscire a sollevare completamente la schiena, Dolohov lo stava già sovrastando.
Ghignando vittorioso, sollevò la scarpa e lo schiacciò con inaudita violenza al pavimento. Remus si lasciò sfuggire un gemito di dolore e le labbra di Dolohov – o ciò che di esse le fiamme avevano risparmiato – si arricciarono malignamente, storcendo innaturalmente la carne viva ricoperta di sangue e piaghe.
«Il tuo posto è ai miei piedi, mannaro» gli sibilò sprezzante con voce irriconoscibile, mentre alzava nuovamente la gamba e lo colpiva con forza. «Tu» riprese con un secondo calcio, «sei» aggiunse con una terza pedata, «feccia» concluse con folle impeto.
«E tu sei morto, stronzo!» strillò una voce trillante alle sua spalle. «Stupeficium!».
Un getto di scintille rosse colpì la schiena di Dolohov, che venne scaraventato lontano dal corpo di Remus e si afflosciò a terra con un mormorio gutturale.
«Remus!» gridò Tonks, saltando un paio di gradini e rischiando di inciampare nel tentativo di raggiungerlo.
Gli si gettò accanto e avvicinò la mano tremante alla sua spalla, terrorizzata dal pallore provato del suo volto. Lo aiutò a sollevarsi a sedere, sorreggendolo cauta, mentre lui gemeva piano e apriva faticosamente la palpebre.
«N-Ninfadora...» cercò di biascicare, ma si piegò in avanti con una fitta lancinante e tossì diverse gocce sangue.
«Remus!» urlò lei, spaventata.
«C-che ci fai qui?» domandò dopo qualche secondo, scrutandola intensamente e stringendole febbrile la mano.
Tonks gli rivolse un sorriso tirato e gli scostò un ciuffo di capelli dal volto.
«Non mi attira l'idea della vedovanza» mormorò con dolcezza. «Non prima di aver festeggiato il mio centesimo compleanno, perlomeno».
Remus scosse risoluto il capo.
«Sei impazzita?» sussurrò con rimprovero. «Torna immediatamente a casa».
Lei inarcò con aria ironica un sopracciglio.
«Certo. Non appena il Nottetempo passerà da queste parti».
«Ninfadora...».
«Non chiamarmi Ninfadora!» sbottò scocciata lei, aiutandolo a sorreggersi e ad alzarsi sulle gambe. «È il minimo che tu possa fare per ringraziarmi».
Remus la fissò con sguardo impenetrabile per un paio di secondi. Tonks sbuffò contrariata e ruotò gli occhi verso il cielo.
«Che altro hai ancora da rimproverarmi?» esclamò veemente.
Lui le rivolse un debole sorriso e scosse il capo.
«Non ti ricordavo così bella» mormorò flebile, carezzandole piano la guancia.
Sorridendo a sua volta, lei gli lanciò un'occhiata divertita.
«Adulatore» lo schernì.
«Avada Kedrava!» ruggì una voce acuta.
«Giù!» gridò Remus, afferrandola per le spalle e lanciandosi a terra.
La maledizione s'infranse nel punto esatto in cui loro erano qualche istante prima. Tonks si voltò rapida sulla schiena, alzando prontamente la bacchetta. Dall'altra parte del lungo corridoio, Bellatrix la fissava con sguardo infuocato. Dietro di lei, Dolohov barcollava instabile, tentando di rialzarsi.
Le due streghe decisero di colpire nel medesimo istante. I loro incantesimi cozzarono uno contro l'altro, schiantandosi contro il soffitto e le pareti, che iniziarono a frantumarsi come fossero fatti di ghiaia. Bellatrix era notevolmente più abile di Tonks, ma questa aveva dalla sua parte un corpo ancora giovane e decisamente più agile. Laddove la prontezza della prima riusciva ad eludere le difese della seconda, la rapidità di Tonks si rivelava fondamentale. Duellavano con la medesima rabbia e con lo stesso desiderio di uccidere l'avversaria; tale era la loro foga che i loro volti si erano distorti in un'espressione di furiosa grinta. Mai come in quel momento il viso a forma di cuore di Tonks aveva ricordato i lineamenti perduti della nobile casata dei Black.
«Non puoi battermi, Mezzosangue!» le gridò con sprezzo Bellatrix, scagliandole un potente incantesimo. «Nessuno può battermi! Io sono una vera Black!».
«Non dirlo troppo in giro, vecchia» replicò con duro sarcasmo Tonks, schivando abilmente il suo colpo. «Non è che sia motivo di gran vanto!».
«Non osare!».
Tonks sfoggiò un ghigno irriverente e le mostrò il dito medio.
«Fanculo» disse. «Io oso fare quel cazzo che mi pare».
Le maledizioni di Tonks si facevano sempre più letali; prima ancora di rendersene conto, Bellatrix iniziò ad arretrare, sopraffatta dall'energia molto più scattante della giovane. Euforica per la consapevolezza di essere in netto vantaggio, Tonks si lasciò sfuggire un sogghigno esaltato.
«Expelliarmus!» strillò trionfante, muovendo con un gesto lesto il braccio.
Bellatrix sgranò gli occhi mentre la propria bacchetta veniva catapultata a parecchi piedi di distanza. Paralizzata dallo sgomento, sollevò lo sguardo sula propria avversaria. Nel leggere la paura sul volto cereo della donna, Tonks non poté trattenere un sorriso di pura estasi.
«Io sono una Mezzosangue. Io sono figlia di una rinnegata. Io ho sposato un licantropo» scandì con orgoglio. «E io ti ho battuto».
Le narici di Bellatrix fremettero di indignato terrore, mentre la sua attenzione non riusciva ad allontanarsi dalla punta scintillante della bacchetta dinanzi a sé.
«Tasvidania, zia» mormorò Tonks con un sorriso di perversa soddisfazione. «Avada Ked-!».
«Abbassa la bacchetta o il cuore di tuo marito sarà la mia prossima cena, sporca Mezzosangue!».
La formula dell'Anatema Che Uccide le morì sulla punta della lingua. Raggelata, Tonks si voltò indietro, rendendosi conto troppo tardi dell'errore commesso: si era lasciata coinvolgere con tale ardore dal suo duello con Bellatrix, che aveva dimenticato dell'incredibile velocità con cui Dolohov si stava riprendendo dal suo Schiantesimo. Con la bacchetta puntata a sua volta contro il petto di Remus, il Mangiamorte osservava con malsana avidità la reazione di Tonks.
«Facciamo un gioco, ragazzina» la prese in giro con voce cantilenante, ridacchiando fra sé. «Chi vuoi buttare dalla torre ovest? Il marito o la zia?».
Alle spalle di Tonks, Bellatrix emise una roca risatina divertita.
«Butta la zietta cattiva!» rise anche lei. «E guarda come cadrà veloce il tuo animale da compagnia!».
Boccheggiando a stento, Remus sollevò gli occhi brillanti verso la moglie e le rivolse un'occhiata colma di mesta preoccupazione.
Uccidila” sillabò muta la sua bocca. “O ucciderà te”.
Con l'impressione di aver smesso di respirare ormai da ore, Tonks sbirciò di sottecchi verso Bellatrix, disarmata di fronte a lei, e poi verso Dolohov, saldamente rigido davanti a Remus. Mentre l'amara certezza di aver perduto ogni cosa le faceva bruciare gli occhi, guardò lui per un istante di eloquente silenzio, si morse il labbro inferiore e scosse affranta il capo, prima di abbassare miseramente la bacchetta. Remus chiuse le palpebre con un'espressione sconfitta, appoggiò la testa al muro e ruotò lentamente il viso verso Tonks. Dietro di lei, Bellatrix aveva già Appellato la propria bacchetta e la puntava alla schiena inerme della giovane.

«Remus?» sussurrò appena Tonks, voltandosi sul fianco sinistro e appoggiando il viso al palmo della mano. «Tu credi esisti qualcosa dopo la morte?».
Sgranando appena gli occhi per lo stupore, Remus girò la testa sul cuscino e le rivolse un'occhiata perplessa.
«Posso domandare il perché di questa domanda tanto insolita?».
Lei sollevò distrattamente le spalle, con un mezzo sorriso.
«Non lo so» rispose con sincerità. «Forse, mi sentirei più tranquilla nel sentirti dire che c'è qualcosa, in fin dei conti».
Remus la fissò intensamente qualche secondo, stringendole con ardore la mano fra le lenzuola candide.
«Non importa» le disse, baciando le sue dita sottili con solenne delicatezza. «Ti amo. E tanto mi basta».

«Ti amo».
«Avada Kedavra!».


   
 
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