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Autore: Shichan    06/03/2010    6 recensioni
Più di tutto però, forse entrambi ricorderanno le risate: ce ne sono state tante, ricordarle tutte è impossibile, ma quel calore che per un bambino è indiscutibilmente la più pura e semplice delle molteplici felicità che possono esistere al mondo, di certo quella sarà sempre lì, inconfondibile e impossibile da dimenticare.
[Death!Chara][TYL!Characters]
Genere: Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: i personaggi sono copyright dei rispettivi autori e non li uso a scopo di lucro (ma vuoi mettere che la noia uccide

Disclaimer: i personaggi sono copyright dei rispettivi autori e non li uso a scopo di lucro (ma vuoi mettere che la noia uccide?).

Tema: 53. Noi che abbiamo perso di vista perfino le cose che vedevamo, affoghiamo in un mare di ricordi. (Tabella)

Note: seconda fan fiction delle 80 (insomma, c’hai voglia te ancora); volevo sviluppare questo prompt/citazione più avanti e non come secondo. E per di più avrei altro da scrivere prima di questo. E vabbé, quando una fanfic chiama si prova a rispondere x°

2. ambientata basandomi sull’anime; TYL!Arc (visto che dopo 90 puntate mi sono degnata di capire per cosa stava la sigla “TYL”, tanto vale sfruttarla suvvia).

3. ringraziamenti per aver recensito a makotochan, pralinedetective e Litachan <33

 

 

A volte i fiori profumano di dolore

Noi che abbiamo perso di vista perfino le cose che vedevamo, affoghiamo in un mare di ricordi

 

 

Quando Ryohei arriva sul luogo dell’appuntamento, vi è solo Yamamoto fermo ad aspettare; è lui l’unico che l’ha preceduto, arrivando ancor più in anticipo.

Sasagawa normalmente direbbe che è in qualche modo estremo, ma si limita ad alzare la mano in cenno di saluto, l’altra in tasca: indossa il completo nero con il quale ormai tutti loro si sono abituati a vedersi addosso l’un l’altro.

Non ha fretta di raggiungere l’amico, francamente se considera l’occasione preferirebbe non doverlo vedere affatto; il sorriso lieve che gli rivolge quando è a pochi passi da lui, comunque, è amichevole.

Yamamoto ne è in qualche modo sollevato, per quanto la situazione permetta: quel sorriso e quel modo di fare sono degni del Guardiano del Sole che lui ha sempre conosciuto, fin da dieci anni prima.

«Sei il primo?» gli sente chiedere, e annuisce portando una mano dietro la nuca, con quel fare che si è un po’ tirato dietro da quando era un ragazzino che non capiva la differenza fra gioco e vita reale.

«Già. Mukuro forse non verrà. Hibari, se viene, magari si presenterà all’improvviso: fa sempre così, no?» sembra scherzarci su con il solito modo di parlare delle cose che ha.

Ryohei pare capirlo e assecondarlo, o magari potrebbe anche non aver colto e stare replicando istintivamente: «Probabile. Forse comunque verrà Chrome, no?» gli fa notare e Takeshi annuisce quasi subito, perché di certo la presenza della ragazza è quella meno in dubbio delle tre.

Si guardano per un attimo, e quasi si fossero messi d’accordo giocano a ritardare il momento della domanda che sanno li porterà alla realtà; preferiscono aspettare ancora un po’.

«Lambo?» domanda infatti Ryohei e Yamamoto non è da meno: «Con I-pin. Erano con me, si sono solo allontanati un attimo.» spiega.

E a quel punto è chiaro per entrambi che non possono più far finta di nulla e arginare il problema.

«Gokudera?» chiede Sasagawa quasi a bruciapelo.

Yamamoto lascia sostare un sorriso lieve se senza significato sulle labbra, portando lo sguardo lateralmente: «È lui che sono andati a prendere quei due.» rivela, riferendosi chiaramente agli ultimi membri della Famiglia citati.

 

Ryohei non sa dire se se l’aspettava meglio o peggio.

Sicuramente sono pochi, molti meno di quanti dovrebbero essere per rendere giustizia all’occasione anche se qualcosa gli dice che Sawada preferisca di gran lunga così.

Che lui non sia uno che ama attirare l’attenzione e preferisca l’affetto e la vicinanza di poche ma speciali persone piuttosto alla folla di conoscenze è stato ovvio fin da quando si sono conosciuti.

Come lui e Yamamoto avevano dato quasi per scontato, Mukuro non c’è e Hibari nemmeno, e a sorpresa per il momento non c’è nemmeno Chrome; e questo è probabilmente uno dei maggiori motivi per cui pur senza sbraitare come farebbe di solito, Gokudera sicuramente si sta infuriando dentro di sé.

A detta di Yamamoto, sarebbe meglio di no, nelle condizioni in cui versa dopo due giorni in cui si è messo a non mangiare e a incazzarsi anche con i mobili, praticamente.

Ma tanto Gokudera non ha mai brillato per la sua attenzione riguardo la propria salute, anzi; a volte c’è da chiedersi come abbia fatto a sopravvivere fino a quell’età – ma poi a Yamamoto torna in mente che il merito è probabilmente di Tsuna.

Ryohei distoglie un attimo lo sguardo dal punto in cui sono riuniti e lascia spaziare altrove gli occhi scuri: il posto ha un che di ironico, visto l’ambiente di cui fanno ormai parte e a cui si sono abituati. La mafia non è tranquilla, la mafia è spaventosa e crudele per antonomasia.

A guardare lo spazio aperto in cui sono, con il vento non troppo forte e il cielo appena appena annuvolato, verrebbe da tornare un po’ ragazzini e sdraiarsi sull’erba, e ridere per una cosa stupida.

Rotolarsi un po’, sporcarsi leggermente di verde i pantaloni magari; poi qualcuno dirà che ha fame – o Gokudera, sempre oggetto naturale di prese in giro bonarie, si lamenterà di averne le tasche piene – e allora si alzeranno e gira che ti rigira ci sarà di nuovo la folla a casa Sawada per la cena.

Con la scemucca – così lo chiamerebbe Gokudera – che strepita finché non ha il piatto pieno davanti, e solo in quel momento smette, perché o parla o mangia e su questo Lambo non discute mai nemmeno ora che è cresciuto.

Ryohei sospira leggermente: sarebbe proprio così, sì, e ci sarebbe da guardarli e chiedersi se sono davvero i mafiosi della Famiglia più potente come si dice.

Tsuna di sicuro sta apprezzando il tempo comunque: lui non è mai stato amante delle giornate grigie.

Per un attimo si è quasi perso nei propri pensieri; lo distrae Yamamoto, che si è avvicinato lentamente e gli ha posato una mano sulla spalla.

«Forse dovremmo… concludere qui.» azzarda a dire, la mano portata a sfiorare la nuca, laddove da ragazzo era un gesto di disagio; adesso, pur mantenendo in piccola parte quella sfumatura, sembra più un uomo che avverte la pesantezza di una situazione gravare sulle persone a lui care ed è cosciente che nemmeno dare il meglio di sé come ha sempre fatto per tenere unito ciò che era importante sarebbe abbastanza.

Ryohei sposta lo sguardo sugli altri, e capisce quasi al volo cosa Takeshi vuole dire: per alcuni di loro sembra davvero troppo.

Guarda I-pin che piange e si dice che da quando la conosce non è capitato quasi mai: forte degli insegnamenti di un maestro che ha venerato fin da bambina, ha sempre saputo tenere testa a Lambo, così capriccioso e infantile, e per questo spesso insopportabile.

Lei che ha sempre combattuto, ora sembra piccola e fragile, mentre le mani stringono appena la giacca di Lambo – che in quelle cose non è mai stato bravo, consolare non è facile per lui – che le circonda appena le spalle con un braccio.

Non sa confortarla, ma cerca di darle forza con un cenno, a lei che cresciuta con lui è un po’ come una sorellina che in qualche modo deve essere almeno in grado di proteggere quando lei da sola non sa farlo.

Sposta lo sguardo da lei, e lo porta un po’ più avanti, notando Gokudera: lui non piange – si caverebbe gli occhi piuttosto – ma il modo in cui le nocche sono sbiancate mentre tiene entrambe le mani strette in due pugni, e si tormenta il labbro inferiore, gli suggeriscono che lo stato d’animo è il medesimo.

Allora lui e Yamamoto si guardano, e arrivano alla stessa conclusione.

«Sono in ritardo.» sentono pronunciare nel silenzio che è caduto fra loro e che è stato interrotto fino a quel momento solo da qualche raro singhiozzo di I-pin – pochi in fondo quelli che non è riuscita a soffocare.

Si voltano all’unisono come se fossero uno solo e nel loro campo visivo rientra Mukuro: hanno il diritto di esserne sorpresi almeno per qualche istante e, quasi subito dopo, di chiedersi come mai c’è lui e Chrome invece no.

Tuttavia, quando intravedono dietro di lui anche la ragazza, la domanda muore in gola prima ancora di essere pronunciata: e laddove alcuni di loro sarebbero capaci di scannarsi a vicenda o prendere Mukuro a male parole – sono passati anni ormai da quando è diventato un fatto che anche lui sia un Guardiano, ma da lì ad essere come fratelli ci vuole ancora un po’ forse – non vola un fiato.

C’è solo qualche testa che annuisce, qualche sguardo che si posa sui due nuovi venuti per qualche istante per poi tornare altrove.

È Sasagawa ad accoglierli e non gli è difficile notare che l’espressione di Mukuro si ammorbidisce, quasi si addolcisce quando sposta l’attenzione su Chrome, il cui occhio visibile è indiscutibilmente arrossato e un po’ gonfio.

Il perché è facilmente intuibile, specie quando tira appena su col naso come se fosse ancora una bambina; Yamamoto le si avvicina, una mano va a posarsi sulla spalla, mentre lo sguardo nota che fra le mani Chrome porta un mazzo di fiori.

È piccolo, e modesto, composto solo di margherite bianche, il fiore più comune del mondo probabilmente.

Forse non poteva esserci scelta più azzeccata di quella.

Mukuro con sé non ha niente, com’è prevedibile: e per contro, se fosse il contrario a chi lo conosce come Tsuna ad esempio prenderebbe un accidente; che diamine, Rokudo Mukuro non è e non sarà mai tipo da fiori, nemmeno tra venti vite possibilmente in qualche mondo parallelo molto diverso dal loro.

Proprio no.

Anche se magari Tsuna dopo l’accidente che si prenderebbe sul momento sarebbe capace di accettarlo con una risata leggera e un po’ di disagio iniziale – al contrario di molti di loro, che si fermerebbero allo stato di shock iniziale senza mai raggiungere quello di risatina e accettazione.

A Yamamoto viene da ridere a figurarsi la scena, quasi gli pare di avercela davanti: un Mukuro con un mazzo di fiori – magari variopinti, che peggiorerebbe di molto la cosa – con il sorrisetto stampato in faccia come se fosse ovvio che si è dato al giardinaggio.

E Tsuna che lo guarda, e magari pensa che qualcosa nella sua testa a forza di botte prese da Reborn deve essersi irrimediabilmente danneggiata, sì.

Poi, eccolo lì: la mano vicino al viso, l’indice che sfiora appena la guancia in un meccanico gesto di nervosismo e disagio messi insieme, e una risatina leggera come a sostituire un verbale “dopo questa forse potrò finalmente dire di averle viste tutte”.

E in breve, Tsuna archivierebbe di nuovo la cosa, che al massimo diventerebbe un po’ strana a vedersi per i primi tempi, fino a trasformarsi definitivamente nella norma.

Sì, Yamamoto davvero può immaginarsi la scena come se stesse avvenendo lì in quel momento, specie perché le reazioni di Tsuna sono sempre state quelle da che erano studenti delle medie.

Takeshi fa un sorriso leggero, amaro; dovrebbe smetterla di immaginarsi scene simili.

Specie considerando il male che fanno.

 

 

Quel primo tentativo di andare via, mandato in fumo dall’arrivo di Mukuro e Chrome, doveva ripetersi entro breve, ma Hibari si era presentato quasi a seguito degli altri due e a quel punto si è pensato di dare tempo anche a loro.

Anche se tutti erano e sono coscienti del fatto che più si rimane, e meno voglia si ha di andare via; quello diventa l’unico luogo, l’unico legame, l’unica certezza, l’unico conforto in qualche modo.

Yamamoto ha seriamente temuto che oltre a tutto ciò di cui si stanno facendo carico rimanendo lì, dovessero prepararsi mentalmente ad uno degli sfoghi peggiori di Gokudera da che si conoscevano; specialmente nel momento in cui il Guardiano della Tempesta da che non si era mosso di un solo passo da quando era arrivato si era portato vicino a Mukuro e Chrome, fissando l’attenzione su quest’ultima.

La presa sui propri pugni, aveva notato Takeshi, era appena allentata.

«Perché hai un mazzo di fiori?» aveva chiesto, il tono vuoto e quasi sprezzante, come se il piccolo mazzo di margherite fosse un insulto, l’onta peggiore che gli avessero mai rivolto in tutta la sua vita.

Chrome non era nello stato di rispondere a tono, figurarsi litigare. Nessuno di loro lo era.

Nemmeno Gokudera, al contrario di quanto potesse sembrare o lui cercasse di far sembrare; Chrome non aveva detto niente a quelle parole.

E Gokudera l’aveva guardata, forse per qualche istante l’aveva anche odiata, e lei aveva preso per sé quell’odio, perché magari di qualcosa che la riempisse ne aveva bisogno davvero.

«Avevamo detto—»

«Me lo ricordo.» aveva pigolato lei, con tutto il coraggio messo insieme: «Sono… per le persone che non possono venire.» era stata l’unica spiegazione che aveva dato.

E per un attimo si erano sentiti feccia della peggior specie a stare lì, quando c’era chi era ancora più sfortunato e non poteva esserci affatto – la madre e il padre di Tsuna per esempio, Reborn, e Kyoko ed Haru.

Allora nemmeno Gokudera aveva trovato nulla da dire, e si era voltato mordendosi il labbro inferiore per scaricare tutto quello che non lasciava uscire ancora.

 

 

Ryohei si guarda incontro e osserva i visi degli altri.

Nel momento in cui lo fa, decide che è il caso di prendere l’iniziativa e andarsene sul serio: perciò è lui il primo a muoversi, ad avvicinarsi al motivo per cui sono lì.

Lo fa senza la preoccupazione di fare un torto a qualcuno: sa che probabilmente è anche un bene che sia lui il primo, e nessuno si offenderà, Sawada men che meno.

I passi attutiti dall’erba morbida si susseguono regolari, poi rallentano, infine si fermano; Ryohei abbassa lo sguardo e per un attimo gli torna in mente che quella non è la prima volta, che per anni, compresi quelli dell’età adulta, per guardare Sawada ha sempre dovuto abbassare lo sguardo per la differenza di altezza.

Fin dal primo incontro alle medie, per merito di Kyoko che era in classe con lui: aveva saputo riconoscere in Sawada la parte forte – quella che lui per anni aveva sempre definito estrema – quella che era tipica di lui più di quanto il ragazzo stesso non credesse.

Ne aveva riconosciuto la risolutezza, la determinazione, quelle nascoste sotto un po’ di fifa e di insicurezza per la situazione di “Tsuna il buono a nulla” in cui versava all’epoca.

Ryohei non lo aveva mai guardato dall’alto in basso in maniera dispregiativa, tutt’altro: guardava verso il basso, ma vedeva in Sawada una persona grande.

E anche ora, le cose di certo non cambiavano.

 

Un fiore bianco,

per la forza di diventare grandi.

 

Nel momento in cui vede Sasagawa muoversi per primo, Yamamoto istintivamente decide che sarà l’ultimo.

Non per chissà quali pretese, o quale particolare stato d’animo: semplicemente si è ritrovato a pensare che forse lì fra loro è giusto così.

Mukuro ha Chrome da sostenere, e Lambo mantiene ancora il braccio attorno alle spalle di I-pin, che ha calmato un po’ i singhiozzi ma non le lacrime.

Hibari forse non avrà proprio bisogno di sostegno, ma è molto probabile che persino il suo umore non sia ottimale; e di quello, beh, forse solo Ryohei sa occuparsene davvero.

A parte Tsuna, ovviamente: sia che le prenda o meno da Hibari, in un modo o nell’altro qualcosa ha imparato ad ottenerla – il “come”, per Takeshi rimane un mistero a dire la verità.

Lo sguardo istintivamente va su Gokudera, e Yamamoto sa che è per quello che deve aspettare, è per quello che deve andare per ultimo.

Perciò non si muove, quando Ryohei torna sui suoi passi, il fiore di camomilla che sosta a terra ora; e lascia che a sostituirlo siano proprio Lambo e I-pin: camminano appena più lentamente, perché Lambo si adatta ai passi della ragazza, che non ha controllo dei movimenti fluidi e decisi come di solito sono.

Il fiore che portano in mano – un caprifoglio – è uguale per entrambi, fa quasi tenerezza ed è giusto che sia così: per quanto siano cresciuti o possano crescere ancora, di certo quel che più ricordano loro sono la pazienza e i giochi.

Il solletico per chiedere scusa, per far dimenticare una sgridata forse esagerata, o magari meritata ma per la quale dispiace lo stesso.

Di certo – pensa Yamamoto – sia Lambo che I-pin ricorderanno le esplosioni: quelle di lei, col suo imbarazzo e la sua vergogna tipiche di una bambina di fronte alle persone che ammira, o alle figuracce fatte perché un po’ tonta e un po’ imbranata.

E quelle di lui, che si credeva forte, pensava di essere l’eroe e giocava a fare il killer convinto di essere il migliore del mondo; lui che aveva affrontato gli scontri credendo di fingere – giochiamo, Lambo-san vincerà sicuramente! – arrogante, e fifone, e sempre lì a piangere ogni volta che qualcosa non andava bene o come voleva.

Più di tutto però, forse entrambi ricorderanno le risate: ce ne sono state tante, ricordarle tutte è impossibile, ma quel calore che per un bambino è indiscutibilmente la più pura e semplice delle molteplici felicità che possono esistere al mondo, di certo quella sarà sempre lì, inconfondibile e impossibile da dimenticare.

 

Un fiore bianco,

per la dolcezza nel dire «mi dispiace»,

o «andrà tutto bene».

 

Un cenno di Lambo suggerisce a Yamamoto che I-pin ha bisogno di allontanarsi.

E dal momento che il loro saluto è lì accanto al fiore lasciato da Ryohei, Takeshi non vede per quale eccesso di cattiveria dovrebbe negargli di allontanarsi almeno un po’; gli fa un cenno, un leggero incurvarsi di labbra comprensivo rivolto al Guardiano del Tuono.

Li osserva mentre camminano entrambi dandogli le spalle, e si ritrova a pensare che forse da adesso quelle di Lambo diventeranno un pochino più grandi, per sostenere un peso nuovo che non è facile tenere per nessuno.

Probabilmente da adesso Lambo crescerà davvero.

A far voltare di nuovo Takeshi è un fruscio leggerissimo che viene dal punto in cui anche Lambo e I-pin hanno posato quei due fiori identici; vi nota Chrome, che vi si è avvicinata probabilmente mentre lui guardava gli altri due. Ed è altrettanto plausibile che Mukuro l’abbia guidata quantomeno nei primi passi.

Perché Chrome è cresciuta, e forse non è la ragazzina insicura che apparve per la prima volta dal  nulla durante lo scontro per gli anelli contro i Varia, ma infondo è ancora estremamente fragile.

Il fruscio che Yamamoto ha colto, è quello della carta che circonda le margherite che Chrome ha portato con sé nonostante si fosse scelto un solo fiore a testa, a propria discrezione.

Vista la motivazione data da lei, comunque, nemmeno Gokudera che sembrava sul piede di guerra ha trovato nulla da ridire; il Guardiano della Pioggia nota che lei rimane piegata sulle ginocchia, senza rialzarsi pur avendo poggiato il piccolo mazzo di fiori accanto a quelli lasciati dagli altri fino a quel momento.

Per un attimo, si sofferma a guardarla alzare un braccio in un movimento abbastanza veloce, portandolo a sfregare appena all’altezza degli occhi nel palese intento di asciugarli prima che qualcuno la noti.

Forse per rispetto Takeshi sposta lo sguardo sull’erba ai propri piedi, e coglie un mormorio da parte di Mukuro ma non lo distingue, anche se può immaginare si tratti di una parola forse di conforto rivolta proprio alla ragazza.

Quando riporta lo sguardo su entrambi, nota che Chrome ha posato anche una pervinca accanto agli altri fiori, mentre Mukuro com’era ovvio non tiene nulla in mano.

Lui semplicemente alza appena il braccio, tocca niente altro che l’aria di fronte a sé, senza chinarsi o fare altri particolari movimenti; così come si è mosso in quella posizione, Mukuro torna a quella originale, il sorrisetto che solitamente tiene su al proprio posto.

Non dice nulla.

Si volta soltanto, e con lui Chrome: differentemente da lei che si limita a tornare al proprio posto, lui si fa un po’ più in là e si poggia al muretto, lontano dalla ragazza.

A ben pensarci, rapportarsi a Mukuro o Chrome è sempre stato difficile in qualche modo, quasi più complicato che farlo con Hibari: le nuvole cambiano direzione di continuo, ma la nebbia per antonomasia era sfuggente, effimera.

C’era, ma se allungavi la mano era come se fosse scomparsa nel nulla.

Chrome e Mukuro erano sempre stati così fin dall’inizio: la loro essenza quanto i loro pensieri erano sempre stati inafferrabili, incomprensibili.

Lei forte abbastanza da sostenere la presenza di lui, eppure fragile e sola con la sofferenza di chi non era accettata dalle persone che più avrebbe voluto gli dimostrassero amore; lui che non aveva mai davvero avuto scrupoli o mostrato quella pietà che nessuno si era dato la pena di riservare al se stesso bambino che l’aveva agognata finché non aveva capito che non ci sarebbe mai stata per lui.

E che, tuttavia, aveva preso a cuore lei.

Erano due esistenze così simili, che potevano comprendersi solo fra loro; nemmeno Tsuna aveva mai potuto sostenere di capirli alla perfezione.

Si era scontrato con lui, e poi aveva accolto lei riconoscendola come qualcuno di cui potersi fidare per puro istinto, benché ne avesse notato la somiglianza, avesse compreso quel legame strano che li univa.

Tsuna aveva avuto fiducia senza chiedersi perché.

La nebbia non cambiava, e non si legava a nessuno e probabilmente lo stesso si sarebbe potuto dire in qualche modo di Chrome e Mukuro, specie di quest’ultimo: se era un Guardiano era semplicemente perché c’era interesse nell’essere tale.

Quando Takeshi, senza dire nulla, torna con lo sguardo sui fiori, lo nota: un dente di leone, che nonostante il vento leggero non si scompone, non si disperde nell’aria.

È palesemente un’illusione.

È palesemente qualcosa che non può appassire, né mutare, che rimarrà sempre lì.

È palesemente tipico di Mukuro, forse.

 

Un fiore bianco,

per un ricordo dolce dell’affetto che si cercava.

Un fiore bianco,

per quell’incondizionata fiducia in lui,

un po’ stupida in verità.

 

Quando vedono Hibari dirigersi verso quello stesso punto, più di qualcuno si sente autorizzato ad esserne in parte sorpreso.

Anche se in realtà non sanno esattamente perché: forse pensavano che al pari di Mukuro, si sarebbe presentato senza nulla – ma differentemente dall’altro non avrebbe creato illusioni dal nulla né niente del genere.

O magari, era plausibile che se anche portasse qualcosa, Hibari Kyoya non stesse a mostrarlo al resto del mondo; non sarebbe stato sbagliato, ed era anche pensiero comune il ritenersi fortunati che fosse lì con loro.

Nessuno lo avrebbe esattamente giudicato male – beh, Gokudera si sarebbe infuriato e Ryohei lo avrebbe stressato con una marea di chiacchiere su quanto non lo ritenesse giusto, ma nessuno avrebbe pensato che Hibari era “cattivo”.

Perché in fondo lui era sempre stato così: non aveva mai voluto “giocare alla famiglia” con loro, e non aveva mai nascosto il suo disappunto verso la cosa, né aveva mai mancato di sottolineare il fatto che non si era unito a loro e non lo avrebbe mai fatto.

Di Hibari eri sempre sicuro di alcune cose: del fatto, per esempio, che non si considerasse affatto parte del gruppo.

Che, se era il Guardiano della Nuvola, era sostanzialmente perché era un maniaco dei combattimenti e aveva la certezza quasi assoluta che quella posizione gliene procurasse con avversari sempre più forti. E che così, abbandonata la posizione di Presidente della Commissione Disciplinare della scuola media, proteggere la sua amata Namimori sarebbe stato ugualmente possibile.

Hibari Kyoya viveva da solo, combatteva da solo, agiva da solo; non rendeva conto a nessuno, e non importava che fossero studenti delle medie o che fossero adulti appartenenti alla Famiglia Vongola, lui avrebbe continuato ad esercitare terrorismo psicologico su Sawada Tsunayoshi indipendentemente dai loro ruoli.

Forse anche per quello Tsuna non aveva mai rivolto dei veri e propri “ordini” ad Hibari; anzi, incomprensibilmente per gli altri Guardiani, aveva sempre lasciato che agisse liberamente, a volte contestandone debolmente i metodi forse, ma senza mai osare più del dovuto.

Non che non si fosse preso i dovuti colpi come quando era un erbivoro della massa di erbivori suoi pari; tuttavia c’era stato un modo, difficile e complesso, tuttora un mistero che Hibari non si sarebbe mai dato la pena di star lì a spiegare, con il quale Tsuna era riuscito a rendere Hibari il membro della Famiglia degno di fiducia pari a quella che normalmente si designa al più devoto dei sottoposti.

Anche se lui non era affatto devoto.

Anche se per lui Sawada non era mai stato più di un ragazzino, almeno a sentirlo parlare.

Anche se la cosa più carina che gli aveva rivolto in tutti quegli anni probabilmente era stata: “tu morirai giovane, Sawada Tsunayoshi”, una delle poche volte che lo aveva graziato senza un perché dall’incontro ravvicinato con i tonfa.

Yamamoto sorride appena, di nuovo un sorriso amaro, perché di allegro non c’è nulla davvero; forse lo ha capito, il motivo per il quale Hibari Kyoya, che è tutto questo da tanti anni, cammina e si ferma, e fissa in basso come gli altri hanno fatto prima di lui.

Non si china.

E chiaramente non è certo tipo da fare un sorriso come invece ha fatto Ryohei.

Una mano in tasca, osserva, chissà cosa; lo intravede muovere labbra, ma non azzarda ad indovinare cosa può aver pronunciato.

Lascia semplicemente cadere quella che viene chiamata “Viola del pensiero”, e torna sui suoi passi, senza soffermarsi nel punto dov’era ma avviandosi con il preciso intento di andare via.

Yamamoto si dice che quell’attesa gli sta facendo avere qualche problema; perché non è da Hibari, assumere l’espressione del senso di colpa.

Quella si adatta più a Gokudera.

Perciò scuote la testa, e abbandona la figura di Hibari; dopotutto è inutile sforzarsi, visto che l’unico che sembra raccapezzarsi vagamente con il Guardiano della Nuvola – o  non avere bisogno di farlo per fidarsene ciecamente – è Tsuna, non lui.

 

Un fiore bianco,

per un ricordo come tanti,

fatto di parole che sono diventate verità –

tu morirai giovane, Sawada Tsunayoshi.

 

Quasi fossero d’accordo, quando Gokudera muove i primi passi Yamamoto e Ryohei si guardano.

Non sanno esattamente se stanno pensando la stessa cosa, ma è probabile almeno a giudicare dal rilassare appena le spalle del Guardiano del Sole e dal sospiro impercettibile che si lascia sfuggire fra le labbra quello della Pioggia.

Yamamoto si muove, seguendo i passi di Gokudera ma fermandosi a metà strada senza avvicinarsi oltre a lui.

Lo osserva, la schiena più che altro, perché da lì il viso non è visibile: Yamamoto non è mai stato particolarmente acuto nel comprendere al volo le situazioni. Certo, è indubbiamente migliorato da quando era un ragazzino.

E di certo sa cosa vuol dire perdere qualcuno di importante, e sentire di impazzire riuscendo a vedere davanti a sé nessun’altra ipotesi per sopravvivere a tutto quello oltre la vendetta.

Può immaginare come si senta Gokudera; lo ha visto annientarsi per giorni da quando è successo.

Ripetersi che è colpa sua, anche se suppone siano più le volte che lo ha pensato che non quelle in cui lo ha palesato a voce. D’altra parte Gokudera è così, fin da quando erano compagni di classe alle medie: lui mantiene le distanze.

È sempre stato quel tipo di persona che si mostra lontano e si impegna a rimanere tale; di quelli che non riescono a riporre fiducia in un’altra persona tanto facilmente, che hanno il famigerato “muro” che tanto si legge nei romanzi, quello fra sé e il resto del mondo, quello invisibile che quasi nessuno sa buttare giù.

Quello che non lo vedi, ma sai che c’è, e seriamente a volte avresti voglia di buttarlo giù a suon di pugni che non sai nemmeno tu cosa andrebbero a colpire, se questo benedetto ostacolo o se la persona stessa.

E c’è da dire che a volte, di prendere a pugni Gokudera, Yamamoto ne ha avuto voglia.

Ma in quel caso, ha semplicemente limitato se stesso ad una presenza, qualcosa che fosse lì: conosce da troppo tempo il Guardiano della Tempesta per non sapere che un approccio che lo faccia sentire oppresso o stressato è l’ultimo modo per instaurare una comunicazione con lui.

Per un attimo Yamamoto è tornato lo stupido ragazzino fissato col baseball, quello un po’ tonto che spesso alle cose non ci arrivava, o che fingeva di non esserci arrivato prendendo tutto col sorriso, come se non avesse mezzo problema al mondo.

E una volta tornato a quello stadio – il più “comodo” per il suo intento – era rimasto oltre la porta di una stanza dentro la quale qualcuno si annientava da solo, incolpandosi per qualcosa di cui in realtà la colpa non l’aveva, insultandosi, e facendosi del male.

Se solo avesse potuto, Yamamoto sospettava che Gokudera sarebbe stato capace di ferirsi anche fisicamente.

Quello era stato il momento in cui Yamamoto se ne era reso conto davvero per la prima volta, lasciando che quella sensazione strana che ti lascia un po’ stordito e confuso, lasciandoti mischiare la realtà a chissà cosa accogliendoti in uno stato simile al sonno ad occhi aperti, sparisse totalmente.

E la consapevolezza gli era caduta addosso in maniera precipitosa e spossante, con il dolore che si svegliava e si acuiva in quella percezione che sarebbe diventata a breve una certezza e che aveva già provato, ed ora prendeva finalmente forma nella sua testa al pensiero: “se ci fosse Tsuna, saprebbe come prenderlo”.

Ma Tsuna non c’era più da nessuna parte.

 

Gokudera sembra non sapere cosa fare, come un bambino che non ha idea di come ci si comporti in determinate situazioni.

Prova rabbia.

Non pensava che l’odio potesse logorare così le persone, e dire che lo ha provato, era convinto davvero di averlo già fatto: ma non era nulla di paragonabile a quello, e al tempo stesso c’è una sfumatura nostalgica – deve trattarsi della sensazione in qualche modo familiare di volerla far pagare a qualcuno, chiunque sia.

La stessa che poi lo distruggeva, quando si rendeva conto che prima di suo padre, di sua sorella, e ora dei Millefiore, il primo con cui avrebbe dovuto prendersela non era altri che lui.

Di nuovo così schifosamente debole.

Di nuovo così stupido.

E di nuovo la persona che sentiva più vicina, quella che più aveva desiderato proteggere, e rendere fiera, e veder sorridere ogni giorno della sua esistenza anche per le cose più banali non avrebbe più avuto la possibilità di fare tutto questo per causa sua.

Come in passato per sua madre: scappando di casa, Dio solo sapeva quante volte si era ritrovato a pensare che la colpa di quanto successo a sua madre fosse sua.

Si ripeteva, come un ciclo senza fine che non riusciva in alcun modo ad arrestare.

Stringe appena il pugno, di nuovo fino a far sbiancare le nocche e si morde il labbro inferiore chinando il capo e lasciando che la frangia precluda la vista della sua espressione in questo momento.

Si odia.

Si odia profondamente, tanto che se solo avesse la certezza di poter fare qualcosa in quel modo, butterebbe la sua vita in quel momento.

D’altronde non era così che diceva, uno dei patti più vecchi del mondo che la storia avesse mai conosciuto?

Non diceva: “una vita per una vita”?

Stronzate.

Nemmeno un sacrificio del genere riportava in vita le persone, non lo avrebbe mai fatto; non importavano né le preghiere, né le speranze, né quanta fede si potesse avere e trovare in se stesso o negli altri.

Non sarebbe cambiato nulla.

Il fatto che il Decimo non sarebbe più tornato, non avrebbe più rivolto loro il solito sorriso gentile e accondiscendente, o le parole che sembravano assicurare – senza alcuna reale certezza in realtà, ma quando parlava non potevi fare a meno di convincertene – che sarebbe andato tutto bene comunque.

Non sarebbe tornato quel modo di fare un po’ impacciato, strascico di quando era un ragazzino che rivoleva la sua vita normale, senza sentirsi costretto a diventare un Boss della mafia.

Non sarebbe tornata la sua lealtà verso gli amici, la gentilezza che Gokudera aveva dapprima invidiato e dalla quale poi si era sentito avvolgere e proteggere, nell’unico modo che il Decimo aveva sempre conosciuto e utilizzato, spesso anche inconsapevolmente.

Lui non aveva mai protetto qualcuno con la violenza o con la forza, anche quando ne era diventato in grado aveva cercato di evitarlo quanto più possibile – ed eccoli lì i risultati.

Il Decimo non sarebbe più tornato.

E tutto per quell’indole di fidarsi, e fidarsi, anche di chi la fiducia non se la meritava affatto; quell’indole che Gokudera conosceva meglio di chiunque altro, che aveva impiegato molto tempo a capire pienamente, e che poi aveva ammirato dal profondo del cuore e con tutta la sincerità possibile e che aveva scelto di proteggere.

Perché il Decimo era troppo buono per il mondo in cui poi si era ritrovato a vivere.

E invece non era riuscito a fare nemmeno quello, ed ora dell’erba cimina – che poi perché chiamare dei fiori “erba”, cazzo – posata vicino ai fiori già lasciati da altri sembravano ai suoi occhi niente più di un’ipocrita richiesta di essere perdonati.

Lui non voleva alcun perdono.

Non se lo sarebbe concesso nemmeno in punto di morte.

Nemmeno il perdono riportava in vita le persone, nemmeno l’espiazione, nemmeno la disperazione l’avrebbe fatto.

Nemmeno quella sua decantata, fottuta devozione.

 

Un fiore bianco,

per non riuscire ad alzare lo sguardo,

e dire addio.

 

Yamamoto questa volta non aspetta che chi è vicino ai fiori torni sui suoi passi per avvicinarsi e prenderne il posto, in quell’alternarsi che hanno portato avanti fino a quel momento.

Semplicemente si avvicina, come se Gokudera non fosse lì, come se fosse già tornato indietro; anche Takeshi come tutti gli altri ha un fiore con sé – lui ha optato per un bocciolo di glicine – e passa accanto al compagno, passa oltre e china lo sguardo.

Non gli piace particolarmente l’idea di una lapide come tutte le altre: infantilmente gli suona fredda e vuota, sentimento che cresce quando pensa al fatto che quella cosa è tutto ciò che di materiale rimarrà a simboleggiare quello che a conti fatti può considerare il suo migliore amico.

Accarezza con lo sguardo gli ideogrammi del nome, che non è affiancato da nient’altro: nessuna dedica, nessuna foto, anche se lì in Italia è usanza come in molti altri paesi occidentali.

Loro invece hanno optato volutamente per qualcosa completamente in stile giapponese.

Yamamoto si china appena a poggiare il proprio fiore accanto a quelli dei suoi compagni, in silenzio: potrebbe pensare a diverse cose, ma forse ne ha ricordate fin troppe già fino a quel momento.

E non c’è bisogno di quello per sottolineare che Tsuna gli mancherà, e che considera quella perdita pari a quella del proprio padre.

Voltandosi appena lateralmente, poi, incrocia lo sguardo di Ryohei e gli torna in mente ciò che per un attimo stava dimenticando: tocca a lui e al Guardiano del Sole cercare di sostenere la Famiglia in quel momento.

Non c’è nessun altro che sia in grado di farlo, tra i membri più giovani, quelli di poche parole per consolare e quelli che invece ne sono usciti fin troppo distrutti.

Sorride appena, in maniera lieve; un regalo per Tsuna, che sopra ogni altra cosa odiava vedere gli amici in difficoltà, o che soffrivano.

Dunque si volta con l’intento di non tornare sui suoi passi, conscio di poter crollare se lo facesse.

Incrocia la figura di Gokudera di fronte a sé per la prima volta, visto che non è mai riuscito ad intravederne chiaramente il volto fino a quel momento.

Lo guarda, in silenzio, e forse Gokudera capisce che Yamamoto sta aspettando che volti le spalle a quella lapide.

Mentre gli dà il tempo di farlo – suppone che per Gokudera, ora più di prima, la sola idea di dare le spalle a qualsiasi cosa sia collegata a Tsuna debba essere un pensiero quasi insopportabile – Takeshi rilascia con naturalezza la fiamma dal suo anello, portando la mano ora libera dal fiore in tasca per estrarne uno dei box.

 

Un fiore bianco,

per dire: «Non preoccuparti,

in qualche modo supereremo anche questa.»

 

Quando Yamamoto rimette il box in tasca, qualche goccia di pioggia inizia a scendere, trasformandosi in breve in una più fitta.

Ryohei stira appena le labbra, e si volta per primo, forse per dare il coraggio di andare via da lì per quanto doloroso possa essere per tutti loro.

Yamamoto vede Gokudera ancora fermo, immobile, e mentre con la coda dell’occhio coglie Chrome che muove qualche passo incerto per andare via – Mukuro le è accanto, Hibari invece sembra intenzionato momentaneamente a lasciare che la pioggia lo bagni dalla testa ai piedi senza preoccuparsene granché – gli si avvicina di qualche passo.

Lo affianca, e non dice nulla, si limita solo a portare una mano sulla testa del Guardiano della Tempesta, insinuando appena le dita fra i capelli in un leggero arruffarglieli.

Come un gesto rivolto ad un bambino.

«Andiamo. Non c’è altro che dobbiamo fare qui.» è l’unica cosa che si permette di pronunciare.

 

 

Alla base dell’unica lapide con ideogrammi giapponesi, ci sono sette tipi di fiori tutti diversi fra loro, come unica cosa ad accomunarli il colore; uno di essi è persino un’illusione che non muterà mai nel tempo.

Sono il saluto di persone diverse fra loro, come unica cosa ad accomunarli la persona a cui il saluto è rivolto.

 

 

Deliri di un’autrice;

mi sono seriamente fatta del male psicologico per scrivere tutto ciò.

E contavo pure di farla corta, cioè, due parole. Ma come al solito, tu dici “introspezione depressiva”, Shichan risponde “yay” e ci si getta a volo d’angelo – e mai che siano cose brevi. Damn.

Comunque, note inutili per i più curiosi: i fiori lasciati dai baldi giovani e le due donzelle, sono tutti fiori di vari colori ma che hanno possibili esemplari bianchi.

Rispettivamente (per i significati) Ryohei regala un fiore di camomilla, dal significato di “forza contro le difficoltà”.

Chrome dona una pervinca, dal significato di “un dolce ricordo”.

Mukuro crea l’illusione di un “Dente di leone”, dal significato di “fiducia” – a discrezione se quella di Tsuna verso di lui, o eventualmente (con molti processi mentali per assimilarla) quella di Mukuro verso Tsuna x°

Hibari lascia una “viola del pensiero”, dal semplice significato di “ricordo”.

Gokudera lascia l’”erba cimina”, che nonostante il nome è comunque un fiore e significa “devozione assoluta”.

Infine, Yamamoto lascia un bocciolo di “glicine”, dal significato di “amicizia disinteressata”.

In generale, le margherite sono simbolo di purezza, semplicità e altri vari sinonimi che mi sembrano calzare col modo di essere di Tsuna.

E finalmente vi lascio andare, se siete arrivati fin qui non vincete nessun premio, ma l’autrice vi amerà tanto e vi ringrazia ù_ù”

 

   
 
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