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Autore: baka_the_genius_mind    06/03/2010    10 recensioni
Aoi ha sempre vissuto nel buio, al freddo e isolato dal mondo. Quando la luce per la prima volta fa capolino nel suo cuore gli sembra di morire.
Uruha ha sempre vissuto sotto ai riflettori, scaldato dall'amore e dalla famiglia. Quando questo calore manca all'improvviso gli sembra di morire.
Quale sarà il prodotto dell'unione fra Tenebre e Luce?
[Dedicata ad Aelite.]
[Terzo Capitolo: Otanjobi Omedeto, Aelite.]
[Quinto Capitolo: Auguri, Aelite. E mille volte arigato.]
Aggiunto avviso dell'autrice.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Aoi, Uruha
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Prologo •





- Uruha -




La vista di quel volto fu come una lenta e pacata sinfonia che comincia con deboli strumenti a fiato, timidi pizzicati di violini, un appena accennato borbottio di contrabbasso.

Il volume di quella sinfonia crebbe pian piano; le labbra furono l'introdursi vivace dei flauti traversi, gli zigomi alti un deciso cambio di carattere nelle viole e nei violini, la prorompente cascata dei suoi folti capelli neri l'entrata delle percussioni.

Il cosiddetto colpo di grazia si presentò a me come il paio d'occhi più magnetici in cui fossi incappato nella mia esistenza.

Un prorompente attacco di trombe e tromboni, violini impazziti, flauti rapiti dal ritmo serrato delle percussioni, i tamburi rombanti, m'era perfino sembrato di sentire delle chitarre acustiche che mi riempivano la mente delle loro pentatoniche, le loro doriche e aeloie.

L'ultima nota aveva vibrato nell'aria, incidendo il silenzio con la sua densa e grave corposità.




«Mi perdoni, non l'ho vista.»

In realtà l'avevo visto fin troppo bene. Era decisamente...complicato non vederlo, anche se faceva di tutto per passare inosservato. Nel delicato paesaggio color pastello di Kyoto lui spiccava come un'oasi in mezzo al deserto: vestito di nero da capo a piedi, se ne stava immobile come una statua, mentre il mondo girava attorno a lui. Era troppo incredibile per non essere notato.

Quando lo urtai barcollò leggermente, e quegli occhioni guizzarono rapidi come saette in mille direzioni.

Non avevo mai visto occhi del genere.

Le sue iridi erano di un azzurro stupefacente; un azzurro-grigio quasi trasparente, che si piegavano al volere di un paio di pupille color inchiostro, grandi ed ingenue.

Mi sembrò di vedere in quegl'occhi un cielo piovoso d'autunno.

«Oh, non si preoccupi. Neanche io avevo visto visto lei.»


La sua voce fu un imprevedibile colpo di grazia.


Mi parlò con voce tranquilla e pacata.

L'inquietudine di quegl'occhi s'era placata e ora essi erano vuoti e spenti, come scollegati dalla spina che li aveva resi tanto fulgidi pochi attimi prima.

«Sì, mh, okay. Beh, mi scusi ancora.»

Lui mi fece un grazioso cenno col volto, lo sguardo incollato alla mia spalla.

Perché non mi guardi in volto angelo?

Cercai rapidamente qualche scusa che mi costringesse a rivolgergli nuovamente la parola, nella speranza di vedere il suo sguardo nel mio. Avrei potuto chiedergli se si fosse male, quando il suo improvviso cambio d'espressione mi bloccò le parole in gola.

Mi allontanai in fretta da quella creatura, quasi spaventato da tanta bellezza.




Mi ero svegliato col mal di testa quella mattina: il dolore sordo mi pulsava nelle tempie, martellando come la grancassa di una batteria.

Ultimamente capitava molto spesso. La notte sognavo Maiko, sognavo quello sguardo da bambina, sognavo le sue labbra carnose e il suo corpo magro e la mattina mi svegliavo con il cranio attraversato da milioni di schegge gelide.

Maiko.

La mia Maiko se n'era andata, mi aveva lasciato indietro e solo, e io dovevo ancora rendermene conto.

Mi infilai sotto una doccia gelida senza neanche togliermi il pigiama e quello mi si incollò alla pelle. Il lento martellare crebbe d'intensità, fino a raggiungere livelli insopportabili, prima di scemare veloce com'era aumentato.

Quando entrai in cucina avvolto da un accappatoio bianco, il telefono accanto al frigo lampeggiava.

«Kouyou, sono Yasuko, chiamami.»

«Sono Kawada. Chiamami quando puoi.»

«Kouyou, sono io...» una pausa lunga un sospiro inframmezzò il terzo messaggio in segreteria «...tuo padre chiede tue notizie. E le tue sorelle...» altra pausa «...chiamaci. Ti prego, Kouyou, chiamaci

«Shunsuke. Manoscritto.»

Ridacchiai. Il mio manager era sempre molto avaro di parole, in particolar modo al telefono: a taluni poteva sembrare un essere viscido e mellifluo, ma era un uomo eccezionale, professionale e totalmente dedito al suo lavoro, che svolgeva con impeccabile precisione.

Era stato l'unico, e di questo non avrei mai smesso di ringraziarlo, ad ignorare la mia perdita. Semplicemente mi aveva inondato di una così gravosa mole di lavoro che non avevo quasi avuto tempo di pensarci.

E ciò mi era stato di fondamentale importanza.

Sommerse il mio vile piano -di cui molto probabilmente aveva sentito il fetido odore solo a guardarmi in faccia la prima volta che mi aveva visto dopo la Sua scomparsa- con interviste, apparizioni in tv e alla radio locale; sapeva che non mi sarei mai permesso di fare brutta figura in pubblico e sfruttò questa mia vanità per togliermi dalla testa quel tarlo maledetto.

Il suo successo fu palese.

La prima ed unica volta che ripensai al suicido, dopo quella folle settimana, rimasi talmente spaventato che ingollai tanti calmanti da rimanerne quasi stordito, riuscendo quasi a raggiungere l'obiettivo che mi ero prefissato giorni prima e che solo quella sera avevo totalmente abiurato.

Solo Shunsuke aveva capito che il reale motivo di quel mio gesto era stato dettato dal bisogno di spegnere il mio cervello e smettere di pensare almeno per qualche ora, e non dalla voglia di togliermi la vita.

Ciononostante bastò rivedere il Suo volto in una foto, una domenica mattina in cui, preso dall'impeto dell'ispirazione, cercavo dei fogli bianchi in un cassetto, perchè mi accorgessi realmente di averla persa per sempre.

E così era cominciata quell'atroce serie di incubi, quelle emicranie da flebo, i pomeriggi prigioniero delle violente fitte che sembravano squarciarmi il cervello in due, rannicchiato sul mio letto in lacrime, le apatiche giornate passate a camminare silenzioso e cupo come un'ombra nel mio appartamento.

Il cielo era nuvoloso quella mattina.

Lo osservai con indolenza dalla finestra della cucina, prima di rendermi conto che erano giorni che non facevo la spesa e che gli spuntini della rosticceria sotto casa che Shunsuke mi portava quotidianamente non sarebbero bastati a lungo.

La carcassa del mio ultimo pranzo rendeva ancora più desolante la mia cucina.

Con una flemma che io stesso trovavo snervante mi spogliai dell'accappatoio e indossai degli abiti puliti, sciacquandomi poi accuratamente il volto e pettinando con indolenza i mie lunghi capelli scuri.

A Maiko erano sempre piaciuti corti.

Io li avevo fatti crescere dopo la sua partenza.

Febbraio quell'anno era freddissimo.

Mi infagottai in un'ingombrante serie di magliette e maglioni, che coprivano a stento il mio corpo magro e uscii nel gelido abbraccio invernale.

Sulla via del ritorno capitai nel parco.

Quel posto non aveva mai rappresentato altro per me, se non un semplice giardino pubblico, verde e pulito come lo erano migliaia di altri luoghi del genere.

Tuttavia ne conoscevo a memoria la sommità della grande fontana che troneggiava nel mezzo di quei folti ciliegi. Si vedeva così nitidamente dalla finestra del mio salotto, anche nei giorni di nebbia, che avevo perso pomeriggi interi a guardare l'acqua che ne sgorgava incessantemente; il resto della struttura era coperto dalle fronde degli alberi, ma la cima era impressa a fuoco nella mia mente.

Mi prese l'incredibile voglia di vedere la base di quella sorgente; abbandonai la spesa in mezzo al marciapiede e mi diressi ad ampie falcate verso l'interno del parco, con la gioia malcelata di un bambino a Natale.

L'interezza della fontana era così semplice e sobria da lasciarmi senza fiato.

Feci qualche piccolo passo indietro, quasi folgorato da quella comune visione e inciampai nella svolta decisiva della mia esistenza.








- Aoi -




Ebbi un attimo di folle smarrimento, quando mi venne addosso.

Abituato com'ero a camminare costantemente sul filo del rasoio, anche il minimo colpo di vento mi faceva trasalire, come fossi una timida fogliolina ancora tenacemente attaccata al suo ramo ma destinata a venir sopraffatta dal mondo.

«Mi perdoni, non l'ho vista.»


La sua voce fu il calore dolcissimo di un fraterno abbraccio.


Cercai di voltarmi verso dove avevo sentito provenire quella dolce e roca melodia. Non era sempre molto semplice questo trucchetto per nascondere la mia natura, ma per qualche istante di convenevoli bastava largamente. Bastava fingessi di essere distratto, o freddo, o indifferente, o un cinico bastardo che se ne frega di chi ha appena urtato e il contatto visivo veniva a mancare. A mio vantaggio.

Perchè ora non funzionava?

L'avrei pregato di continuare a parlare finché non avessi indovinato l'esatta collocazione dei suoi occhi.

Erano vent'anni che sfioravo timidamente il mio corpo con lo scopo di costruirmi un mentale modello di essere umano (avevo continuato a toccarmi timorosamente anche quando mi ero messo con Ryo e lui mi aveva lasciato libero di servirsi di lui per i miei esperimenti) e sapevo approssimativamente dove stavano le cosiddette porte dell'anima.

Ryo diceva che i miei occhi erano impenetrabili lastre di ghiaccio, gelose guardiane della mia anima.

«Oh, non si preoccupi. Neanche io avevo visto visto lei.»

Riusciva, quell'affascinante e misterioso sconosciuto a cogliere l'ironia nella mia voce?

Stetti in ascolto per qualche secondo, pregando gli dei affinché lo facessero parlare ancora.

«Sì, mh, okay. Beh, mi scusi ancora.»

Feci un debole cenno col capo, imponendomi di placare il mio interesse.

Non si poteva restare affascinati da una voce, non in quel mondo meschino e corrotto. L'essere umano era una razza ancora troppo violenta ed egoista perchè ci si potesse fidare ciecamente del prossimo.

Ero arrivato a questa conclusione per esperienza, e l'ultima cosa che volevo era infatuarmi di una voce come uno sciocco adolescente.

Lo sconosciuto non mi interessava, per quanto la sua voce fosse...particolare, graffiata e roca, non me ne importava niente di lui.

Allora perchè sentire i suoi passi sulla ghiaia rigare la calma piatta del parco mi fece così male?




Il mondo quel giorno era buio.

Di un buio denso e corposo, come una guaina sigillata che chiudesse al suo interno ogni cosa.

Il vento mi sferzava il viso, freddo come l'aria che mi penetrava nelle ossa. Sentivo i capelli sul volto.

Ryo mi aveva detto milioni di volte che i miei capelli avevano il colore dell'inchiostro e la stessa densa consistenza. Dell'inchiostro io sapevo solamente che era liquido come l'acqua e che aveva lo stesso colore delle tenebre.

Colore, anche questo concetto mi era piuttosto astratto.

Ryo diceva che il nero era il colore del buio.

Avevo i capelli dello stesso colore del buio in cui ero avvolto? O Ryo stava minimizzando? Conosceva veramente Il Buio? Quello che lui chiamava “buio”, quando il suo Sole tramontava, era lo stesso in cui la luce non era mai e mai sarebbe arrivata? Era la stessa campana di piombo che mi avvolgeva da ormai ventotto anni?

Avevo smesso da mesi, ormai, di fidarmi di lui.

Per quanto la cosa mi rendesse partecipe del mio triste, doloroso e completo isolamento, non potevo, non riuscivo a fidarmi di lui.

Sentire la sua voce distorta in quella maniera dopo un anno mi aveva semplicemente annientato.

Fu l'unica volta in tutta la mia vita che ringraziai gli dei di avermi fatto nascere cieco. Sarei morto di dolore se li avessi visti abbracciati. Morivo ogni giorno a sentire le loro mani intrecciarsi, le loro pelli sfregarsi; non so quante volte avevo pregato di tornare indietro nel tempo, di tornare al giorno in cui avevo timidamente chiesto a Ryo di accompagnarmi in clinica per rimediare al mio errore: non gli avrei chiesto di accompagnarmi e l'avrei lasciato prima di entrare nei melmosi acquitrini di sofferenza in cui ero invischiato da circa due anni.

Sentirli sospirare l'uno nelle labbra dell'altro, sentirli gemere l'uno il nome dell'altro...mi stupivo io stesso di non essere svenuto dal dolore.




Appena fuori casa, tirai un respiro profondo. Tesi la mano verso sinistra, dove sapevo -sapevo, non vedevo- esserci lo steccato e lo afferrai, gioendo nel sentire le schegge in rilievo solleticarmi il palmo.

Una serie di fortunate coincidenze mi condusse al parco quella mattina.

Il semplice afferrare lo steccato alla mia sinistra non fu così banale come si può supporre: sarebbe bastato non trovarlo perchè tutta la sicurezza che provavo si accartocciasse sotto il peso del terrore che provavo verso il buio che popolava la mia vita fin da quando avevo memoria.

Un particolare modo di aver paura che avrebbe cancellato in un sol colpo tutta l'angoscia che mi opprimeva; non ci avrei messo niente a tirarmi indietro, appoggiare la schiena alla porta e aspettare al buio che qualcuno si accorgesse della mia mancanza.

Era la prima volta che uscivo di casa senza qualcuno. La prima in ventotto anni.

Beh, certo, se non si contava quella volta in cui avevo raggiunto il parco assieme ad Aiko.

Scesi gli scalini con una lentezza che chiunque avrebbe definito esasperante, ma che nessuno avrebbe mai riconosciuto come panico.

Mi sforzai infine di richiamare alla memoria l'esatta collocazione delle strade, la sequenza di destra-sinistra-dritto che avevo percorso assieme ad Aiko quasi undici anni prima. Non mi era molto difficile. Non avendo la mente ingombra di milioni e milioni di immagini giornaliere, potevo vantare un ottima memoria anche per i dettagli più insignificanti, che conservavo gelosamente fino all'ultimo.

Riconobbi immediatamente il parco dove avevo incontrato Ryo la prima volta.

L'odore di ciliegi era quello e ricordavo alla perfezione lo scrosciare dell'acqua della piccola e muschiata fontanella.

Sorrisi.

Undici anni che non mettevo piede in quel luogo e mi sembrava di averlo visto solo il giorno prima. Chissà come mai io e Ryo non ci eravamo più tornati dopo quel giorno.


«Hai davvero un bellissimo cane!»


Ryo, perchè mi hai abbandonato?


«Cos'hanno i tuoi occhi?»


Io mi fidavo.

Eri l'unica persona alla quale potevo chiedere aiuto senza temere che questa mi ingannasse. Neanche della mia famiglia mi fidavo tanto.


«Lascia che sia la tua luce.»


Ricordavo la presenza di alcune panchine nel parco, e quando avvertii il loro corpo metallico sotto alle dita quasi piansi dalla commozione.

Le circumnavigai con attenzione, una mano tesa nel vuoto: non avevo paura, ero certo che ci avrei trovato la nostra casa. Il nostro albero era lì, la sua corteccia ruvida e dura non aveva ceduto alle lusinghe del tempo.

Avevo diciannove anni quando Ryo ci aveva scritto sopra i nostri nomi, prendendomi una mano e facendomi sentire coi polpastrelli l'intaglio nei nostri ideogrammi.

Gli unici che avevo mai imparato in tutta la mia vita.

Se mi avessero dato in mano una penna, avrei tracciato al buio i nostri nomi come lui li aveva incisi sulla corteccia di quel vecchio albero.

Posai le dita su quella ferita d'amore.

Poi gli voltai caparbiamente le spalle, aggirai la panchina e venni travolto in pieno dalla svolta decisiva della mia esistenza.


Continua...


















Note di Mya:


Due paroline su questa nuova creaturina le devo assolutamente spendere.


Innanzitutto devo scusarmi con BlackAngel.

Non so se lo sapete, ma aveva (...ha? Sta? °-°) scritto una fic con una tematica molto simile (si chiama “Taste - Il suo sapore” e la trovo semplicemente meravigliosa); personalmente la considero una scrittrice come poche, semplicemente eccezionale, perciò mi sentivo quasi in colpa a scrivere questa fic.

Anyway, voglio sperare che nessuno consideri questa Fiction un plagio. È stata partorita dalla mia mente, non ho fregato idee a nessuno, solamente gli argomenti sono simili a quella scritta da BlackAngel. Le avevo anche scritto una mail per avvertirla/chiederle il permesso, ma forse non l'ha ricevuta. O forse la leggerà dopo. Sarebbe stato più corretto attendere una sua risposta, ma non stavo più nella pelle, spero mi perdonerai anche questo ^^

Ad ogni modo, spero che non la infastidisca: la considero una fra le migliori scrittrici del fandom (e non sono tante le persone iscritte all'albo delle eccellenze, qua dentro) e non vorrei mai che la prendesse come un'offesa.

Anche perchè, rileggendo quell'unico e doloroso capitolo, non credo di essere capace di raggiungere un livello simile e quindi veramente competere con quella meraviglia.


In secondo luogo, la dedica.

Bene, questa long è e sarà, dalla prima all'ultima virgola, di proprietà di Aelite.

Ma andiamo con ordine. Ricordate vero, quella piccola meraviglia di “Snow Scene”?

Questa è la sua controparte.

Dal momento che se aspettiamo la shot Aoi-Uruha che mi aveva chiesto lei stiamo freschi come surgelati, le offro in ringraziamento (come se davvero sperassi di poterla far bastare) quest'idea che è lì da mesi e che prima era destinata ad un altro fandom e che poi, dopo aver adottato questo fandom come secondo famiglia, avevo associata ad un gazepairing diverso. Insomma, l'idea c'era, il resto l'ho costruito attorno ad Aelite, tenendo conto dei suoi gusti e delle sue preferenze.

Per quanto sia convinta che si scriverà praticamente da sola, visto che è quasi un anno che sogno di scriverla, non prometto nulla riguardo le tempistiche di aggiornamento. Al contrario di qualcuno a caso che scrive come un fulmine, io già sono lenta di mio, figuriamoci con la catastrofica situazione scolastica che mi si para davanti al naso. Quindi, in ultima analisi, abbiate pazienza.

Un'ultima cosa.

Io considero Uruha una persona inscrittibile. Aelite sa di cosa parlo.

Non sono capace, niente da fare. Ogni volta che devo scrivere di lui o dal suo punto di vista mi viene il panico, al contrario di Ruki che ormai ho adottato come protagonista-tipo delle mie fics (infatti era lui l'iniziale protagonista di questa long).

E ci sta che me le vado pure a cercare, dal momento che in questa Fiction gli ho affibbiato un carattere a dir poco contorto.

Devo ancora capire cosa esattamente in quell'uomo mi crei tanta difficoltà, ma prometto di cercare di rimediarci. Nel frattempo, abbiate pazienza (e due).


Il titolo, Yami no Hikari, significa letteralmente “La Luce dei Buio”.

Ringrazio affettuosamente Jo-hime per l'aiuto *strizza*


Un'ultima, microbica cosina.

Se andate a vedere (magari utilizzando un documento di testo e non contando ogni singola parolina come stavo facendo io prima che chichi mi illuminasse sui miracoli di OpenOffice) vi accorgerete che in questo prologo ci sono 1180 parole per Uruha e 1180 parole per Aoi.

Non c'è nessun significato particolare, era solo uno sfizio che volevo togliermi e che mi impegnerò per tramandare anche ai capitoli successivi, per i quali prevedo la stessa divisione in due PoV.


Non dico altro, altrimenti finisco con lo svelare metà della trama: mi conosco anche fin troppo bene u.u

Fatemi sapere che ne pensate.

Un bacio,

Mya

  
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