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Autore: Eustachio    13/03/2010    5 recensioni
«Susan». Clive abbassa il tono della voce e lo rende più persuasivo. «Siamo qui per questo. Non la costringerò, ma siamo qui per questo. Mi parli dell’incidente».
Susan sospira. Si rende conto di essere praticamente nuda, messa a nudo da questa richiesta. Non è sdraiata con naturalezza sul divano. È come ritratta. E a questa richiesta sembra ritrarsi di più.
«Il treno…» inizia. Continua a guardare il parquet (ne vuole uno simile in casa, e nessuno le toglierà questo chiodo dalla testa). «Ci sono stati due treni. Il primo l’ho preso con mia sorella Lucy, a tredici anni. Il secondo era per Londra… sempre con lei. Non l’ho preso».
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio, Susan Pevensie
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Uno studio in penombra. Prima non lo era: l’uomo ha abbassato la serranda, ma non era quello il problema. La donna, sdraiata su un divanetto, fa un cenno come per scacciare una mosca. Era la finestra, il problema. La finestra è ancora socchiusa. C’è uno spiffero – uno spiffero piacevole, comunque – e l’eco di quel rumore. Non insiste.

«Va meglio?» chiede l’uomo.

«Sì». La donna mente e ripete quel gesto. Ha gli occhi socchiusi e fissa il pavimento. Il parquet è uno dei motivi per cui è tornata da questo psicanalista. La sua reputazione è messa a rischio – lo stesso Neil, suo marito, le ha detto di tornare, di insistere finché non starà meglio; lui stesso dubita della sua salute mentale e non si cura delle voci che possono girare («La discrezione è parte integrante di questo lavoro», le aveva detto lo psicanalista al primo incontro, e Neil l’aveva presa per mano e aveva annuito).

Il parquet. Vuole mettere lo stesso anche a casa sua: ecco perché è tornata da questo psicanalista, anche se non si sente davvero a proprio agio. Come buttare lì la domanda? Dove l’ha comprato? È troppo presto. Non durante una seduta, poi.

Vede i mocassini che ci passano sopra, si fermano e ruotano. L’uomo si siede sulla poltrona. Susan alza lo sguardo.

«Diceva?» chiede.

«Il rumore del treno mi ha distratta». La donna abbozza un sorriso. «Mi succede da quando… Oh sì, ecco, mi è tornato in mente: le parlavo della mia laurea. Non aveva senso continuare. Non sono mai stata molto portata per lo studio. E dovevo risparmiare, visto…»

«Perché il treno?» insiste lo psicanalista (Clive, aveva detto di chiamarlo Clive, per quanto le sembrasse sconveniente). Clive l’ha interrotta di nuovo. Non è tanto questo il problema: è la domanda. Il treno. «Non mi ha parlato dell’incidente».

«Sì che l’ho fatto» replica.

«Susan». Clive abbassa il tono della voce e lo rende più persuasivo. «Siamo qui per questo. Non la costringerò, ma siamo qui per questo. Mi parli dell’incidente».

Susan sospira. Si rende conto di essere praticamente nuda, messa a nudo da questa richiesta. Non è sdraiata con naturalezza sul divano. È come ritratta. E a questa richiesta sembra ritrarsi di più.

«Il treno…» inizia. Continua a guardare il parquet (ne vuole uno simile in casa, e nessuno le toglierà questo chiodo dalla testa). «Ci sono stati due treni. Il primo l’ho preso con mia sorella Lucy, a tredici anni. Il secondo era per Londra… sempre con lei. Non l’ho preso».

«Il treno che si è schiantato».

«Sono morti tutti. I miei genitori, i miei fratelli… sono rimasta sola».

«E il primo treno?»

«È quello che ho preso. All’inizio dell’anno scolastico, con mia sorella Lucy».

«È successo qualcosa?»

«No».

«Allora perché l’ha citato?»

«Sul treno non è successo niente. È… prima» sbuffa. «Signor…»

«Clive».

«Clive. Non ritengo opportuno parlarle di quello che è successo prima. Era solo un gioco tra bambini».

«Che c’è di male?» Clive si allunga sulla poltrona e incrocia le braccia.

«Dirà che sono pazza». In realtà intende dire: Lo dirà in giro. Lancia un’occhiata alla finestra. L’eco è scomparsa. D’un tratto ha paura che qualcuno stia origliando. Per l’amor del cielo, Susan, siamo al terzo piano.

«Abbia fiducia, Susan».

Le ci vuole qualche minuto prima di parlare, ma Clive non le fa pressione. Susan apprezza.

«È iniziato tutto con Lucy. Un anno prima di prendere quel treno, più o meno. Eravamo ospitati dal professor Kirke, in campagna, durante la Seconda Guerra Mondiale. Ci annoiavamo, sa. Giocavamo a nascondino in un giorno di pioggia, e Lucy si era nascosta in un armadio».

Clive annuisce.

«L’armadio era il passaggio per un altro mondo, il mondo di Narnia. All’inizio non volevamo giocare, ma Lucy piangeva – era piccola, molto fragile – e così ci siamo convinti anche noi. Abbiamo giocato tutti. Per un po’ è stato divertente».

«Come giocavate?»

«Creavamo storie. C’era una strega, un leone, e noi eravamo re e regine… cose da bambini».

«Vada avanti».

«L’anno seguente stavamo aspettando i nostri treni. Eravamo soli, e ci annoiavamo. Così abbiamo fatto finta di tornare a Narnia un’altra volta».

«Non avete più giocato da allora?»

«Oh no, io e Peter no. Eravamo troppo grandi. Ma Lucy e Edmund hanno continuato ancora un po’». Susan deglutisce. «Il fatto è che loro, anche Peter, ci hanno sempre creduto. Anche il professor Kirke ci aveva incoraggiato. E ha continuato anche dopo. Nonostante avessimo smesso un po’ tutti di giocare ci aveva invitato a casa sua, a noi tutti – anche ad altri ragazzi, tra cui uno dei miei cugini – per commemorare i tempi di Narnia».

«E lei non è andata».

«Era il treno che è deragliato» sussurra, distoglie lo sguardo. È nuda, si sente sempre più nuda. «E sono morti tutti. Sono morti per Narnia. Anche i miei genitori. Loro andavano a Bristol».

«Quindi non c’entravano con Narnia».

«No, affatto. Solo i miei fratelli, e il professore, e gli altri…»

«Lei dov’era?»

«Io sono rimasta a casa. Studiavo per un esame». Susan arrossisce. «E c’era una festa. Non sarei potuta andare neanche se avessi voluto».

«Non voleva?»

«No. Avevo chiuso con Narnia».

«Da quando ha smesso di giocare».

«Esatto».

«Ma suo fratello no».

«Peter? Peter avrebbe voluto continuare. Ogni volta che gli altri bambini giocavano si faceva sempre raccontare tutto. Narnia ha sempre esercitato un fascino speciale sugli altri».

«Su lei no, Susan?»

«Anche su di me, all’inizio. Ma quando ho smesso di giocare ho chiuso con tutta la faccenda. Sono andata avanti, sono cresciuta».

«Gli altri no».

«Appunto, gli altri no. Per loro Narnia è sempre stata più di un gioco».

«Intende un posto reale?»

«In un certo senso…» fa una smorfia. «In un certo senso sì. Narnia è sempre stata reale».

«Perché avete smesso di giocare?»

«Gliel’ho detto, eravamo diventati troppo grandi. Aslan…»

«Aslan?»

«Aslan era il leone, l’unico vero re di Narnia». Arrossisce sempre di più. «L’ultima volta che ho giocato, prima che finissimo, lui ha… ha parlato con me e Peter, e ci ha detto che eravamo cresciuti e che non saremmo più tornati. Dovevamo imparare a conoscerlo nel nostro mondo, ha detto».

«Quindi vi siete esclusi da soli».

«No, certo che no. È stato Aslan».

«Aslan, il leone di Narnia». Clive prende un appunto sulla sua agenda. «E chi era Aslan?»

«Il leone» ripete Susan, fissandolo a occhi aperti. «L’unico vero re di Narnia».

«Oltre il gioco». Clive sorride. «Fuori dal gioco, Aslan chi era?»

«Oh…» Susan distoglie lo sguardo. «Aslan… non ricordo. Forse Lucy. In fondo lei ha inventato Narnia».

«Lucy vi ha escluso da Narnia, quindi».

«Impossibile» ribatte Susan. «Lucy non avrebbe voluto. Lucy ha sempre voluto che partecipassimo anche noi. Lucy non ci avrebbe mai… esclusi dal gioco. Eravamo i re e le regine di Narnia, d’altronde. Non avrebbe potuto escluderci così».

«Allora Edmund».

Susan rimane in silenzio per un po’. «No» si affretta a dire poi. «La prego, parliamo d’altro. Mi mette a disagio parlare di queste cose».

Clive sospira. «Susan, lei crede a Narnia?»

«Certo che no» risponde subito. «Naturalmente non esiste. Era solo un gioco. Non esistono altri mondi, Clive».

«Questa è la Susan razionale che parla. La bambina che è in lei ci credeva. I suoi fratelli, gli altri, se si sono visti anche dopo, devono averci creduto anche loro».

«Non può essere vero» sussurra. «Non può…»

«Quando ha saputo dell’incidente?»

Altra interruzione, stavolta gradita. Narnia non può esistere. Narnia non è reale. Il treno lo è.

«Il giorno dopo. Hanno identificato i corpi e hanno chiamato a casa».

«Cos’ha pensato?»

Susan lo guarda aggrottando la fronte, gli occhi lucidi. «Cosa avrei dovuto pensare, Clive? Ero distrutta. La mia famiglia morta, morta per rievocare i bei tempi di Narnia. Tutti morti. E io avevo appena ventun’anni ed ero sola, senza più nessuno. E sentivo che se fossi andata con loro non sarebbe successo niente del genere».

«Non poteva fare niente. Il treno è deragliato, Susan».

«Lo so. Ora lo so. Ma allora avevo un dubbio. Per un istante ho dubitato e mi sono chiesta: e se fosse tutto vero? E soprattutto: se fossero morti perché non sono tornata anch’io?»

   
 
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