Dopo
le sconvolgenti rivelazioni del professor Flint mi ero chiuso in casa
di Viki a
guardare la televisione. Viki era uscita da poco, doveva fare delle
commissioni
Avevo paura. Se ero davvero un Garganta, come mi
aveva chiamato il
professore, allora non potevo espormi troppo. Avevo deciso di restare a
casa
per il resto del giorno, senza andare nemmeno
all’appuntamento con Eva, facendo
zapping di controvoglia e reso irascibile dalla mia prigionia forzata.
Cambiai
canale all’ennesimo reality show e finalmente trovai un
notiziario. Era già
cominciato, ma arrivai in tempo per la notizia fatale.
«Notizia dell’ultima
ora, è stato trovato il corpo di una giovane donna, Victoria
Potter, assassinata
in un negozio di dischi tra la sesta e la ventitreesima strada. Oltre
alla
vittima è stato trovato anche il corpo del proprietario del
negozio, Carl
Green. Un altro omicidio-suicidio esattamente simile a quello della
lavanderia
a gettoni o a quello della tavola calda. Restate in attesa di altri
aggiornamenti». Rimasi a fissare lo schermo mentre cominciava
a parlare del
campionato di calcio. Un profondo senso di alienazione mi colse
violente tra la
gola e lo stomaco. Viki… morta. Mi guardai attorno. Quella
era la casa di Viki!
Quelli erano gli spaghetti che non avevano mangiato, quelli erano i
suoi
peluche, quello il suo letto. Viki era morta. Il peso di quelle parole
mi
schiacciò. Nevermore. Quella parola mi
rimbalzò in testa all’infinito.
Non avrei più visto i suoi occhi verdi, o i suoi riccioli
rossi. Nevermore.
Non avrei più sentito il suo profumo di boschi. Nevermore.
Non avrei più
ascoltato la sua voce roca e sensuale. Nevermore. Non
avrei più
ruzzolato tra le lenzuola con lei, aspettando il mattino. Nevermore.
Poi
un’altra consapevolezza mi colpì. Quella era la
casa di Viki, la polizia
sarebbe venuta a controllare. Fui tentato di lasciar perdere la mia
insensata
ricerca alla verità. Ma si! Che mi trovassero pure! Tanto
ormai… Alla fine
l’istinto di conservazione prevalse ed uscii nel freddo.
La
neve era fredda e pungente e mi restava tra i capelli scuri come
decorandomi di
una sottile reticella di perline. Dove potevo andare adesso? Mentre
camminavo a
casaccio pensai a quello che era successo. Forse non era stato per caso
che
Viki era stata scelta come vittima, forse gli oracoli volevano colpire
qualcuno
vicino a me per destabilizzarmi. L’idea mi risultò
intollerabile. Quei pazzi
fanatici erano riusciti a rovinare completamente la mia esistenza.
Mentre
rimuginavo su questa atroce verità uno sparo
risuonò alle mie spalle.
Immediatamente la folla che mi circondava cominciò ad urlare
terrorizzata. La
prima cosa che pensai fu che la polizia mi aveva trovato, per questo fu
una
grande sorpresa vedere due uomini vestiti elegantemente ma con il volto
coperto
da passamontagna che correvano all’impazzata puntato dritto
dritto su di me.
“Gli oracoli!” pensai allarmato mettendomi a
correre. I due uomini continuavano
a sparare all’impazzata ma ebbi fortuna. Svoltai in un vicolo
appartato e vidi
che davanti a me stava una rete di recinzione che lo tagliava a
metà. Senza
esitare saltai e mi arrampicai per l’ultimo metro. Poi mi
issai, scavalcai e mi
lasciai cadere dall’altra parte proprio mentre i due
spuntavano dall’altra
parte del vicolo. Un proiettile mi sfiorò la spalla
lasciandomi un sottile
graffio rosso ma riuscii a svoltare nella via principale prima che
riuscissero
a sforacchiarmi ancora. Frenetico mi guardai intorno e notai la fermata
della
metro dall’altro lato della strada. Il semaforo era rosso ma
dovevo rischiare.
Senza esitazione mi buttai in mezzo alla strada dove le macchine
sfrecciavano a
velocità folle. Due vetture si fermarono bruscamente
suonando e venendo
tamponate dalle auto dietro. Ma l’ultima si fermò
troppo tardi investendomi in
pieno e facendomi rotolare sul cofano. Per fortuna mi fermai
lì e mi rialzai
con un leggero stordimento. Mi guardai intorno frenetico, I due uomini
avevano
scavalcato la recinzione e si stavano dirigendo verso di me. Con uno
scatto mi
rizzai in piedi ignorando le proteste degli automobilisti attorno a me
e mi
tuffai nella stazione del metrò. Scavalcai il tornello con
un salto e corsi
verso il primo treno in partenza. Subito l’agente di
sicurezza mi urlò qualcosa
dietro e si mise ad inseguirmi. Nel frattempo anche i due uomini
avevano
scavalcato i tornelli e continuavano ad inseguirmi. Veloce mi infilai
nel
vagone che stava per chiudere le porte, cosa che fece appena fui
entrato
lasciando tutti i miei inseguitori con un palmo di naso. Mi resi conto
che tra
quattro fermate sarei arrivato alla chiesa di Sant’Andrea,
doveva viveva e
lavorava Marcus. “È l’unica”
mi dissi fissando il cartello con le fermate.
Quando
arrivai alla fermata giusta scesi con cautela, se mi avevano trovato a
casa di
Viki avrebbero potuto farlo anche lì. Ma nessun killer
mandato da una setta di
fanatici adoratori di un dio pagano esistente mille anni fa mi
aspettava alla
fermata del metrò. Sempre con la stessa cautela uscii dalla
stazione e vidi
proprio davanti a me la piccola chiesa di Sant’Andrea.
Socchiusi gli occhi per
distinguere meglio la figura che stava per entrarci. Era Marcus.
«Marcus! Ehi
Marcus!» urlai cercando di attirare l’attenzione.
Lui non mi vide. Impaziente
di parlargli e notando il semaforo verde mi gettai dall’altra
parte della
strada chiamandolo. Proprio in quel momento una macchina sportiva
grigia
attraversò l’incrocio con il rosso, a tutta
velocità. L’auto mi colpì in pieno
facendomi saltare in aria. Ebbi il tempo di pensare “Deve
essere la giornata
nazionale degli investimenti, oppure sono solo molto
sfortunato” prima di
piombare come un sasso sul duro asfalto. Tutti urlavano spaventati,
l’auto
grigia non si era fermata. Lentamente il buio calò su tutto.
«Matt!».
Rose
si chinò ad esaminare il corpo di Victoria Potter. Era una
ragazza bella e
sensuale, con morbidi riccioli rossi e profondi occhi verdi che ora
però
fissavano vitrei il vuoto. Rose
soffocò
un brivido e si rialzò rivolgendosi ai suoi compagni di
squadra. «La causa del
decesso è sempre la stessa» confermò
sicura. «Si direbbe un assassino seriale»
commentò Ruphert pensieroso. «Non può
essere un assassino seriale! Gli
assassini sono diversi!» sbottò Emily irritata.
«Ma deve esserci qualcuno che
muove le fila di tutta questa faccenda, non è possibile che
tutto questo sia
casuale!» esclamò Rose convinta.
«Collins?» suggerì il rosso. Rose lo
contraddisse «No, secondo me Collins è solo
un’altra persona costretta ad
uccidere, non potrebbe essere qualche setta segreta adoratrice di
Quetnitlan?».
«Bhè… si ma…»
tentennò Ruphert. «Ma come farebbero a costringere
le persone ad
uccidere?» completò pratica Emily
«Secondo me è Collins che dobbiamo
cercare».
Emily e Rose si scambiarono uno sguardo pieno di tensione, lavoravano
fianco a
fianco solo perché era il loro compito, il loro dovere, ma
non si erano ancora
parlate chiaramente. Emily intuiva che l’amica avesse
scoperto qualcosa,
altrimenti lei e Ruphert non si sarebbero coalizzati così. E
nemmeno Rose
sarebbe stata così sfrontata se non fosse stata
assolutamente sicura di aver
ragione. D’altra parte Rose non era ancora riuscita a parlare
con il suo capo,
anche se ne aveva avuto l’occasione. Quel pomeriggio, carica
delle parole di
Ruphert, l’aveva cercata disperatamente e, non trovandola al
cellulare, era
andata di persona dove sperava di vederla. Aveva violato il suo
computer solo
per guardare la sua agenda e l’aveva seguita fino a casa di
Viki. Rose era
arrivata in tempo per vedere la bruna uscire dalla graziosa casa e le
si era
avvicinata ma poi… uno strano terrore si era impossessato di
lei. Era una paura
profonda e innegabile,più forte della paura della morte o
dei cadaveri che da
sempre Rose nascondeva. Era la paura di perdere Emily. Rose non poteva
sopportare di restare senza il conforto, i modi bruschi, le battute,
l’esigenza, il sorriso, le ramanzine e l’affetto
della sua più grande amica.
Quindi era fuggita in mezzo alla neve, lasciandosi dietro un problema
grande
quanto il mondo.
Ci
infilammo di nuovo tutti in macchina: Ruphert alla guida, io accanto a
lui e
Rose dietro, come sempre. Il rosso tentò di avviare il
motore ma quello si
spense tossicchiando. Ruphert imprecò ad alta voce
«Non è possibile! È già la
quarta volta questo mese!». Poi si slacciò la
cintura ed aprì lo sportello
facendo entrare una raffica di freddo. «Voi due restate qui,
io cerco di
sistemare la cosa». Detto questo chiuse la portiera e mi
lasciò in macchina con
Rose. Ci guardammo e la temperatura scese subito sotto la soglia di
sopportabilità. «Allora… come
và?» chiesi esitante dopo qualche minuto di
silenzio spesso come il marmo. «Credo che tu lo
sappia» fu la risposta gelida.
Fu come ricevere un pesante ceffone. Rose non mi aveva mai trattata
così, non
aveva mai trattato nessuno così. «Non capisco cosa
vuoi…». Non mi lasciò finire
la frase. «Non mi mentire!». L’urlo era
stato acutissimo, mi aspettavo che
Ruphert aprisse la porta da un momento all’altro.
«Rose…». «Mi hai usato, ti
sei presa tu il merito per una cosa che non hai fatto e mi hai mentito.
Non so
se capisci come mi sento…» continuò lei
mentre le prime lacrime scendevano
lungo le guance. «Io… io
ho…». Tesi le orecchie disperatamente.
«… paura… di
perderti». Quando completò la frase non si
trattenne e scoppiò finalmente in
lacrime. Lunghi serpenti di vetro serpeggiavano veloci sulle guance,
sugli
zigomi, sulle labbra per poi scendere lungo il mento e scomparire
dietro la
sciarpa bianca. Immediatamente scoppiai a piangere anch’io e
mi infilai nei
sedili posteriori per abbracciarla. «Scusami… non
l’ho fatto per danneggiare
te. Io mi sono preoccupata, perché non eri più la
mia piccolina, perché non ti
potevo più aiutare». Poi mi staccai
dall’abbraccio e la fissai negli occhi
tenendola per le spalle. «Per paura che ti facessi male
volando ho strappato le
tue ali, perché so che non ti potrò seguire
quando le spiegherai al vento».
Rose mi fissò incredula, persino le lacrime che le rigavano
le guance si erano
fermate. Poi ci riabbracciammo con trasporto, guancia contro guancia, e
le
nostre lacrime e i nostri sorrisi si fusero. Fu in quel momento che
Ruphert
entrò fischiettando allegramente «Il motore
è a posto, possiamo partire». Poi
ci fissò imbarazzato. «Oh!…
Ho… ehm... ho interrotto qualcosa... ?». Ci
studiammo per una manciata di secondi, in silenzio, prima di scoppiare
a ridere
tutti e tre.
Trascrissi
accuratamente la data sul taccuino e lo riposi sul piccolo scrittoio
accanto al
crocifisso. Una debole voce alle mie spalle mi sorprese.
«Vi-ki». Mi girai
entusiasta, Matt si era svegliato! «Matt!» esclamai
chinandomi sul suo
capezzale e osservandolo con apprensione. Mio fratello aveva gli occhi
socchiusi e stava tentando di rimettere a fuoco il mondo intorno a se.
«Marcus?» chiese poi con voce esitante.
«Si fratellino! Sono qui!». La sua voce
era debole e spezzata. «Cosa…
è… successo?» ansimò.
«Sei stato investito»
risposi in tono grave, per fortuna che eri davanti alla chiesa e ti ho
potuto
raccogliere io, altrimenti ti avrebbero portato all’ospedale
e da lì in
carcere. La mia voce decisa sorprese anche me, fino a pochi secondi
prima non
ero così sicuro che mio fratello fosse innocente. La cosa
non passò inosservata
nemmeno a lui. «Tu… tu mi credi?» chiese
pieno di meraviglia. «Si» risposi
senza esitazione. Questo ebbe l’effetto di tirare un
po’ su mio fratello. «Viki…»
cominciò lui, ma non lo feci finire. «Lo so, i
funerali si terranno questa
sera». Matt spalancò gli occhi e fece per alzarsi
ma una violenta fitta al
costato lo costrinse a sdraiarsi di nuovo. «Piano! Non hai
nulla di rotto ma
non puoi pretendere di uscire completamente illeso da un incidente
d’auto. Non
continuare a mettere alla prova Dio». Subito mi pentii
dell’ultima
affermazione, Matt non credeva in Dio e non gli piaceva sentirlo
nominare. Ma,
contrariamente alle mie previsioni, Matt sorrise debolmente.
«Che ore sono?»
chiese sempre con voce debole. «Circa le dieci, hai
fame?». Scosse la testa.
«Devo riposare, stasera voglio esserci».
«Ma Matt! Non puoi, di sicuro avranno
trovato il legame tra te e Viki e controlleranno che tu non ti
avvicini!». Matt
si girò fissando l’alto soffitto del piccolo
monolocale attiguo alla chiesa
dove vivevo. «Sicuramente» commentò
impassibile. «Matt! Hai deciso di
consegnarti?». «No». «E
allora?» chiesi spazientito alzandomi dalla sedia e
misurando la stanza a grandi passi. Avevo appena ritrovato mio
fratello, non
potevo perderlo ora. «Marcus, io devo andarci». Il
suo tono era calmo e
distaccato. «Perché? Capisco che provavi ancora
qualcosa per lei ma correre un
rischio così grosso è da stupidi».
«Marcus, io devo andarci» ripeté lui in
tono
piatto, poi si voltò a fissarmi. «Lei è
morta per causa mia».
Marcus
mi fissava spaventato. «Cosa?». «Lei
è morta per causa mia» ripetei con la
massima calma. Lui si prese la testa tra le mani. «So cosa
devo fare» aggiunsi
con una voce impassibile. «Hai un piano?»
sussurrò Marcus guardandomi tra le
dita. «Si, e per metterlo in pratica devo andare al funerale
di Viki stasera».
La
nebbia era sparita e restava solo una leggera neve bianca e pulita,
quasi
poetica a decorare l’aria fredda. Non c’era nemmeno
vento, o almeno nessuno dei
presenti lo sentiva attraverso i pesanti strati di vestiti. Il parroco
recitava
un discorso vuoto, non ricordavo che Viki fosse mai stata
“generosa con i
poveri” o “amata dai bisognosi”. Viki era
una persona solare, questo sì.
Simpatica, sensuale, bellissima, provocante, ospitale e generosa con
gli amici
ma estremamente egocentrica con chi non considerava importante per lei.
Quel
discorso, forse più crudo e meno splendente, mi sarebbe
piaciuto di più di
quella sfilza di aggettivi vuoti e privi di significato. Anche la
riunione di
persone mi disgustò vagamente. C’erano diverse
ragazze amiche di Viki che
discutevano animatamente mostrando le unghie smaltate e le labbra
lucidate.
C’era il professor Flint che parlottava con alcuni suoi
colleghi. C’erano la
sua affittuaria che non aveva nemmeno la decenza di parlare a bassa
voce dentro
il suo cellulare. E poi c’era una ragazza che non conoscevo
che fissava triste
la tomba. Aveva lunghi capelli color miele sciolti lungo le spalle che
risaltavano sul cappotto bianco. Mi scostai il ciuffo nero che mi
ricadeva
sugli occhi e la tenni d’occhio.
Quando
la funzione finì tutti se ne andarono parlottando tra di
loro, io no. Sapevo
che mi guardava dall’inizio del funerale, ma non avevo
intenzione di scappare.
Quando tutti se ne furono andati mi voltai e lo guardai di sottecchi.
Matt
Collins mi si avvicinò e guardò la tomba di
Victoria. «Mi dispiace» commentai
malinconica. «Anche a me» rispose lui impassibile
stringendosi nel cappotto
nero. Poi si voltò verso di me. «Lei è
Rose McDemos, ispettrice della polizia
di New York». Io sostenni il suo sguardo «E lei
è Matt Collins, ricercato per
l’omicidio di Jhon Robert Senior dalla polizia di New
York». Ci guardammo
intensamente, non servivano altre parole. «Devo
parlarle» mi disse con la sua
voce profonda. «E anche io, ma anche il commissario e
l’ispettore Alman
ascolteranno questa conversazione» replicai respirando
affannosamente. Eravamo
ad una distanza pericolosa, troppo pericolosa. «Per me va
bene» rispose lui
senza staccare gli occhi dai miei. Poi ci baciammo. Fuochi
d’artificio e
schizzi di fiamme inondarono il nostro universo freddo e sterile
aprendo
passaggi verso mondi sconosciuti. Le stelle ci passarono accanto mentre
respiravamo in perfetta sincronia e gigantesche farfalle di tutti i
colori del
mondo ci offrirono il loro doso per viaggiare fino alle porte del
paradiso.
Incontrammo Dio stesso, perché solo nell’amore
più violento e prorompente si
può trovare Dio e gareggiammo in bellezza con le alte
montagne e gli sconfinati
oceani. L’amore ci travolse come solo l’odio
può fare ma lasciandoci un sapore
di miele in bocca e un profumo di vaniglia nelle narici.
Era… bello. “Bello”
era l’unico aggettivo che poteva descrivere cosa provammo
durante quell’unico
lungo bacio. Bello. Una parola semplice, senza troppi fronzoli, ma
straordinariamente evocativa e potente. Bello.
Era mattina presto, e
Ruphert ed Emily erano corsi a casa di
Rose che aveva chiamato loro
con molta urgenza. Lì avevano trovato Matt Collins. Tra la
confusione generale
Rose era riuscita a spiegare l’intera situazione e i quattro
si erano
confrontati. Tutti erano molto interessati al racconto di Matt,
soprattutto
alla parte riguardante il culto di Quetnitlan. Poi toccò ai
poliziotti
raccontare le loro indagini. Quando infine Ruphert descrisse il suo
incontro
con Estéban Garcia Matt sobbalzò. «Cosa
succede?» chiese Rose preoccupata.
«Garcia… è lui che mi ha messo la droga
nel caffè» mormorò con voce strozzata.
Tutti sobbalzarono. «Lui… e quella setta di
fanatici…» continuò a balbettare
tra i denti. Rose esultò. «Cosa
c’è di bello?» ringhiò Matt.
«Ma non capite?»
esclamò Rose felice mentre anche sul volto di Ruphert si
disegnava un sorriso
consapevole. «Noi… » cominciò
la ragazza «Abbiamo risolto il caso!»
completò
Ruphert eccitatissimo agitando le braccia ed improvvisando un balletto
con Rose
in mezzo al salone. «No che non lo abbiamo risolto»
ribatté Matt cupo. Gli
altri due lo guardarono straniti. «E
perché?» chiese Ruphert sospettoso. « In
quale tribunale accetteranno come prova una memoria
inconscia?» commentò Emily
realista. Subito Rose e Ruphert si afflosciarono sulle sedie.
«Allora cosa
facciamo? Andiamo da Garcia e gli chiediamo gentilmente se non ha
drogato
qualcuno ultimamente per farne un oracolo Incas».
«Maya, e comunque non diventi
l’oracolo ma solo l’esecutore del…
». «Rose! Ti prego!».
«Scusa». «Io ho un
piano». Tutti si girarono verso Emily che sorrideva con
un’insopportabile aria
di superiorità. «E sarebbe?» chiese Matt
speranzoso. «Ma dipende tutta da una
cosa… quanto sei disposto a rischiare».
«Tutto» rispose il moro senza
riflettere. «Sicuro?» chiese Emily stringendo gli
occhi e fissandolo seria.
Matt chiuse gli occhi e respirò a fondo. Quando li
aprì conosceva la risposta.
«Si».
Mi
avvicinai alla porta del club esitante, loro dovevano essere dentro. Mi
accarezzai le labbra, lì dove Rose mi aveva dato quel bacio
di saluto leggero e
delicato come zucchero a velo. Presi un profondo respiro e suonai al
campanello. Dopo
alcuni minuti una voce fredda mi
rispose. «Matt Collins? Entra entra». La porta si
aprì silenziosamente. Mentre
entravo la accarezzai lievemente sentendo sotto la mano il metallo
freddo.
Dall’altra parte c’era Garcia che mi aspettava.
Vestiva in modo elegante e mi
fece un sorriso amichevole. «Benvenuto Matt Collins, ci hai
trovati
finalmente». Lo guardai disorientato.
«Cosa?». «Sapevi che dovevi venire da noi
vero, hai scoperto tutto del culto di Quetnitlan e hai saputo che stavi
per
diventare un oracolo vero?». Lo fissai con sguardo smarrito.
«Dunque tu non
sai?» mi chiese lui stupito, quasi indignato.
«Cosa?» balbettai esitante. «Gli
esecutori che non si suicidano… diventano a loro volta degli
oracoli!» mi
rivelò teatrale. Io trattenni il fiato sorpreso, ma vedevo
che mentiva. Il
tremito delle mani era incontrollabile e la fronte era imperlata di
sudore.
Dovevo stare al gioco. «Grandioso! Quindi adesso sono uno di
voi?». «Certo»
sussurrò Garcia dolce aprendo la porta che dava sul
soggiorno del club. Era
esattamente come Ruphert lo aveva descritto: meraviglioso. Oggetti di
tutti i
tipi decoravano le pareti con i quadri, le pagine di diario e i disegni
autentici dei Conquistadores. Su divani comodi e ampi stavano sedute
sei
persone, tutti con gli stessi zigomi pronunciati e la carnagione
abbronzata.
Appena entrai Garcia chiuse la porta dietro di noi e
sogghignò. «Piccolo
profano idiota! Credevi davvero che un Garganta
potesse diventare uno di
noi? I poteri sacerdotali si trasmettono solo da maestro a
discepolo!».
Immediatamente tutti gli oracoli si alzarono di scatto puntandomi
addosso le
pistole che fino a quel momento avevano tenuto nascoste. «Sai
perché ti ho
fatto vedere questa stanza?». Lo guardai spaventato.
«Sai perché ho permesso
che questi preziosi cimeli si sporcassero con il tuo sguardo
impuro?». Feci un
cenno di diniego. «Questa stanza, questa magnifica stanza,
è completamente
insonorizzata» rise Garcia, accompagnato dagli altri sei.
«E adesso sudicio Garganta,
adesso muori!».
La
polizia arrestò Estéban Garcia e gli altri
adoratori del serpente a due teste.
Gli altri tre membri che non erano presenti nella stanza furono fermati
all’aeroporto mentre stavano per imbarcarsi su un aereo per
la Turchia. La
carica di dinamite che Matt Collins aveva piazzato sulla porta blindata
permise
agli agenti di irrompere nell’appartamento del club e di fare
il proprio
lavoro. Fu scoperto un magazzino sotterraneo pieno di armi da fuoco e
di quella
strana droga bianca che trasformava le persone in assassini. Il caso fu
archiviato nel grande schedario verde dei casi risolti. In quanto a
me… Rose
McDemos, quando entrai nello sfarzoso salotto decorato e vidi il corpo
esangue
di Matt ebbi la tentazione di uccidermi. Poi Matt si alzò,
un brutto taglio
sulla guancia che sanguinava copiosamente, ma illeso. E ora, che nella
lunga
gravidanza aspetto il parto di mia figlia, ho voluto partorire anche la
storia,
bella e terribile, di come io e Matt ci siamo incontrati. Di come ci
siamo
amati.