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Autore: Melanto    25/03/2010    1 recensioni
Poi, m’ero reso conto di quanto, invero, mi sentissi in ansia all’idea di vedere il frantumarsi – perché tale sarebbe stato – del nostro piccolo mondo; la nostra isola. Una comunità raccolta di più di cent’anime, confinata all’interno della solidità della sola nave che, per un anno, c’aveva fatto da guscio – traballante, pronto a sfasciarsi, cigolante, ma pur sempre un guscio, che era riuscito a sopravvivere e farci sopravvivere tutti –, improvvisamente si sarebbe trovata dispersa sulla vastità d’un continente intero. Così enorme.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Storia scritta per la “Caccia alle uova!” di Fanworld.it
Uovo #9 | Prompt: scrivi una oneshot o flashfic di qualsiasi fandom e genere ma che sia a rating “Per Tutti”.

Questa piccola oneshot è nata per colmare un MissingMoment del libro, ovvero l’ultima veglia di Edmund e Charles. Nel Capitolo 21 del TerzoVolume della Trilogia, durante il va e vieni della gente che sta sbarcando, Edmund incrocia Charles che appunto gli dice: “Edmund. Non sei ancora sbarcato. Credevo che ci fossimo già detti addio durante la veglia di mezzo. Ciò è insopportabile.”.
Ed io, ovviamente, già alla prima lettura di questo passaggio ho sciolto Gigetto in uno squee-ante: “*o* e come sarà stato il loro addio?! E cosa si saranno detti? E…? E…? E…?”
Se di primo acchito avevo formulato qualcosa di slash, macinando sopra l’idea ho preferito lasciarla più puramente immersa nel contesto del libro. Quindi, signori miei, vi lascio con una ‘gen’. X3

 

Nutshell

Mi ritrovai all’ultima notte su quella nave in maniera così repentina da esserne addirittura infastidito.
Dopo mesi di solo mare, concatenarsi d’eventi che m’avevano indignato, ferito, fatto ridere e innamorare, immancabilmente stravolto, riuscire ad intravvedere la terra, ad ogni ora più vicina di una manciata di miglia, m’arrecava una strana sensazione alla bocca dello stomaco. Come se la carne ingollata a cena mi fosse rimasta piazzata sull’addome, decisa a sostare lì.
Tuttavia, il fastidio non s’era presentato tale da subito, giacché diversa, una strana euforia e senso comune m’avevano preso nel primo avvistamento della tanto attesa Australia.
Sulle prime ero stato felice, come tutti gli altri passeggeri, sia quelli di poppa che gli emigranti a prua. Poi, m’ero reso conto di quanto, invero, mi sentissi in ansia all’idea di vedere il frantumarsi – perché tale sarebbe stato – del nostro piccolo mondo; la nostra isola. Una comunità raccolta di più di cent’anime, confinata all’interno della solidità della sola nave che, per un anno, c’aveva fatto da guscio – traballante, pronto a sfasciarsi, cigolante, ma pur sempre un guscio, che era riuscito a sopravvivere e farci sopravvivere tutti –, improvvisamente si sarebbe trovata dispersa sulla vastità d’un continente intero. Così enorme.
Era stato quel pensiero a farmi rabbrividire, uccidendo tutto l’entusiasmo che m’aveva investito come un’onda – so che mi mancheranno le metafore marinaresche, credo che non riuscirò a liberarmene tanto presto – sulle prime.
Mentre  mi sentivo preso – a collo! – da queste pene improvvise, era alfine giunta la notte e con lei la mia ultima veglia.
Avvertii l’aria ben strana ancor prima di salire sul ponte di poppa, lo era fin dal nostro avvistamento, e continuai a sentirla tale, se non addirittura più pesante, quando giunsi al mio posto di guardia, per quell’ultimo turno.
Charles era lì; riverso in avanti e con i gomiti appoggiati alla ringhiera del ponte, guardava un punto che non avrei saputo definire, ma che era perduto tra gli alberi e la notte oltre la prua. Mi parve assorto tra dilemmi e meditazione, come troppo spesso l’avevo visto da quando erano cominciati a sorgere i dissidi con Benét. E se non era nascosto nel suo mondo mentale, allora era irascibile, scontroso. Immagini lontane del Charles che avevo imparato a conoscere ed apprezzare come amico prezioso, ed invero mi dispiacque saperlo così logorato e distante, anche con me. Che c’eravamo allontanati era chiaro ad entrambi: lui restava saldamente fermo nella sua solidità vecchia maniera, pure un po’ ottusa, a volte, mentre io avevo perduto di vista quello schematismo altezzoso con cui avevo intrapreso questo viaggio, lasciando che un ventaglio d’esperienze s’aprisse a me. Eppure, buona parte del mio ‘uscir fuori’ dal vecchio me stesso la dovevo proprio a Charles, che fu il primo a pormi davanti alle responsabilità delle mie azioni sconsiderate. A suo modo mi ha guidato, a suo modo è stato il migliore amico ch’io potessi avere per divenire ciò che ora posso affermare d’essere: una persona migliore e più matura di quella ch’era salpata.
Quando si ravvide della mia presenza, assunse una postura eretta e composta pur tuttavia lasciando trapelare una sorta di nervosismo cui io feci poco caso, essendo ormai divenuto parte del suo atteggiamento.
«Edmund.» sorrise.
«Charles.»
M’appressai alla ringhiera anch’io, pur restando all’estremità opposta alla sua. Egli non si mosse, non subito almeno, ed io finsi una sorta di normalità, come fosse una veglia di mezzo non dissimile dalle altre che avevamo affrontato insieme e la terra ancora un miraggio irraggiungibile.
Ma non era così che volevo trascorrere quella che era la nostra ultima notte come eroi della nave. Mi volsi e lo trovai a fissare la ringhiera. Una mano appoggiata alla stessa e l’altra dietro la schiena.
«C’accompagnerà il silenzio, dunque?» diss’io. Egli tese le labbra in un sorriso pur non spostando lo sguardo dal legno, sulle prime, sicché continuai. «Sono tutti in fermento. Ormai è questione di ore.»
«Lo so.»
Annotai il dispiacere nella sua voce con un certo sollievo, mentre s’avvicinava al mio lato a passi lenti. Mi si fermò di fianco, poggiandosi alla ringhiera com’ero io, in modo da avere i nostri visi a pari altezza.
«Così, è finito. Il viaggio, dico.»
«Qualcuno direbbe: “Era pur ora!”» commentai, scherzando. Lui mantenne una maggiore serietà.
«Non sono mai stato bravo negli addii.»
«Dovrà essere per forza tale?»
Sorrise, volgendosi a me con una sorta di rassegnazione nello sguardo. «Non ho mai creduto negli ‘arrivederci’.»
Immagino di aver assunto una smorfia davvero divertente perché lui rise e per un attimo vi rividi, come un guizzo, il vecchio Charles.
«Sei il solito squadrato. O tutto bianco o tutto nero, non vorrei sconvolgerti con l’esistenza del grigio.»
Rise ancora più forte, ma costringendosi a fare meno rumore possibile, visto che il nostro – a breve non più – Tiranno si era già coricato.
«Hai ragione, perdonami, ma sono cresciuto-»
«…con un’educazione votata al praticismo. Lo so.» sospirai. Charles ridacchiò e mi parve più rilassato di quanto non fosse stato al mio arrivo. Me ne rallegrai. «Quindi era per questo che avevi il broncio.»
Egli m’osservò con perplessità da sotto al bicorno. «Dispiaciuto per la fine, certo, che altro?»
«Oh, beh, per un attimo avevo temuto che Benét ne avesse fatta una delle sue.»
Charles alzò le mani come avesse voluto invocare nostro Signore. «Per carità, no! Ha già fatto abbastanza, ti prego. Mi vuoi così male? Almeno l’arrivo lascia che sia tranquillo.»
Era veramente stanco di tutto quello, glielo si leggeva in faccia, ed anche avvilito, rassegnato a ciò che sarebbe accaduto una volta arrivati a terra. Ma per la nostra ultima veglia, entrambi volevamo che non già l’ansia e la tensione della fine quanto la serenità e l’entusiasmo dell’inizio c’accompagnassero nel procedere della notte. C’era anche malinconia, ma contro quella non potevamo fare nulla.
«Cosa farai quando saremo lì?» domandai.
«Di mia iniziativa, dici? Proprio nulla. Non son io a decidere della mia vita. In qualità di Primo Tenente dovrò occuparmi dello scarico merci, che sarà già di per sé un lavoraccio frenetico. Se hai memoria di quando siamo partiti, ricorderai il disordine imperante dell’imbarco. E poi…» scosse il capo impercettibilmente. «…aspetterò ordini dalla Residenza. Ciò che mi diranno di fare, farò.»
«Anderson?»
Charles sorrise. «Se ho imparato a conoscerlo almeno un po’, tornerà in Inghilterra quanto prima.»
«Le vostre strade sono alfine giunte ad un bivio.»
«Non poteva essere altrimenti, ormai.» fissò il fondo delle prua per qualche momento, prima di poggiarmi una mano sul braccio e volgersi a me. «Ma avrai altro a cui pensare una volta messo piede a Sydney Cove. Scrollati il Capitano dalle spalle, tu che puoi.»
«Tu no?»
Tacque e per un attimo sembrò guardare oltre me, nonostante i suoi occhi fossero rimasti fermi nei miei. «Sì, certo.» sapevo che mentiva, perché era rimasto troppo ferito dagli ultimi eventi, ed il ricordo delle parole di Anderson se lo sarebbe portato dietro a lungo, come un altro dei tanti insegnamenti che, da ogni capitano o ammiraglio per cui aveva prestato servizio, aveva appreso. Nel bene e nel male.
Non dissi altro, cercando di spostare altrove il discorso. «Confesso di essere molto turbato all’idea di mettere piede sulla terra ferma.»
«Turbato?! Ti si apre finalmente la radiosa carriera per cui hai già preparato i discorsi durante la nostra traversata e ti senti turbato? Dovresti essere pervaso da frenesia del fare, piuttosto.»
«Non nego che quella arriverà, ne sono sicuro. Ma è sul momento, qui, in questo lento approssimarsi alla fase che segnerà il passaggio dal mare alla terra che mi sento… teso, inquieto.»
Egli ci pensò su, poi parlò. «E’ la rottura di un equilibrio.»
«Proprio, sì!» m’animai «Eravamo in equilibrio, noi! Tutti noi! Col mare e la nave e poi…» sollevai una mano ad indicare il nulla oltre la prua. «Terra.» lo trovai così frustrante che sospirai con forza.
Accanto a me, Charles fissò anch’egli l’immaginario punto ch’io avevo additato. «I gusci non sono destinati a durare in eterno, per quanto lo vorremmo, e noi non possiamo oltremodo nasconderci all’interno di un’ipotetica noce, ma siamo costretti a fronteggiare ciò che ci si presenta davanti in una sorta di continua battaglia.»
«E’ pessimistico quello che dici.»
«Lo so.» mormorò di rimando.
«Ma ciò non toglie che sia così.» convenni ed il silenzio c’avvolse di nuovo per lasciarci meditare sulle nostre parole e paure, speranze anche, doveri e attese, tutto quello che ora restava nascosto nel cuore della notte ma che al mattino sarebbe divenuto sì vicino da essere impossibile da ignorare e fingere distante di un ipotetico giorno ancora. Non potevamo rimandare l’incontro con quello che, lo sapevamo entrambi, si chiamava Destino.
«Comunque» Charles assunse una postura dritta, rivolgendomi uno sguardo d’appoggio e sostegno. «Non dubito che te la caverai benissimo, amico mio. Hai addirittura già pronti una decina di discorsi! ‘Onorevoli colleghi…’» mi fece il verso e non riuscii a non riderne mentre il tempo sembrava aver corso all’indietro a poche miglia dal suo scadere. Poi Charles mi tese la mano. «E’ stato un onore ed un piacere, Edmund Talbot.»
Lo fronteggiai. Le nostre dita s’avvolsero in una stretta forte e virile, amica, com’io non avrei mai potuto dimenticare. «Anche per me, Charles Summers.»
Verso Est, il sole era ancora lontano dal sorgere, lì, ai confini della Terra, e noi ci godemmo, per quelle ultime, piccole ore, il riparo e la sicurezza del nostro guscio di noce.

 

Fine

Mi rendo conto che questo fandom sa farmi diventare incredibilmente filosofica.
Eh *sospiro* sono belli.

   
 
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