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Autore: Farrah Wade    27/03/2010    4 recensioni
Essere genitori non è mai una cosa facile. Spesso si devono prendere decisioni difficili riguardo ai figli. Quante volte per "fare del bene" si deve "fare del male", rischiando di essere fraintesi e addirittura odiati dai propri figli? Ne sa qualcosa il dottor Philip Price, che oltre a dirigere un ospedale, si troverà alle prese col non facile carattere dei suoi gemelli. La sofferta ma necessaria decisione di mandarli a studiare in un collegio adatto al rango della famiglia scatenerà una serie di terribili eventi che vedranno coinvolti i suoi figli e una strana "allucinazione" che lo porterà a dubitare della loro sanità mentale e rivangare alcuni segreti celati da tempo dal nonno dei gemelli, il primario ormai in pensione Preston Price. Genitore austero e brillante medico, Philip cercherà sempre di fare "la cosa giusta" finendo inevitabilmente col fare quella sbagliata.
Genere: Drammatico, Slice of life, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Segreti di Famiglia


                                                                                     

Capitolo 1


La porta della biblioteca si spalancò all’improvviso e i tre occupanti si girarono per vedere cosa stava succedendo.
Qualche attimo prima, da dietro la porta chiusa, avevano udito delle voci alzarsi in un alterco, poi la porta si era aperta e i toni della diatriba si erano smorzati.

Philip Price, chirurgo e primario del Western Maine Medical Center, era in riunione da quel pomeriggio con altri due luminari della sua clinica, il dottor Greenway, neuro psichiatra e il dottor Sage del reparto pediatria.
Stavano dando un aggiornamento completo agli schedari, lavoro che durava ormai da due giorni, a causa dei nuovi macchinari che erano stati installati da poco: un nuovo e complicatissimo apparecchio per i raggi X, un’ala completamente rimodernata al reparto Neonatale, due nuove e super attrezzate sale operatorie, computer,monitor, cercapersone, interfoni in ogni stanza e per finire un supplemento di barelle per il pronto soccorso.
Si erano portati a casa di Phil buona parte del lavoro, in modo da poter essere operativi nel più breve tempo possibile. Più tardi li avrebbe raggiunti anche John Reynolds, vice primario e miglior amico di Phil dai tempi in cui studiavano medicina al College.
Si trovavano appunto a casa del primario in quel momento, a lavorare alacremente. Per questo motivo Philip aveva chiesto a Gwendalina, loro governante da anni e donna di fiducia, di non lasciare entrare nessuno che potesse recare loro disturbo e si era caldamente raccomandato che quando fossero rientrati in casa, i gemelli non avrebbero dovuto cercarlo finché non avesse finito. Era stato categorico su questo. L’unica persona che attendevano con impazienza era il dottor Reynolds, ma essendo ormai di casa, era impensabile che andasse a litigare proprio con la domestica e in un momento così delicato per giunta!
Impossibile che fosse Johanna, perché la moglie era impegnata in un tour de force con i nuovi giovani avvocati che si erano associati al suo studio legale quindi era più che plausibile che fosse ancora al lavoro e non sarebbe rincasata se non in tarda serata. Inoltre, nemmeno lei avrebbe osato discutere con Gwen.
Quindi, a maggior ragione, Philip s’infastidì per quell’inattesa intrusione.
Aveva appena versato per sé e per i suoi colleghi un generoso bicchiere di scotch quando udì le voci e si era appena riseduto al lungo tavolo di mogano pieno zeppo di carte, di fronte ai suoi colleghi, quando la porta si era aperta.
Le voci concitate si erano spente di colpo e Philip, il dott. Greenway e il dott. Sage avevano fatto tintinnare i cubetti di ghiaccio dei loro drinks per voltarsi a vedere cosa stava succedendo.
Philip si alzò appena in tempo per vedere suo figlio entrare precipitosamente nella stanza, lottando con la domestica che cercava di trattenerlo.
Il ragazzo si liberò con uno strattone furioso ed entrò in biblioteca, violando così uno dei Dieci Comandamenti, quello appunto, che impediva ai gemelli di mettere piede nel Sancta Sanctorum dei genitori: la biblioteca. Là ci potevano andare solo se erano i genitori stessi a volerlo.
In casa Price, quando c’era da discutere di qualcosa come lavoro, scuola, pagelle o prendere decisioni importanti, tutta la famiglia veniva riunita nella biblioteca. Allora e soltanto allora i gemelli potevano accedervi e questo caso specifico non era contemplato nei loro lasciapassare. Era ancora in vigore il Divieto Assoluto, perciò Benji stava deliberatamente disubbidendo al padre e, cosa peggiore, lo stava facendo alla presenza di alcuni suoi colleghi di lavoro.
Gwendalina lo sapeva bene e aveva cercato in tutti i modi di fermarlo. Ecco dunque il perché della discussione.
Ma il ragazzo non aveva sentito ragioni. Pareva ci fosse qualcosa di molto urgente e grave che lo turbava e pretendeva spiegazioni dal padre su qualcosa di cui non era stato messo al corrente.
Philip si alzò quindi dal tavolo spingendo all’indietro la sedia a scranno con il lungo schienale intagliato.

-Ma che diamine sta succedendo, qui?!- chiese posando il bicchiere su alcuni fogli.

Guardava suo figlio con un misto di curiosità e molta irritazione provocata da quell’improvvisa e alquanto strana intrusione.

-Non ti avevo detto che …

-Mi perdoni senor Price, perdoni! E’ tutta colpa mia … io non ho saputo trattenere el nino, perdoni! Perdoni!

La governante era apparsa sulla soglia in tutta la sua rispettabile mole e si stava prodigando in esagerati inchini, fregandosi nervosamente le mani nel grembiule bianco che indossava quando era in cucina. Qualche ciocca di capelli le era sfuggita, ricadendole disordinatamente sulla faccia che era tutta rossa e congestionata, segno che aveva avuto il suo bel da fare per impedire che il suo padrone venisse importunato.

-Non ti scusare, Gwen, è tutto a posto - le disse benevolo Philip. - Vai pure adesso, ci penso io a lui.

 -Gracias senor!- disse lei di rimando e si eclissò richiudendosi la porta alle spalle.

Quando era su di giri, indignata o preoccupata, la sua grammatica diventava capricciosa, perciò finiva con l’esprimersi nella sua lingua madre, sicura che i signori avrebbero comunque capito.
Philip tornò a guardare il figlio, che stava a pochi metri da lui, al di là del massiccio tavolo di quercia e lo guardava con occhi pieni di collera.
Il dott. Sage e il dott. Greenway, tuttora seduti nelle loro scranne altissime, fecero così conoscenza con uno dei gemelli di Phil. La bambina doveva essere da qualche parte in quell’immensa casa e con tutta probabilità non sapeva della bravata del fratello. Avrebbe quantomeno cercato di dissuaderlo e se non ci fosse riuscita, sarebbe venuta lì con lui.
Sage e Greenway non gli staccavano gli occhi di dosso. Avevano visto qualche foto dei figli di Phil quando lui ne portava qualcuna in ospedale, mostrandole con orgoglio ai colleghi, ma constatarono che quelle immagini, benché belle, non rendevano giustizia ai gemelli.
Tuttavia, quello che videro in quel momento, negli occhi del bambino, occhi di un azzurro quasi trasparente, aveva ben poco di bello. I tratti del viso erano perfetti, come scolpiti nella porcellana; i capelli di un nero corvino, quasi con dei riflessi blu, erano in netto contrasto con quegli occhi straordinari. Le iridi chiarissime erano di un azzurro quasi bianco, contornate da una riga di azzurro più scuro a fare da contrasto; le ciglia folte e arcuate erano nere come i capelli. Erano occhi che inquietavano e chi non lo conosceva, poteva benissimo pensare che quel ragazzino così bello fosse cieco.
In realtà Benji ci vedeva benissimo e proprio in quel momento stava fissando il padre con quegli occhi stranissimi, le pupille dilatate per la collera.
I due medici notarono che era alto per la sua età. Indossava un paio di jeans scoloriti, una maglietta da baseball bianca e azzurra con la scritta 36 GORDON sulla schiena e le sue inseparabili Adidas.
Dalle foto che Phil mostrava loro, oltre che bello, poteva sembrare uno di quei rompiscatole viziati come lo sono il più delle volte i figli dei benestanti, piagnucolosi, con la erre moscia, e quell’aria da frocetti indifesi.
“Questo qui invece” pensarono Sage e Greenway che ormai viaggiavano sulle onde della telepatia, “ non ne ha per niente l’aria.” Anzi, sembrava sapere il fatto suo, ostentava sicurezza e determinazione, nonché una punta di scaltrezza, tutti caratteri dominanti che aveva, senza ombra di dubbio, ereditato dal padre, al quale il codice genetico aveva fatto trasmettere al figlio anche quegli occhi straordinari.
Ma l’espressione, la collera e il terrore che vi lessero, li rendevano inquieti.
Benji distese gli angoli della bocca in un sorrisetto enigmatico, come se fosse consapevole delle sensazioni che aveva suscitato in loro, poi tornò a concentrare la sua attenzione sul padre, che aveva girato intorno al tavolo ed ora gli stava di fronte, con le mani piantate sui fianchi ed il cipiglio poco rassicurante di un genitore che ha appena subito un affronto dal figlio.
Non sembrava affatto il buon medico che ogni giorno salvava numerose vite umane e si prodigava amorevolmente con i suoi pazienti, riservando ad ognuno di loro una parola dolce o un incoraggiamento. Sembrava solo un genitore stanco, alle prese con l’ennesimo problema quotidiano.
Essendo il dottor Sage e il dottor Greenway entrambi scapoli, assistevano con maggior interesse a quello scontro generazionale.

-Mi sembrava di essere stato molto eloquente sul fatto di non voler essere disturbato per nessuna ragione, Benjamin, ma tu come al solito …

-Che cosa significa questa, papà?- lo interruppe Benji venendo subito al sodo e con uno scatto preciso del polso, di chi è abituato a lanciare, fece arrivare sul tavolo la busta bianca che teneva in mano, la quale atterrò con precisione sul monticello di fogli che i tre medici stavano esaminando.

-Di qualsiasi cosa si tratti, ora non ho tempo.

-Ooh, si che ce l’hai! Dimmi che cos’è.

Phil guardò i colleghi per un attimo, come imbarazzato per quello a cui stavano assistendo, quasi a volersi scusare, come se fosse uno studentello al primo anno e non il primario di un ospedale, per giunta loro capo!

-Benji, sto lavorando. Inoltre non mi piace per niente il tono con cui ti stai rivolgendo a me. Ma se proprio vuoi saperlo, in quella busta c’è la vostra iscrizione al Saint Peter’s College che è appena stata accettata. Ora, per cortesia, sali in camera tua e non appena avrò finito qui termineremo questo discorso a quattr ’occhi.

Phil avrebbe voluto mollargli un ceffone. Sapeva bene che non tollerava che le questioni familiari fossero udite da altre orecchie, anche se erano quelle di colleghi e amici come Sage e Greenway.
Sembrava che lo avesse fatto apposta, ed era questo a mandarlo in bestia. Parlargli in quel modo poi. E in presenza dei suoi collaboratori.

-Mettitelo bene in testa: non ci andrò mai in quella scuola!-

Philip scosse la testa e fece un gesto di diniego, prese il figlio per un braccio e sospingendolo verso la porta, si voltò verso i colleghi.

-Vogliate scusarmi un attimo e perdonare questo inconveniente. Porto questo discolo di sopra e vi raggiungo subito.-

-Non preoccuparti Phil, non è successo niente. Credo sia piuttosto normale quando si hanno figli.- disse Greenway parlando per entrambi, ma era chiaro che quel faccia a faccia li aveva un po’ scossi. Doveva avere proprio un bel caratterino se osava parlare al padre in quel modo. Altro che rompiscatole viziato! Aveva inchiodato al muro il suo illustre padre, il primario e chirurgo del Western Maine Medical Center. Mica roba da poco!

Tuttavia non si lasciò sviare. Il comportamento del figlio di Phil nascondeva qualcosa, una specie di turbamento profondo che a lui, rinomato psichiatra, non era sfuggito. Ne avrebbe parlato con Phil a tempo debito.

-Accidenti!- commentò Sage colpito.

Phil scortò Benji fuori dalla biblioteca e sempre tenendolo saldamente per il braccio lo trascinò su per lo scalone centrale, svoltò a sinistra e dopo un breve corridoio aprì una doppia porta bianca ed entrò, portandosi dietro il figlio.
Era molto in collera e ora che l’aveva riportato là dove avrebbe sempre dovuto essere, cioè nella sua stanza, non poté evitare di esplodere.

Scrollò il suo ragazzo per le braccia, poi lasciandolo andare, gli sibilò:- Si può sapere che cosa diavolo ti è preso, eh? Ho fatto la figura dell’idiota con i miei colleghi perché tu ti sei permesso di interrompere una sessione di lavoro decisiva. Ora esigo una spiegazione. Subito!!-

-Mi hai ingannato!- gli urlò di rimando e per nulla pentito - Avevi detto che ci avresti almeno pensato e invece avevi già spedito le iscrizioni!-

-Benji, io sono tuo padre. Esigo rispetto da te come da Rachel. Sono io che ho l’obbligo di decidere per voi cosa è meglio, e se ho scelto quella scuola piuttosto che un’altra, il motivo c’è.

-Ma non hai nemmeno chiesto se noi eravamo d’accordo!!  Sai bene che cosa ti ho detto di quel posto …

-Sì, lo so. Un mucchio di fesserie per non studiare, come al solito. Ma ti avverto Benji, che questa volta non ci casco. Hai proprio passato ogni limite.-

-Tu non mi ascolti!! Tu non vuoi capire!!- gli gridò Benji - Tu pensi che io menta per il mio beneficio, ma sai che non è così. Quel posto ha qualcosa che non va, qualcosa di malvagio, lo sento! Non ve ne siete accorti anche voi?-

-BASTA!!- urlò Phil - Non sono più disposto ad ascoltarti! Per te ogni luogo dove ci sia un po’ di disciplina e studio ha qualcosa che non va!

Benji guardò incredulo suo padre, ansimando vistosamente, dato che doveva urlare molto più di lui per farsi sentire.

-Tutto questo è pazzesco!

-Puoi ben dirlo figliolo. Sto qui a discutere con te di un argomento che ormai considero chiuso quando ho del lavoro arretrato che mi aspetta di sotto.

-Questo argomento non è affatto chiuso! Non finisce qui, stanne certo!- minacciò Benji in un tono così furente che Philip non si era mai sentito rivolgere da nessuno prima d’ora.

-Non ti permettere mai più di minacciare tuo padre!!

Philip lo afferrò per le spalle e lo scrollò con forza fino quasi a fargli battere i denti.

-Mi hai sentito? - tuonò Phil - Mai più. E ora chiedi scusa.

-Non toccarmi! Lasciami! Lasciami andare!

Benji sembrava in preda ad una crisi isterica che preoccupò Phil. Invece di scusarsi, si divincolò abilmente dalla stretta del padre che lo tratteneva ancora per le spalle, mantenendosi a distanza di sicurezza. La reazione del figlio era stata violenta e inaspettata. Cercò tuttavia di non dare a vedere quanto fosse rimasto sbigottito.

-Sai, vedendo come ti comporti, non posso che pensare di aver fatto la cosa giusta, ogni giorno sempre di più.

-Certo, la cosa giusta per te - lo schernì Benji.

-No, mio caro, è qui che ti sbagli. Lo faccio per voi due, per te e per tua sorella, perché non si dica in giro che non vi ho tirati su come si deve.-

-Appunto. Lo fai per te. Per non perdere la faccia con i tuoi colleghi …
 
Philip gli rise in faccia, cosa che ferì Benji più di una coltellata.

-Smettila di affrontarmi di petto. Non è così facendo che tornerò sulle mie decisioni. Mie e di tua madre. Impara ad accettare una sconfitta per una volta, e vienine fuori a testa alta. E’ così che va la vita, ricordatelo.

Benji fece un verso sprezzante. - Perché non lo vai a dire alla mamma che una sconfitta ogni tanto non è poi così grave! Te lo dico io perché se un avvocato perdesse, non lo vorrebbe più nessuno! La gente assume gli avvocati per vincere. E tu? Se perdessi, in sala operatoria, il paziente morirebbe! Credi che sia così stupido da non saperlo?

-E’ proprio perché penso che tu non sia stupido che il tuo comportamento mi fa arrabbiare. Tu non hai rispetto per nessuno, non ascolti nessuno, non vuoi essere contraddetto e vuoi sempre avere ragione. Dimmi se ti sembra logico comportarsi così. Io sono molto stanco di dover combattere con te per ogni cosa, Benji, cerca di capirlo in fretta o d’ora in poi sarà peggio per te.

Benji lo guardava di traverso, i pugni stretti in un atteggiamento di sfida.
-Se tu mi stessi a sentire, qualche volta, non dovresti più combattere con me e con Rachel. Voi non ci considerate per niente quando c’è da decidere qualcosa che ci riguarda! Se questo è il comportamento di voi adulti, beh, credo che ci sarà ancora molto per cui dovremo lottare.

Fu il turno di Phil di stringere i pugni.

-Ora basta. Finiscila qui, per favore. Non cambierò la mia decisione e tu non dirai di non averci provato. Come vedi, sono molto tollerante, anche se una bella punizione non te la toglierebbe nessuno e lo sai.

-Oh, certo. Scusa tanto se ti ho rubato del tempo prezioso, ma non ti aspettare che ti chieda scusa. Non su questo argomento. Tu ci hai tradito …

-E’ così che la pensa anche Rachel? Sono curioso di sentire anche la sua, di campana. E non parlerei di tradimento, Benji, piuttosto di educazione, parola che tu forse ancora non hai conosciuto. Ma ti assicuro che, da oggi in poi, le cose cambieranno! Sai, anche io odio essere contraddetto, specialmente da mio figlio e su cose che sono più grandi di lui!-

-Maledizione! Perché, perché ti ostini a non crederci?!-

-Perché quello che dite non è sensato! E’ da pazzi dire che in quella scuola qualcuno o qualcosa sta cercando di manipolarvi! E ti garantisco che, nel mio lavoro, ne vedo di gente con le rotelle fuori posto! Inoltre non voglio che si dica in giro che ho due figli visionari. Ti basta come spiegazione?-

-Come quella di medico basta e avanza, ma come padre, non saprei che farmene di una spiegazione simile! Tu vuoi che io sia come te, ma non ti accorgi che io non lo voglio essere! Per il semplice fatto che tu non stai dalla parte dei tuoi figli. Né tu, né John, né la mamma! Quello che veramente t’interessa è salvare le apparenze! E’ vergognoso!!-

-Te lo dico io cosa è vergognoso, dolcezza! Il tuo comportamento strafottente, tanto per cominciare, e l’arroganza con cui mi stai parlando. Da un po’ di tempo a questa parte sto notando questo e non mi piace per niente. Siamo molto aperti come genitori e disponibili a qualsiasi tipo di dialogo; sta a voi decidere se parlarne o meno, non è la prima volta che te lo dico. Se c’è un problema o qualcosa che vi turba, ne possiamo parlare.

-Sì, qualcosa c’è, papà, ma l’argomento Saint Peter’s non è molto ben tollerato da nessuno di voi! E questo è il nostro unico problema.

-Se non vuoi che sfili la cinghia, non dire un’altra parola!
Benji tacque, fissando Phil come se lo odiasse.

-Ti ho già detto che devi imparare ad incassare. Il Saint Peter’s è la tua prima lezione. Con questo ho veramente chiuso l’argomento.

Benji era furente. In quel momento, provò un moto di odio cieco per suo padre che gli fece paura. Lo aveva ferito, e gli aveva riso in faccia.
 
-Ti odio!!- gli sibilò piccato e Phil lasciò che si sfogasse.

-Odiami pure, se ti fa stare meglio, ma impara a perdere. A volte succede.

-Io non sono un perdente!!- urlò Benji e gli si fece contro minaccioso.

Phil decise che aveva tollerato abbastanza e cercò di abbrancarlo. Gli riuscì di afferrare un lembo di stoffa della maglietta, e fu sufficiente. Il suo braccio scattò all’indietro, e in rapida successione, lasciò partire due schiaffi che colpirono Benji in pieno viso, facendolo cadere a terra.
Per un attimo rimase bocconi sul pavimento, rintronato dai ceffoni che si era preso. Quando si rialzò, Philip vide che aveva le guance arrossate e un rivoletto di sangue gli scendeva da un lato del labbro inferiore, ma nei suoi occhi non c’erano lacrime!

Quei ceffoni avrebbero fatto lacrimare chiunque, che diamine, pensò Phil, ma non lui, non suo figlio! Le lacrime avrebbero significato la resa, e da quanto si erano detti, aveva tutta l’intenzione di dare battaglia! Poteva avere la faccia un po’ malconcia, ma i suoi occhi erano perfettamente asciutti.
Phil si passò una mano tra i capelli, un po’ scosso, ma continuò ad attendere quella normale reazione che tutti i bambini avrebbero avuto in una situazione analoga; era sicuro che persino Rachel avrebbe pianto, ma le lacrime non vennero.
Mosse un passo verso Benji che, per istinto, indietreggiò preparandosi ad una seconda razione di botte. Era raro che il padre perdesse le staffe a tal punto, ma quando se lo meritavano, voleva che la lezione venisse imparata una volta per tutte. Benji era andato troppo oltre e lo sapeva, e in fondo era giusto così. Philip aveva perso il controllo perché era da molto che quella storia andava avanti e, sinceramente, non ne poteva più. Aveva deciso di mettere i sigilli a quell’argomento e passare oltre, ma Benji gli si opponeva testardamente ogni volta che la questione veniva sollevata. Affrontarlo di petto davanti a tutti come aveva fatto prima, era stata la classica goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Era la cosa peggiore che potesse fare, e lo sapeva. Proprio per questo Philip era così arrabbiato con il figlio. Di solito, era molto più tollerante, severo ma giusto, anche se non erano mancate in passato punizioni esemplari, forse anche peggiori di quella, ma adesso sembrava che i suoi figli stessero prendendo una brutta piega, come se lui non fosse più in grado di mantenere la sua autorità di genitore. Andava ristabilita la gerarchia, ecco il perché di quella scuola. Lo riteneva necessario per il bene dei suoi figli, anche se non pretendeva di essere capito. Lui stesso, a suo tempo, aveva contrastato suo padre per la stessa cosa, ed eccolo ora, brillante primario e chirurgo a capo di un’intera equipe medica. E lo doveva proprio a suo padre, alla fermezza con la quale aveva saputo mantenere la sua decisione.
Si avvicinò ancora a suo figlio, che lo osservava con occhi vigili, attenti, non sapendo bene che cosa aspettarsi.

-Piangi, Benjamin, so benissimo che ti ho fatto male. Chiunque altro avrebbe pianto anche tua sorella. Le lacrime non significano la resa, impara anche questo. A volte fa bene piangere, sfogarsi. Fallo, ti sentirai meglio dopo, vedrai.

Benji fissò nuovamente il padre con quegli occhi indomiti, ben deciso a mantenere fermamente la sua posizione. Con voce un po’ incerta ma ostinata, ribadì: - Tu non mi ci manderai in quella scuola, perché io non ci andrò!

Certo che ci voleva un bel coraggio per essere così determinati in un momento simile. Phil non capiva il motivo di tanta determinazione e ostilità. Quando parlò il suo tono era gelido.

-Oh, si che ci andrai.

-No, mai!- urlò Benji stringendo i pugni.

-Bene - Phil parlò con voce calmissima, anche se gli tremavano le mani - dal momento che con te le parole non servono, considerati in punizione da questo istante fino a quando non deciderò che può bastare. Non hai il permesso di vedere Rachel e di lasciare la tua stanza finché non avremo chiarito questa cosa. Ti do tempo fino a questa sera per riflettere sul tuo comportamento e chiedere scusa. Per quanto riguarda il Saint Peter’s non voglio più sentirne parlare.

Nonostante suo padre avesse appena emesso quella pesante sentenza, la sua mente sconvolta si rifiutava cocciutamente di accettare quella decisione, riuscendo soltanto a formulare quell’unica frase che tanto faceva infuriare suo padre:- Non mi rinchiuderai mai in quel collegio!

-Credo proprio di averlo già fatto, testa dura. Impara la lezione: a volte si deve incassare. Non si può sempre vincere. Prima lo capirai, meglio sarà per tutti! Riflettici sopra.

Ciò detto, Philip uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Per evitare che il figlio gli corresse dietro un’altra volta e ripetesse la sceneggiata davanti ai colleghi, pensò bene di chiudercelo dentro a chiave.
Benji rimase a fissare la porta chiusa come un cane bastonato.

-Io non perdo mai!!-  gridò - Mi hai sentito?! Non andrò in quel collegio. Non ci andrò mai!!

Si avvicinò alla porta, aspettandosi che il padre lo sentisse e tornasse indietro, ma non ottenne risposta. Con rabbia picchiò i pugni sulla porta, accasciandosi contro di essa, le braccia allacciate intorno alle ginocchia piegate.
Nascose il capo in grembo, e finalmente, nell’intimità della sua stanza, non visto né sentito, diede libero sfogo a quelle lacrime che il padre non aveva avuto la soddisfazione di vedere.
Erano lacrime brucianti di sconfitta, rabbia, odio e risentimento, sentimenti che provava per non essere stato creduto da suo padre. C’era anche una punta di delusione.
Pensò a Rachel, ignara di tutto quello che era appena accaduto. Avrebbe voluto tanto parlare con lei, sfogarsi, ma era confinato in quella stanza improvvisamente troppo piccola per il suo attuale stato d’animo.
Velocemente, come se si vergognasse di averlo fatto, di aver finalmente pianto, si passò una mano sulla faccia, asciugandosi gli occhi e si alzò in piedi. Andò alla finestra, scostò le tende gialle e la spalancò …
Aveva sempre il suo olmo, la cosa che più lo calmava quando non aveva nessuno con cui parlare. Chiuse gli occhi, inspirò l’aria fresca e si mise in ascolto …
Le foglie dell’olmo frusciavano dolcemente, mosse dal vento, e i rami che toccavano il tetto come dita protese, iniziarono a tamburellare sulle tegole e sulla grondaia.
Benji ascoltava quel suono ritmico e ne traeva conforto.  Gli piaceva addormentarsi ascoltando quel suono, e al mattino lo ritrovava puntualmente al suo risveglio.
Il vecchio olmo, che troneggiava nel giardino posteriore della casa, era molto alto e aveva rami fittissimi. Ad una quindicina di metri da terra, i rami erano ancora abbastanza robusti da poter sostenere il peso di una persona. Alcuni di questi si protendevano fino al tetto della casa, proprio sotto la finestra di Benji. Se avesse voluto, infatti, gli sarebbe bastato salire sulla scrivania, scavalcare il davanzale della finestra, e percorsi solo tre passi sulle tegole del tetto avrebbe potuto, con tutta tranquillità, sedersi tra i rami del grande olmo. Era molto pericoloso, certo, poiché le tegole erano in pendenza e in alcuni giorni, il grosso ramo, benché fosse robusto e praticamente appoggiato al tetto, oscillava spostato dal vento. Inoltre, c’erano a dir poco una quindicina di metri buoni che lo separavano dal suolo, e in caso di caduta … beh, era molto pericoloso.
In realtà, Benji lo faceva da quando aveva otto anni. Ovviamente, i genitori non ne sapevano nulla, altrimenti avrebbero preso provvedimenti. Le uniche persone ad esserne al corrente, erano sua sorella e suo cugino Devon, che ogni estate veniva in visita con la madre, Patricia, sorella di Phil.
Era più che certo che con loro il suo piccolo segreto era al sicuro, anche se Rachel a volte aveva paura di quelle prodezze da circo del fratello, ed era tentata di dirlo ai genitori, ma fino ad ora non lo aveva fatto, ed erano passati già due anni da quella prima volta, quando Benji era uscito dalla finestra ed era andato a sedersi in mezzo ai rami, in un comodo incavo del tronco, a godersi il suo trionfo, guardando le facce terrorizzate di Rachel e di Devon.
Il signor Alexander era sparito già da un pezzo, quando la zia Trisha veniva a passare qualche giorno a Portland, nella casa di suo fratello Philip. Di solito era in estate che si fermava di più ma quella volta era Dicembre, vicino a Natale. Benji se lo ricordava perché Devon, di due anni più grande di loro, gli aveva detto che i suoi genitori non stavano più insieme, e che il suo ex padre, così lo chiamava, si rifiutava di pagare gli alimenti alla mamma, così quell’anno non avrebbe nemmeno avuto i suoi regali di Natale.
Era stato allora che Devon, che all’epoca aveva dieci anni mentre i gemelli otto, si era fissato con l’olmo del giardino.
Ne era sorta una controversia, e Devon, imprudentemente, aveva sfidato il cugino, dicendogli:

-Perché non scavalchi la finestra e ci provi, piccoletto. Se non te la senti… dirò in giro che ho un cugino codardo!!

-Devon sei uno stupido!- l’aveva sgridato Rachel - Ma che idee ti vengono in mente?! Non vedi che è tutto ghiacciato, lì sopra?

Si riferiva al tetto, ovviamente, ma anche il ramo era carico di neve ghiacciata.
Ma la sua vera paura era che il fratello accettasse la sfida. Benji, infatti, si era alzato in piedi di fronte al cugino, e seriamente, gli aveva detto: - Okay, io lo faccio. Ti dimostro che non sono un cacasotto, ma tu bada di tenere la bocca chiusa con i miei, perché se lo vengono a sapere, mi uccidono, e poi tu ed io facciamo i conti.

Devon si era sentito a disagio, anche perché lui era il più grande. E se gli fosse successo qualcosa? In fondo, era stato uno stupido. Sapeva bene che suo cugino, anche se più piccolo di lui, era un tipo tosto. Non avrebbe dovuto costringerlo. Benji non lasciava mai cadere una sfida, lo sapeva, per questo si sentiva un idiota.

-Okay, finiamola qui cugino. Ti credo sulla parola. Rachel ha ragione, è troppo pericoloso.

-Ormai è troppo tardi per tirarsi indietro …

Benji aveva spalancato la finestra e una folata di aria gelida li aveva investiti, facendoli rabbrividire dalla testa ai piedi.

-Benji, no! Vado a chiamare papà se lo fai!- gridò Rachel.

-Non lo farai, e non mi succederà niente, sta a vedere.

Prima che i due potessero trattenerlo, era già sgusciato fuori. Sul tetto ghiacciato rischiò di scivolare, ma con agilità raggiunse il tronco e come promesso non successe nulla, né allora né poi.
Quando rientrò, Rachel si mise a piangere, e Devon, con il terrore ancora dipinto sul volto, gli disse che, secondo lui, non aveva proprio tutti i venerdì a posto.
Lo sguardo di Benji scintillò, e la risposta che diede convinse Devon a lasciarlo in pace. In futuro, nelle visite successive, si sarebbe guardato bene dal proporre qualcosa di pericoloso.

-Devi stare attento a quello che chiedi, cugino, perché potresti ottenerlo.

Era chiaro che, già allora, Benji prendeva tutto sul serio e non lasciava nulla al caso. Era più piccolo di lui di due anni, ma non era uno stupido.
Quella volta a Devon convenne tenere la bocca chiusa su quanto era successo, altrimenti le avrebbe prese di santa ragione, e lo stesso doveva aver pensato Rachel, perché a distanza di due anni da quell’episodio, nessuno sospettava di nulla. Tanto meglio.
Benji ascoltò ancora quel fruscio e il tamburellare dei rami sul tetto, poi si ritrasse dalla finestra, andando a buttarsi sul letto.  Gli bruciavano ancora le guance e gli doleva la testa. Non se la sentiva di arrischiarsi là fuori in quelle condizioni.
Le discussioni con il padre erano sempre molto aspre e gli svuotavano la mente, impedendogli di concentrarsi. Nemmeno il suo adorato olmo avrebbe potuto confortarlo, quindi era del tutto inutile andare là fuori.
Preferì buttarsi sul letto e, chiudendo gli occhi, riflettere su tutta quell’assurda situazione.
Il fruscio dei rami in sottofondo, finì col farlo addormentare. Scivolò nel sonno senza rendersene conto, e il tamburellare lontano dell’olmo diventò a poco a poco il rumore di passi pesanti in un corridoio …



… I passi si fermarono all’altezza della sua stanza, e Benji che nel sogno stava leggendo un fumetto di quelli che gli passava Rachel, staccò lo sguardo dal giornaletto e lo posò sulla porta, terrorizzato, sperando che quei passi non fossero reali, sperando che avrebbero proseguito oltre, senza badare a lui. Era strano, sapeva che era un sogno, che non era reale, eppure …
Percepiva una strana sensazione di deja-vù, e non poteva fare nulla per fermare il corso degli eventi …
La porta si stava aprendo lentamente, con un lieve cigolio, come nei film dell’orrore. La luce sembrava essersi affievolita, e sulla soglia della stanza apparve la figura di un uomo dal cranio completamente calvo.
Le orecchie spuntavano ai lati della testa come due manici di scopa. Il resto di quella faccia era in penombra, e non si riusciva a scorgere altro.
Benji tremava e stava sudando. Evidentemente conosceva quell’uomo e ne aveva il sacrosanto terrore. Era nervoso e si alzò di scatto. Il fumetto gli scivolò tra le mani e cadde per terra. Le pagine frusciarono e il libro rimase aperto a metà sul pavimento.
Nel sonno, Benji si agitò convulsamente, cercando di svegliarsi da quel brutto incubo. Aveva la pelle d’oca ed era coperto di sudore. L’uomo calvo rise, gettando indietro il capo.

-Io controllo la tua mente, non mi puoi sfuggire, io sono il padrone della tua mente! Non cercare mai di fare il furbo con me, potresti pentirtene, lo sai bene!!

 Improvvisamente, dei dolori fortissimi gli attanagliarono la testa come una morsa crudele, e Benji, spaventato, tornò in sé con un grido. Balzò giù dal letto e barcollò fino alla porta del bagno che c’era nella sua stanza.
I dolori erano fortissimi e Benji, gemendo, si appoggiò al lavabo con la testa china e gli occhi chiusi. A tastoni cercò la manopola del rubinetto e la girò. Un getto d’acqua iniziò a scorrere nel lavandino, ne sentiva il rumore, ma era troppo terrorizzato per aprire gli occhi e guardarsi intorno. Aveva ancora la pelle d’oca e quel dolore improvviso e acuto non si accingeva ad affievolirsi.
Si spruzzò un po’ d’acqua fresca sulla faccia e si costrinse a farsi coraggio. Aprì gli occhi e si guardò intorno. Era la sua stanza, il suo bagno. Da dove era, vedeva il letto tutto sfatto, la finestra ancora aperta, con le tende che oscillavano al vento, la scrivania con appeso sopra il muro, il poster di Tom Gordon, il lanciatore di chiusura dei Red Sox, il suo idolo.
Se si fosse sporto ancora un po’, avrebbe visto l’armadio e la porta della stanza. Non c’era nulla di strano, tutto era esattamente dove avrebbe dovuto essere.
Ma allora perché quell’incubo lo aveva così spaventato? E quell’uomo? Aveva così paura perché nel suo incubo sapeva benissimo chi era.
E che dire di quel dolore così acuto e devastante? Aveva forse a che fare con l’Uomo Calvo e le strane parole che questi gli aveva detto?
Come se lo avesse evocato di nuovo, una fitta lancinante gli trapassò la testa.  Il terribile dolore gli strappò un altro grido, ma stavolta era ovattato, come se venisse da lontano. La vista gli si offuscò e si accorse che stava perdendo la presa sul lavabo. Le sue dita semplicemente scivolavano via, e i muscoli delle gambe non lo sorressero più.
Cadde all’indietro, sbattendo la testa contro lo stipite della porta. Dalla ferita che si era procurato sul lato sinistro della tempia, prese ad uscire del sangue.
Giacque svenuto, ma prima di perdere completamente i sensi, cercò di fare un’ultima cosa: chiamò Rachel ma non una parola uscì dalla sua bocca. L’aveva chiamata col pensiero, come aveva fatto con lui l’uomo calvo del suo incubo. Gli venne naturale, quasi spontaneo, come se lo avesse fatto da sempre, come se lui e sua sorella fossero soliti comunicare in quel modo. Ed era più che certo che lei lo avrebbe sentito. Ne era sicuro perché c’era di mezzo quello strano uomo.

Aiutami Rachel. Non so cosa mi sta succedendo! Aiutami solo tu puoi farlo …
 
L’ultima cosa che udì prima di perdere i sensi, fu la terrificante risata di quell’uomo che non conosceva ma che al tempo stesso sapeva chi era, dato che nel suo incubo ne aveva avuto paura.
Era di sicuro qualcuno che gli avrebbe procurato dei guai.
   
 
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