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Autore: Valaus    06/04/2010    27 recensioni
Per tutta la vita, sono stato chiamato in vari modi. Mille nomi, tutti diversi. Nomi lunghi e corti, nomi veri ed inventati. Insulti e nomignoli, epiteti e classificazioni. Tanti nomi, dai significati più diversi...
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Draco Malfoy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una Oneshot nata così, senza pretese nè un motivo preciso, partorita ieri pomeriggio dalla mia testolina e subito messa su carta (o sarebbe meglio dire su word :P).
Spero possa piacervi! :)

Buona lettura





~ω~








Per tutta la vita, sono stato chiamato in vari modi.
Mille nomi, tutti diversi. Nomi lunghi e corti, nomi veri ed inventati.
Insulti e nomignoli, epiteti e classificazioni.
Tanti nomi, dai significati più diversi.

Quando venni al mondo, il dottore pronunciò ad alta voce la parola maschio, rendendo così noto il mio sesso ai miei ansiosi genitori.

Quando mia madre mi strinse tra le braccia per la prima volta, mi chiamò figlio.

Quando mio padre mi vide, assopito sul petto di mia madre, mi diede nome Draco Lucius Malfoy.

Quando venni portato a casa dall’ospedale, il ritratto di mio nonno Abraxas Malfoy mi chiamò nipote.

Quando fui presentato agli amici della mia famiglia, mi indicarono come il primogenito Malfoy.

Quando pronunciai la mia prima parola, Purosangue, mio padre mi definì il mio orgoglio.

Quando eravamo soli e lontani da orecchie indiscrete, mia madre mi chiamava tesoro. La sua voce che pronuncia quella parola è il mio primo ricordo bello.

Da quando ho iniziato a parlare e dare ordini ai miei elfi domestici, loro si sono riferiti a me chiamandomi signore. Mi ha sempre provocato un senso di superiorità.

Quando io e Blaise da piccoli giocavamo nel giardino di casa mia, lui mi chiamava Daco. Non sapeva pronunciare la “r”. Ancora oggi lo prendo in giro, ricordandoglielo.

Quando a 4 anni i miei genitori sancirono un accordo con la famiglia di Pansy Parkinson, secondo cui una volta maggiorenni ci saremmo dovuti sposare, lei prese a chiamarmi fidanzatino per un certo periodo. La cosa mi irritava alquanto, la costrinsi a smettere dopo poco.

Quando iniziai a frequentare l’asilo, la mia maestra mi chiamava pupillo. Ero il suo alunno prediletto, mi lusingava tale riconoscimento.
I miei compagni di classe, invece, mi definivano demonio. E non a torto.

Quando conobbi Theodore Nott, all’età di 7 anni, lui mi chiamò Malfoy-nome strano. Dopo che gli lanciai in mezzo alla fronte un sasso con sopra scritto il mio nome, smise di rivolgersi a me a quel modo.

Quando mia madre mi portò da Madama Mcclan per far confezionare la divisa del mio primo anno ad Hogwarts, la sarta mi definì bel faccino. Sarebbe stata solo la prima di tante.

Quando feci il mio ingresso alla Scuola di Magia e Stregoneria, venni chiamato per la prima volta studente. Mi suonava un po’ anonimo, a dire il vero.

Quando venni smistato, mi venne attribuito uno dei nomi che preferisco in assoluto: Serpeverde. Mi da un senso di fierezza, potenza e supremazia.

Non appena conobbi Tiger e Goyle, presero subito a chiamarmi capo.
Pansy, invece, tentò un breve e sfortunato approccio con cucciolotto, prima che le giurassi di strapparle le corde vocali con le mie stesse mani se solo avesse osato ripeterlo.
Allora mi definì cattivo. La cosa mi piacque.

Potter, Weasley e tutta la sua compagnia si rivolsero a me chiamandomi Malfoy, ma in un modo dispregiativo per nulla adatto al mio nobile cognome. Li feci pentire più volte per tutto ciò.

Blaise negli anni mi chiamò prima Malf, poi D, Dra e infine semplicemente amico. Quest’ultimo lo preferisco in assoluto, e perciò anch’io lo chiamo allo stesso modo.

Alcuni professori mi chiamavano giovane Malfoy. Ridicolo, quando sarei cresciuto allora, mi avrebbero dato del vecchio Malfoy?

Ben presto Pansy scoprì che per entrare nelle mie grazie le bastava rivolgersi a me definendomi Purosangue. Non so perché questa parola mi eccitasse tanto.

Quando ebbi la mia prima esperienza sessuale con lei, durante il terzo anno, mi chiamò ah. Quel gemito era l’unico modo soddisfacente in cui mi piaceva sentirmi nominare da lei.

Quando smisi di scopare con lei, mi diede dello stronzo. La prima volta che qualcuno mi chiamava apertamente a quel modo. Devo dire che mi piacque alquanto.

Dopo l’assurda trasformazione di cui fui vittima da parte di quel cerebroleso di Malocchio Moody, Potter e la sua cricca iniziarono ad apostrofarmi come furetto. Odio quel soprannome con tutto me stesso.

La ragazza di Beauxbatons che mi portai a letto durante il quarto anno mi chiamava Dracò. Ancora rido se ci ripenso.
Quello di Durmstrang che schiantai per la suddetta ragazza, invece, mi diede del puttaniere. Poco veritiero, io non ho mai pagato le donne per concedersi a me. Non ne ho mai avuto bisogno.

Quando fui presentato a Voldemort per la prima volta, mi diede del discepolo. Nome stupido, non mi piacque affatto.
Quando finalmente mi marchiò, prese a rivolgersi a me come Mangiamorte. E non solo lui.
Quel nome ha rappresentato per me un vario insieme di emozioni negli anni, ancora adesso non saprei bene come definirlo. Diciamo che il mio rapporto con questo epiteto è maturato nel tempo, fino a dissolversi del tutto.

Quando mi presentai al cospetto di Silente per costituirmi e schierarmi dalla parte dell’Ordine, dopo che Voldemort aveva brutalmente ucciso mia madre, lui mi definì coraggioso. Fu uno dei migliori complimenti che mi fossero mai stati rivolti.

Quando mio padre scoprì del mio tradimento, mi indicò come delusione. Termine che poi si rimangiò quando si rese conto che le mie motivazioni per tale decisione erano più che valide.
Tradì a sua volta l’Oscuro Signore, ma lo fece solo per salvarmi. Si sacrificò per me.
L’ultima cosa che mi disse fu la frase che per tutta la vita avevo sperato di sentirgli pronunciare.
Mi abbracciò, chiamandomi figlio mio. Mai aveva usato con me una simile dolcezza.
E’ questa l’immagine di lui che ho deciso di conservare nel mio cuore e nei miei ricordi.

Hermione Granger mi apostrofò per tutti gli anni di Hogwarts nei modi più svariati.
Stupido, Bastardo, Idiota patentato, Cervello di gallina, Viscido verme. Solo piccoli esempi di una lunga lista.

Quando iniziai a lavorare al suo fianco come membro dell’Ordine, era solita chiamarmi cretino il più delle volte. Le bastò vedermi un paio di volte in azione per cambiare idea su di me.
E non solo idea, anche denominazione. Mi definiva solo Malfoy, ma non nel modo disgustato dei tempi di Hogwarts. Era solo un nome come un altro.

Quando, durante una missione, le salvai la vita, iniziò a chiamarmi Draco. Il mio nome non mi era mai sembrato tanto dolce prima di allora. E quel luccichio negli occhi che intravedevo quando si rivolgeva a me, mi faceva inspiegabilmente battere il cuore all’impazzata.
O meglio, non tanto inspiegabilmente. Sapevo cosa stava succedendo in me, anche se mi rifiutavo di ammetterlo.
Almeno finché una sera, durante un turno di ronda con lei per le vie di Hogsmeade, non cedetti all’impulso di baciarla. Lei all’inizio rimase di sasso, poi mi schiaffeggiò e mi diede del deficiente.
Passarono a malapena tre giorni, prima che venisse a scusarsi con me per quella “reazione eccessiva”, come la definì lei stessa.
In quell’occasione la baciai di nuovo, e stavolta lei non protestò.

Quando, dopo settimane fatte di silenzi, scambi di sguardi e baci rubati in segreto, non resistetti più e le confessai ciò che sentivo per lei, Hermione mi spiazzò, dichiarando di ricambiare a sua volta.
Da quel momento in poi, prese a chiamarmi il mio ragazzo. Suonava strano, ma mi piaceva parecchio.

Quando si scoprì che all’interno dell’Ordine c’era una talpa, Potter accusò subito me, e mi si scagliò contro con parole di fuoco. Hermione mi difese, intimando allo Sfregiato di piantarla di sospettare del mio Draco. Non riuscii a non sorridere quando la sentii definirmi così.
Quando poi venne fuori che, effettivamente, la spia non ero io, lei mi sussurrò di non aver mai dubitato di me per un solo istante, ed aggiunse alla fine della frase un tesoro che, per quanto non avessi mai permesso a nessuno oltre a mia madre di usare, le concessi. E continuo a concederle tuttora.

Rimasi perplesso quando conobbi Ninfadora Tonks, e quella mi salutò chiamandomi allegramente cugino. Era forse l’unica persona al mondo che non si vergognava di sbandierare ai quattro venti una parentela con me.
Ma restò l’unica per poco, devo ammetterlo.
Un paio di anni dopo, quando Teddy Lupin iniziò a pronunciare le sue prime parole, non ci mise molto a rivolgersi a me come zio.
Per quanto quel bambino abbia dei genitori molto strani e, per certi versi, preoccupanti, è uno degli esserini più meravigliosi del mondo. Sentirlo chiamarmi a quel modo mi addolcisce l’anima.

Una sera di dicembre, durante uno di quei pochi attimi di pace che la guerra ci concedeva, io ed Hermione ci accoccolammo sul letto, a chiacchierare di qualunque cosa potesse distrarci dal pensiero dell’imminente battaglia che si sarebbe tenuta due giorni dopo.
In quell’occasione, parlando sovrappensiero, Hermione si lasciò sfuggire una parolina di troppo.
Mi chiamò amore.
La vidi impallidire, sgranare gli occhi e coprirsi immediatamente la bocca con le mani, non appena la pronunciò. Avevamo reso effettiva la nostra relazione da poco tempo, forse appena un paio di settimane. Era chiaro che per lei era troppo presto usare quella parola con me, anche se effettivamente era ciò che provava.
Le resi le cose più facili, fingendo di non averla sentita e salvandola dall’imbarazzo di quel momento.

La sera successiva, quando rientrò da una riunione tattica con Potter e Weasley, trovò la sua camera magicamente ricoperta in ogni angolo di centinaia di rose bianche, che sapevo essere le sue preferite. Lo stupore la paralizzò, al punto che non riuscì a dire una sola parola.
Fu più semplice per me, a quel punto, parlare. Avevo creduto di doverla zittire a forza.
Le rivelai la portata dei miei sentimenti. Le dissi di amarla. Anche se stavamo insieme da poco, il tempo per me non significava nulla, se comparato alla forza con cui lei aveva invaso la mia anima.
Hermione scoppiò a piangere. Non esattamente la reazione che mi aspettavo, ma comunque un buon risultato, tenendo conto che tra le lacrime ammise di amarmi a sua volta.
Quella sera, facemmo l’amore per la prima volta. E da quel momento in poi, diventai il mio fidanzato.
Lei sosteneva che era un grosso passo in avanti rispetto a il mio ragazzo, anche se io francamente non capivo la differenza. Ma non m’importava, mi bastava averla al mio fianco.

Potter e la sua ragazza, la piccola Weasley, si rivolgevano spesso a me chiamandomi Serpe. Ma era chiaro dal modo in cui lo pronunciavano che, sebbene non mi avessero ancora del tutto accettato come uno di loro, non c’era cattiveria o astio in quel nomignolo. Era solo un modo scherzoso di rivolgersi a me. Che, per altro, mi piaceva pure.

Quando, durante la battaglia decisiva contro Voldemort, restai gravemente ferito per aiutare Potter, tutti cambiarono improvvisamente idea su di me. In meglio.
Venni definito eroe per il coraggio con cui avevo affrontato il Signore Oscuro, garantendo al Bambino Sopravvissuto il tempo necessario per distruggere anche l’ultimo Horcrux, così da poter combattere e sconfiggere una volta per tutte il suo acerrimo nemico.
Salvai la pellaccia a tutti, ma rischiai la mia.

Durante le tre settimane che passai in coma profondo al San Mungo, in bilico tra la vita e la morte, Hermione non abbandonò il mio capezzale per un solo istante. Weasley mi raccontò poi che a malapena si nutrì, pur di potermi restare accanto.
Nessuno si oppose alla sua decisione. Ero un eroe, meritavo questo trattamento.
Quando, finalmente, ripresi conoscenza e mi svegliai, la trovai seduta accanto al mio letto. Stringeva forte la mia mano, come se cercasse in quel modo di trattenermi con sé nel mondo dei vivi.
Non appena si accorse che avevo aperto gli occhi, si buttò tra le mie braccia, cominciando a piangere. Di gioia.
Al culmine della felicità, mi chiamò in tutti i modi possibili immaginabili: amore mio, tesoro, piccolo mio, luce dei miei occhi...
Ridacchiando, per quanto le poche forze che avevo in corpo mi permettessero, le ricordai che ero solo Draco. Lei mi baciò con quanta più passione potesse, per poi sussurrarmi che non ero solo Draco.
Mi disse che ero il mio campione. Le risposi che mi bastava semplicemente essere suo.

Una volta ristabilita la pace, venni ufficialmente nominato Auror. Credo che non mi abituerò mai a sentirmi chiamare così. Soprattutto perché non s’è mai visto un Auror col Marchio Nero.
Ancora meno mi abituerò al modo in cui, da quel giorno, Potter ha preso a definirmi. Collega.
Mi fa strano pensare di essere un suo pari. E mi fa strano pensare che lui stesso mi ritenga tale.
Però è uno strano piacevole, tutto sommato.

Quando rivelai ai miei amici Blaise e Theodore che Hermione aveva accettato di sposarmi, iniziarono a chiamarmi fortunello. Non potevo dargli torto, anch’io mi sentivo l’uomo più fortunato sulla faccia della Terra.
Ronald Weasley, invece, mi diede un’amichevole pacca sulla spalla ed esordì con un inspiegabile fratello, giustificandosi col fatto che reputava la mia futura sposa come una sorella.
Fu la prima, e grazie al Cielo unica, volta che si rivolse a me così, prima di optare per un più sobrio ed accettabile compare. Io, però, continuo a chiamarlo Lenticchia. Il lupo perde il pelo, ma non il vizio.

Mark Zabini, figlio del mio migliore amico e di Daphne Greengrass, pare avere gli stessi difetti di pronuncia che aveva suo padre da piccolo. Non solo non riesce a pronunciare correttamente il mio nome, ma addirittura mi chiama Tato. Una storpiatura abominevole. Ma che a lui concedo.

Da quando, ormai quasi due anni fa, Hermione Jean Granger mi ha concesso l’onore di diventare mia moglie, un altro nome è entrato a far parte della mia lunga lista: marito.
Mai ai tempi di Hogwarts avrei potuto anche solo immaginare che l’avrei sentita chiamarmi in questo modo. Mai avrei potuto sospettare che mi avrebbe fatto provare una simile gioia.

E con questo, se n’è aggiunto un altro. Genero.
Quando i signori Granger mi hanno chiamato così per la prima volta, durante il pranzo in cui annunciammo loro la nostra intenzione di sposarci, ho seriamente rischiato di strozzarmi con l’acqua che stavo bevendo in quel momento. Una bella figuraccia coi fiocchi, non male come prima impressione.
Per lo meno, tutti l’hanno presa sul ridere. E quel episodio mi è valso un altro soprannome, che mio suocero continua a tirare fuori ogni volta che lo incontro: fontanella.

Per tutta la vita, sono stato chiamato in vari modi.
E ad ognuno di essi ha sempre corrisposto un sentimento che sono stato in grado di definire chiaramente. Che si trattasse di gioia, rabbia, irritazione, commozione.
In ogni caso, sono stato capace di catalogare ogni nome con la sua rispettiva emozione.
Sempre.
Ma la vita mi ha insegnato che a tutto c’è un’eccezione.
E, per me, l’eccezione è oggi.

Guardo il minuscolo esserino che mi osserva, aggrappata alle sponde del suo lettino. Guardo i suoi ciuffetti biondi ed i suoi occhi color cioccolato. Guardo il suo sorriso radioso, così simile a quello di sua madre. Ed osservo i tratti del suo viso, indubbiamente ereditati da suo padre.

Guardo intensamente la meraviglia di quasi un anno che risponde al nome di Olimpia Narcissa Malfoy, e vivo la mia eccezione.

Perché ad ogni modo in cui mi sono sentito chiamare, per tutta la mia esistenza, ha sempre corrisposto un’emozione ben chiara, definita e classificabile.
Ma oggi, sentendo mia figlia, la luce dei miei occhi, la mia ragione di vita, pronunciare la sua prima parola, rivolta proprio a me, non riesco a dare un nome a ciò che provo. Non riesco a specificare cosa mi faccia battere il cuore ad un ritmo tanto frenetico, cosa mi faccia tremare le gambe al punto che a fatica mi reggo in piedi, cosa abbia fatto scivolare sulla mia guancia questa sfuggevole lacrima.

So solo che è qualcosa di forte, grande, immenso.
Almeno quanto l’importanza di questo ennesimo nome.

Papà.




   
 
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