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Autore: Camelia Jay    13/04/2010    2 recensioni
Storia ambientata in Lonely, la mia altra fanfiction originale.
Dal POV di Jonathan ripercorriamo tutta la vita di Jenice, fino al momento in cui si separano. L'affetto che lui prova per lei è sempre stato quello per una sorella?
Genere: Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
- Questa storia fa parte della serie 'Lonely'
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{ It won't end like this }

(Non finirà così)

 

 

 

 

 

Se non avete letto Lonely, l’altra mia storia, vi consiglio di non proseguire.

Salve a tutte, volevo anticipare che questa breve one-shot è dal POV di Jonathan formata da tre piccoli flashback, e potete ambientarla in qualunque momento della storia preferite… comunque vi conviene, per continuare, essere arrivate almeno al ventesimo capitolo ^^. Okay, diciamo che ero in treno, dopo un’affannosissima corsa per non rischiare di perderlo (grazie mille Jessy ù__u xD) comunque, ero seduta al mio posto a raccontare cose su Lonely alle mie best con il viso che grondava di sudore e i capelli neri appiccicati alla fronte bagnata quando... puff! Mi è venuta quest’idea.

Spero vi piaccia, siccome, come già detto, Jonathan è il mio personaggio preferito ^^ ringrazio anche qui chi mi ha votato per il concorso migliori personaggi originali, spero che ci saranno altri voti!! Baci^^

 

 

 *******

 

Mi ricordo perfettamente di quel giorno di marzo, avevo dieci anni e me ne stavo comodamente e pigramente abbandonato sul divano dal rivestimento del colore delle foglie d’estate, aspettando che i miei tornassero a casa. I miei si fidavano, perciò mi lasciavano tranquillamente da solo senza babysitter. A quanto sembrava era nato qualcuno, o qualcuna, e i miei si erano diretti a casa della coppia fortunata. Ma non me ne importava più di tanto, era più interessante guardare la TV… dentro il televisore nero le persone andavano avanti e indietro, spostandosi piccoli piccoli, sembrava tutto un altro mondo, quello. Mi piacerebbe, pensai, diventare famoso, ma vorrei sempre rimanere me stesso. Certo, un pensiero totalmente diverso da ciò che veramente successe nella realtà.

La sera si stava avvicinando lentamente, il sole cominciava a tramontare con il cielo che stava assumendo diverse sfumature di colori che andavano dall’arancione al rosa pallido, quei tiepidi giorni di marzo facevano andar via il sole ogni giorno sempre più tardi, stavano spuntando le foglie verdi sulle piante, che non avevano più quel colorito marrone-giallo e non erano più abbandonate a terra avvizzite, mentre altre aspettavano solo di staccarsi dal proprio ramo. Non vedevo l’ora che fosse abbastanza caldo per uscire con i miei amici a giocare a calcio, un hobby che stavo lentamente però abbandonando per dedicarmi la musica. All’epoca desideravo diventare un calciatore, un calciatore famoso. Avrei realizzato quel desiderio solo per metà, ma stavo comprendendo lentamente che cantare e suonare la chitarra sarebbero diventate le mie vere passioni.

Sentii il rumore della porta leggermente cigolante aprirsi, immaginai il freddo che potesse fare fuori e un brivido mi scorse giù per la schiena a causa di quel pensiero. La mamma mi stava chiamando. La raggiunsi così attraversando la stanza, lei mi stava così davanti, truccata, con il rossetto rosso bordeaux che le risaltava ulteriormente le labbra carnose e i capelli ricci e rossicci erano ordinatamente raccolti con un elastico. Io i capelli li avevo biondi, li avevo presi da mio padre, il suo ramo dell’albero genealogico è pieno di biondi, infatti. Si tolse il giubbotto con calma, era radiosa e colma di allegrezza, mio padre era già andato verso il bagno.

— Ehi, sai chi è nata? — mi chiese lei sorridente, non appena vide che ero lì.

— Chi? — le domandai io, un tantino disinteressato, aggrottando lievemente un sopracciglio.

— La figlia dei Ross. La vogliono chiamare Jenice, penso. È un bel nome.

Io annuii, pensando che i miei e i Ross si conoscevano da anni, avrei visto quella bambina molto presto.

 

Non avrei mai detto che sarei potuto ritrovarmi in quella situazione: tre anni dopo, per soli cinque dollari l’ora dei quali avevo bisogno per soddisfare i miei capricci da tredicenne, mi ritrovavo da solo in casa dei Ross a badare ad una bimba di soli tre anni di nome Jenice. Aveva già i capelli belli e castani, gli occhietti vispi che mi cercavano continuamente. La seguivo dappertutto, giocavo con lei e l’assecondavo dov’era possibile, ero diventato praticamente un babysitter. Era una bimba adorabile, nonostante i continui e frequenti capricci.

Un giorno, mentre ero intento a fare i miei odiati compiti di inglese controllando la bimba contemporaneamente, lei arrivò indossando un adorabile vestitino pieno di fiocchetti, con dei piccoli risvolti sulle maniche, e mi disse che aveva sete con il suo grande sorriso e gli occhi vivaci. Io, ovviamente, chiusi il libro lasciando la penna ad inchiostro nero in mezzo alle due pagine che stavo leggendo per tenere il segno, mi alzai dalla sedia sulla quale ero seduto e mi diressi verso la cucina, Jenice che come un’ombra mi seguiva, potevo udire i suoi passettini, e anche se le davo le spalle, mi sembrava di vedere il suo sguardo con quegli occhietti marroni e quel largo sorriso da bambina innocente.

— Cosa vuoi bere, dolcezza? — le chiesi, incamminandomi, tirandomi su i jeans e chiedendomi perché l’avessi chiamata in quel modo con cui di solito non si chiamavano le bambine. Forse perché la circostanza era abbastanza scherzosa e allegra, e a quella parola che non sapevo nemmeno se avesse mai sentito la bimba si mise a ridere di gusto.

Era la prima volta che la chiamavo in quel modo. Ma, siccome le piaceva parecchio, decisi che da quel momento in avanti sarebbe stato il suo soprannome. Dolcezza. Mi chiesi quanti ragazzi l’avrebbero chiamata così una decina d’anni dopo.

Giunto in cucina, aprii il frigo e lei mi disse che voleva il latte. Le dissi okay e lei, felice, si diresse allegramente verso il tavolo, sulla sedia ad aspettarmi.

Chissà se beve dal bicchiere o dal biberon, mi chiesi.

— Ehi dolcezza, — cominciai — dove lo bevi il latte, bicchiere o biberon?

Non me ne intendevo molto di bambini, dalla mia parte c’era solo una grande pazienza nei confronti di Jenice.

— Bicchiere! — esclamò lei da lontano.

Aveva iniziato anche a parlare presto, rispetto ad altri bambini. Sapeva anche l’alfabeto, i giorni della settimana e i mesi in ordine esatto, e una volta mi aveva persino detto tutti i numeri in ordine da uno a cento, e io l’avevo anche ascoltata con interesse, non avendo nulla di meglio da fare al momento.

Preso il cartone di latte, versai il liquido fino a metà di un bicchiere vitreo circa, forse un po’ di più, e rimisi il contenitore nel frigo chiudendolo.

Mi diressi con il bicchiere di latte nella mano destra da Jenice, che era impaziente. Mi chiedevo come facesse ad essere sempre così allegra.

Mi sedetti vicino a lei e glielo porsi. Lei lo prese e trangugiò avidamente il primo sorso. Poi però successe qualcosa, lei mi guardò male, prese in bocca una grossa quantità di latte e, avvicinando il viso a me con le guanciotte gonfie e piene del liquido, me lo sputò tutto a mo’ di fontanella sulla maglietta. Dopo averlo fatto, io che ero a bocca aperta, sembrava più che soddisfatta.

— Io lo volevo caldo — disse semplicemente, in tono molto ma molto tranquillo, con i capelli castani raccolti in due treccine ordinate, una a destra e una a sinistra, che venivano sventolate dal movimento del suo capo.

— Se cominci già a quest’età ad usare quel tono siamo nei guai, dolcezza — le dissi senza cattiveria, scherzando.

Avevo troppa pazienza per arrabbiarmi. Specialmente con lei. Lei, che consideravo quasi come la mia sorellina. Ora dovevo pensare a come pulirmi da tutto quel latte che grondava giù per la mia maglietta come goccioline di pioggia grondano giù per un vetro, solo che queste erano molto più abbondanti. Poteva anche dirmelo che lo voleva caldo, accidenti.

 

Sette anni dopo.

Sulla soglia dei vent’anni, me ne andavo in giro fiero sfoggiando J, la mia favolosa chitarra , in giro per i locali con la mia band che si era da poco formata. Eravamo indecisi su parecchi nomi, c’era addirittura chi suggeriva nomi lunghissimi che nessuno si sarebbe ricordato. Comunque, non avevo voglia di pensarci, ma proprio per niente. Cosa fare, per distrarmi? Fare da babysitter alla piccola Jenice, che ormai aveva quasi dieci anni, mi sembrava l’occasione perfetta.

I suoi dovevano andarsene per qualche ora, beh, più tempo era, più soldi ci sarebbero stati per me, anche se in tutti quegli anni la “paga” era rimasta invariata.

Cinque dollari l’ora.

Ogni volta che guadagnavo qualcosa, però, bruciavo tutto subito in qualche sciocchezza che andava di moda al momento.

Non appena la porta dell’ingresso si aprì facendomi entrare, io che avvertivo già il calore interno della casa ed il suo profumo completamente diverso da quello di tutte le altre cose, di lavanda o qualche altro fiore, Jenice gridò il mio nome dal piano di sopra, e cominciai a sentire i suoi veloci passettini mentre correva giù per le scale, e in quei momenti il fatto che cinque anni dopo l’avrei baciata era proprio l’ultimo dei miei pensieri. Io avevo vent’anni, lei dieci. Ma poi avremmo avuto io venticinque anni e lei quindici, e allora sarebbe stato diverso. Sarebbe stato diverso ancora dopo, quando lei ne avrebbe avuti venti, o venticinque, e io trenta, o trentacinque. Intanto però tutti quei numeri nella mia testa non c’erano, non esistevano.

Per l’occasione mi ero portato dietro J, semplicemente perché solo dieci minuti prima avevo finito le prove con la band ed ero volato a casa Ross in un baleno, senza nemmeno passare da me. La bambina non mi creava problemi, io intanto che lei giocava, perché ormai non lo chiedeva più a me, potevo esercitarmi con la chitarra, bastava che ogni tanto la tenessi d’occhio.

Non appena i Ross uscirono di casa, subito Jenice si fiondò addosso a me, era una specie di saluto, il visino che faceva una leggera pressione sulla mia T-shirt giallo canarino. Io ovviamente ridevo di tutto ciò, ignaro che appena lei avesse visto J mi avrebbe chiesto di suonarla. Che strana richiesta, più che altro mi aspettavo che mi chiedesse di provarla lei stessa, ma accettai.

Lei, entusiasta, mi ascoltava armeggiare con le corde della chitarra, le mie lebbra erano incurvate in un leggero sorriso, finché cominciai a suonare l’ultimo brano imparato con la mia band, e mi scappò qualche nota cantata.

Non pensavo che subito dopo mi avrebbe fatto proprio quella richiesta.

Sì, mi chiese esplicitamente di insegnarle a cantare. Fu da allora che, ogni giorno sempre di più, mi convincevo che Jenice avrebbe fatto strada, perché imparava in fretta, e aveva una bella voce, adatta al canto.

Per altri cinque anni andò avanti così, finché non ci fu l’evento scatenante. Il contratto discografico, ovvero.

Contratto discografico, evento scatenante.

Ricordo anche la sensazione di quando me lo dissero, che sarei potuto andare a New York a fare successo, una stretta al petto, il cuore in gola che martellava, sentivo i suoi battiti incontrollati pulsare in tutte le terminazioni del corpo, mi sentivo come prima del primo appuntamento, anzi, peggio, come quando ti puntano una pistola alla testa, anche se non l’avevo mai provato, ma le sensazioni erano positive. Completamente positive. Troppo positive, perché non ci fossero conseguenze.

Dovevo davvero farlo, abbandonare tutto ciò che avevo nella mia città per andare a New York a fare successo? Abbandonare la mia sorellina? Forse sarebbe successo, sì. Quando lo decisi, anche se in realtà avevo deciso senza esserne mai pienamente certo, non mi sentii per nulla tranquillo. Tuttavia non potevo non essere emozionato.

Chissà se prima o poi la dimenticherò, pensavo. No.

Non finirà così.

   
 
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