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Autore: SylverTrinity    13/04/2010    1 recensioni
“Se vuoi delle ali ti donerò le mie” Con queste parole sussurrate iniziò tutto. Finì tutto...
Genere: Dark, Horror, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Angeli di Porcellana

“Se vuoi delle ali ti donerò le mie”

Con queste parole sussurrate iniziò tutto. Finì tutto. Da sempre ho coltivato una passione per le bambole. Non le semplici bambole che tutte le bambine amano, ma le bambole da collezione, fedeli riproduzioni di piccole dame perfette. Vedevo, forse, in esse ciò che io non avrei mai potuto avere. Pelle liscia, occhi brillanti, sguardi ammaliatori, labbra perfette e capelli setosi. Una fanciullezza che unisce innocenza e malizia. Non è forse malizioso resistere negli anni con quella bellezza osservando con distacco gli altri da dentro una teca maniacalmente pulita? Conquistatrici di cuori, non negavo che avessero anche il mio. Da qualche anno avevo deciso di seguire una scuola per imparare a crearle, un mestiere complesso, affascinante e terribilmente redditizio. Ne contavo cinquantatre nella mia casa. Mi ero da poco trasferita in un piccolo appartamento e avevo sacrificato la stanza più grande per loro, dedicando alla mia camera un buco in cui a malapena mi muovevo. Erano loro le padrone di casa, non io, ma erano una piacevole e affascinante compagnia. Seguendo la mia insegnante, in compagnia delle altre signore del corso, ci recammo a un importante mostra di uno dei maggiori esponenti dell’arte che perseguivo. La mostra s’intitolava “Angeli di Porcellana” e la coda fuori dall’ingresso ci trattenne un’ora sotto il sole cocente dell’estate inoltrata. Una volta ottenuto il tanto desiderato biglietto, entrammo nella sala dell’esposizione, buia e fredda rispetto all’esterno. Nella penombra di luci delicate che rievocavano un mondo ultraterreno, ci fissavano decine di occhi di vetro dagli sguardi freddi e brillanti. Solo alcune accennavano un vago sorriso, rimanendo composte nei loro abiti di seta, velluto e organza, ricamati di fili d’oro e argento. Ogni dettaglio mi faceva sentire un nulla: gioielli minuti, gemme preziose, cappellini fioriti, guantini di pizzo e scarpette che erano il sogno di ogni bambina. Sembravano vere, veri e propri angeli di porcellana scesi per mostrarsi e guardarci dalla loro infinita superiorità. Le amavo. Le odiavo. Seguendo il gruppo arrivai innanzi alle protagoniste della mostra. Erano cinque abbaglianti creature dalle ali di piume bianche. I loro sguardi, la loro posizione, evocava misericordia e compassione e, oltre ciò, il desiderio di salvare chiunque volesse cercare nelle loro mani protese un sostegno. Mi persi completamente in una di esse. Capelli che erano onde d’oro su un viso perlaceo. Occhi profondi come il mare, grandi e quasi malinconici. Vestita di bianco e argento, sembrava emanare luce lei stessa mettendo in secondo piano le sue compagne. La fissai con insistenza, sentendo battere il cuore all’impazzata. Fu allora che sentii quelle parole sussurrate da una voce delicata.

“Se vuoi delle ali ti donerò le mie”

Scossi il capo e mi affrettai a raggiungere le mie compagne lasciando la mostra, convinta di aver immaginato il tutto. Due giorni più tardi, mentre stavo cucendo delle calzine per la mia prima bambola, arrivò un pacco inatteso. Titubante lo aprii e sotto una marea di imballaggi protettivi trovai lei, quella bambola angelica. Fui assalita da una forte paura, richiusi la scatola e la misi in un angolo. Solo rimuovendo gli imballaggi notai che tra di essi c’era un piccolo biglietto.

“Le ali che ha richiesto”

Non avevo richiesto proprio nulla! Decisi di lasciar perdere, l’indomani avrei rispedito il pacco al mittente. Nel tardo pomeriggio, però, avevo già cambiato idea. Forse avevano sbagliato a consegnarla, ma era troppo bella per privarmene. Mi ci sarebbe voluta una vita per permettermi una bambola del genere. Il destino me l’aveva regalata, perché contraddirlo? Dopo cena sollevai la bambola dal suo letto di imballaggi e la portai nella sala delle bambole, cercandole un posto degno di lei tra le altre. La mia cinquantaquattresima bambola, un traguardo di tutto rispetto. Come previsto la sua bellezza sembrava annullare le bambole vicine. Mi sentivo colma di gioia, soddisfatta come solo i collezionisti sanno esserlo nel trovarsi per le mani un pezzo raro. Poco dopo andai a letto, stanca e cosciente di dovermi alzare presto l’indomani per raggiungere la città vicina alla ricerca di alcune stoffe che non riuscivo a reperire altrove. Mi ero addormentata da poco, ma avevo un sonno tormentato. Mi rigirai sbuffando e, socchiudendo gli occhi, mi trovai a fissarne a un palmo dalla mia faccia un paio di occhi luminescenti, due fari gelidi. Mi alzai di scatto urlando. Accesi la luce e mi trovai a fissare nella tenue luce del lume del comodino, la bambola che mi era arrivata nella mattinata. Com’era arrivata fin lì? Stava in piedi di fianco al letto e mi fissava con quegli occhi terrificanti. Scesi di corsa dal letto per uscire dalla camera, ma quella bambola mi si parò davanti alla porta spalancando le ali, aprendo le braccia con movenze rigide.

“Sono le tue ali. Sono Amelia”

Sussurrò senza aprire quelle labbra rosate e perfette. Nonostante quel tono dolce e ammaliante, sembrava tutt’altro che angelica negli intenti a me sconosciuti. Aveva un nome, se quello era il suo nome, che avevo sempre amato. Stavo sognando, ne ero certa, ma quella paura era assolutamente vera e minacciava di farmi scoppiare il cuore. Deglutii cercando un modo per scappare, ma la bambola mi aveva praticamente incantata nella sua terrificante bellezza. Le mie ali. Se era un sogno valeva la pena di tentare, forse mi sarei svegliata con una grinta ritrovata che mi avrebbe aiutato a cercare una vita con più ottimismo. Da troppo tempo non riuscivo ad essere felice, non avevo amici con cui uscire, sempre chiusa in casa con le mie bambole. Forse era un sogno voluto per scuotermi dall’attuale apatia. Tesi una mano verso di lei, quasi sentendo le lacrime agli occhi nel ripensare agli ultimi tempi e allo stato in cui mi trovavo.

“Volerai in alto”

Sembrava un augurio promettente. Quelle poche parole mi scaldarono l’anima, mi fecero sorridere e piangere mentre le mie dita sfioravano quelle gelide e minute della bambola. Mi svegliai poco dopo con la luce che filtrava dalle persiane, la luce fredda del primo mattino. Mi rigirai sotto le lenzuola richiudendo gli occhi, ma un attimo più tardi la sveglia mi ricordò che non c’era altro tempo per dormire. Fu una bella giornata, mi sentivo fresca e leggera. Le stoffe che desideravano erano presenti in negozio a un ottimo prezzo, tanto che ne approfittai per prenderne altre per un progetto futuro. Tornata a casa nel pomeriggio mi rimisi al lavoro sulla mia bambola. Mi sorpresi nel fare meno errori del solito, mantenendo un ritmo di lavoro più serrato. A dire il vero, mi sorpresi fin troppo spesso nei giorni a seguire e non solo di come migliorassi nel mio lavoro, ma anche di come finalmente i miei difetti si attenuassero. Mi chiesi se fosse stato merito di qualche crema o shampoo particolare, difficile determinarlo quando ne usi svariati alla ricerca di quel prodotto miracoloso che dimostri almeno metà del valore che decantano nelle pubblicità. Mancavano due mesi al termine del corso, con quell’attestato avrei potuto sperare in una carriera come creatrice di bambole. Non avrei saputo che altro fare, in fondo. In quel lasso di tempo acquistai altre tre bambole e ne creai quattro mie che misi su una mensola del corridoio. Non erano pezzi degni di una collezione, della mia tra l’altro, magari un giorno le avrei vendute. Scoprii che nel mio corso c’erano altre due ragazze che, tutto sommato, mi erano simili e che non avevo mai notato, forse per via del mio solito carattere chiuso. Ci uscii un sabato per andare insieme in un grande negozio specializzato distante diverse ore di treno. A parte gli splendidi acquisti, scoprii che erano una bellissima compagnia e fu l’inizio di un’avvincente amicizia che durò a lungo. Concludemmo trionfalmente il nostro corso, ma solo io presi in considerazione di usarlo per farne un vero e proprio lavoro a tempo pieno. Un anno dopo le mie bambole erano divenute settantadue e io ne avevo create trentatre. Ero sempre più rapida e soddisfatta delle mie creature, tanto che cominciai a dar loro un nome e a tenerle con cura in delle confezioni protette. In quell’anno mi fidanzai con un bel ragazzo. La mia vita finalmente si era animata tra la mia passione, l’amore e l’amicizia e si coronò nelle prime vendite che mi fruttarono più di quanto avessi mai sperato. Di lì a qualche anno riuscii anche a comprare una nuova casa, più spaziosa, e decisi di conviverci col mio compagno. A cinque anni dalla conclusione del corso sfondai definitivamente nel campo a cui mi ero dedicata conquistandomi il nome di “Fata delle Bambole”. Tutti mi osannavano non solo per le mie creazioni, ma per la bellezza che il tempo mi aveva donato rendendomi quasi più giovane, fanciullesca. A sei anni precisi da quella notte, mentre riposavo nella mia stanza con il ronzio del ventilatore a dissipare l’afa estiva, due occhi luminescenti apparvero nel buio fissandomi. Terrorizzata trasalii per poi scuotere il mio compagno, ma lui non si svegliò né si mosse, sembrava quasi morto. Era lei, la bambola numero cinquantaquattro, con le sue immacolate ali bianche e quegli occhi blu che brillavano nel buio. Tutt’ora era la bambola più preziosa della collezione. Il suo creatore era stato ricoverato in ospedale a causa di una malattia rara e l’anno prima era morto. In fondo era ormai vecchio, ma ciò aveva aumentato il valore di quella bambola.

“Sei volata in alto. Hai le mie ali adesso”

Ancora quella storia delle ali. Nel tempo me n’ero completamente dimenticata, ma quel sogno mi fece ricordare il suo arrivo e le sue parole. Era diversa però. Sembrava impaziente, una sorta di misto tra rancore e malinconia. Covava una certa aspettativa, ma non mi sapevo spiegare il perché o cosa io c’entrassi. Convinta che si trattasse ancora di un sogno, decisi di ignorarla, stringendomi al mio compagno e chiudendo gli occhi.

“Anche io mi volterò dall’altra parte”

Sibilò la bambola. Quasi colta da un improvviso senso di colpa, mi volsi, ma di lei non c’era traccia. C’era solamente il ventilatore che girava lentamente combattendo l’afa. Sospirai, presi una pasticca per dormire e chiusi gli occhi stringendomi al cuscino. Il sogno non portò conseguenze. Passarono altri sei mesi perfetti, mi sembrava di vivere una fiaba. Tenni la mia prima mostra con immenso orgoglio mentre col mio compagno progettavamo il matrimonio per quella primavera. Quando mancava appena un mese alla fatidica data, il mio dottore mi prescrisse degli esami per controllare il motivo di alcuni leggeri malesseri alle articolazioni. La mia vita si disintegrò nel momento in cui appresi di avere una qualche malattia dal nome assurdo che mi avrebbe portata a una completa paralisi. Mi rifiutavo di crederci, continuai a vivere come sempre, ma fu inevitabile notare come ogni gesto divenisse sempre più difficile. Mi sposai comunque, ma pochi mesi dopo ero già costretta su una sedia a rotelle. Continuai a creare bambole sempre più velocemente, combattendo con l’intorpidimento generale che mi stava conquistando. Sempre più belle, sempre più colme di disperazione e rabbia. Gli amici, a poco a poco, sparirono senza più il desiderio di avere un’amicizia che richiedeva troppe attenzioni. Mio marito rimase, rimase per i soldi che fruttavo e non per l’amore che speravo. Sentendomi precipitare in un baratro oscuro, diedi vita alle Fate di Porcellana. Era la mia risposta agli angeli… erano ugualmente bellissime, invitanti e terrificanti. Invano cercai di parlare con Amelia, quella maledetta bambola non era altro che una bambola muta e perfetta. La storia dei suoi sussurri fu presa dal mio compagno come la conseguenza della mia disperazione. Mi credeva pazza oltre che malata… tutto ciò era maledettamente ingiusto. Conclusi la mia ultima bambola, la Regina delle Fate, poco prima di perdere completamente l’uso delle mani. Mi ero arresa all’evidenza, ma sotto la mia bellezza fanciullesca, covavo un odio dilagante che avevo trasmesso a quelle bambole. Erano la mia vendetta, come lo erano stati gli angeli di quell’uomo. Forse anche lui aveva ricevuto delle ali che poi gli erano state strappate improvvisamente. Persi l’uso della parola, non so se per la malattia o perché la gola mi si era stretta in un nodo rigido nell’ingoiare così tanta amarezza e rabbia. Svanì tutto meno che la mia bellezza e mio marito la esaltava con abiti ricchi e preziosi. Ero una bambola tra le mie bambole e lui mi teneva come si tiene il pezzo migliore della propria collezione. Ero divenuta ciò che sempre avevo desiderato. Mi rendevo conto solo ora cosa significasse e quale fosse il prezzo. Cosa sarebbe successo se io fossi riuscita a rispondere all’aspettativa di quella bambola? Ormai dubitavo io stessa di quei ricordi, ma al contempo erano la fonte della mia disperazione. L’idea che una reazione diversa avrebbe potuto evitare tutto ciò mi logorava. Amelia non mi parlava, ero veramente pazza. Ogni speranza si spense, infine, quando quella bambola sparì. Denunciammo il furto, ma nessuno la trovò mai da nessuna parte. Vissi la cosa tra un misto di dolore e sollievo. Non sarei mai riuscita ad abbandonarla o a venderla, il destino aveva fatto in modo che sparisse comunque dai miei occhi. Due anni più tardi fui ricoverata in ospedale per una serie di esami. Mi sentivo terribilmente debole mentre mio marito sguazzava nei guadagni derivanti da vendite e mostre che poggiavano sul mio nome. Mi aveva tradito decine di volte con decine di donne. Nonostante ciò in ogni occasione pubblica figurava come il compagno perfetto, dolce e premuroso che teneva a me... come un collezionista tiene alle proprie bambole. Nulla di più. Ero sdraiata su quel letto d’ospedale, quasi nauseata dall’odore di quell’ambiente quando la porta si aprì. Non vidi nulla fintanto che non abbassai lo sguardo. Se avessi avuto voce avrei urlato. Una bambina dai capelli dorati e dai grandi occhi blu, vestita di bianco. Era lei, quella maledetta bambola. Cercai di muovermi, di chiamarla, ma lei mi fissò senza ombra espressiva.

“Amelia andiamo”

La richiamò una voce dal corridoio. Il cuore mi si fermò un istante nel constatare che era proprio lei. La bambina se ne andò richiudendo la porta, lasciandomi lì a urlare il suo nome muto tra le lacrime. Solo due ore più tardi mi rassegnai, ma la mia quiete si era rotta con il ritorno di quella bambola che ora appariva come una bambina in carne e ossa. Nella notte, però, lei tornò. Nel silenzio la porta si schiuse e si richiuse alle spalle di quella creatura. Aveva nuovamente quegli occhi terrificanti mentre si avvicinava a me. Aiutandosi con una sedia salì sul mio letto. La luce che filtrava dalla finestra brillò su un pugnale che la bambina stringeva tra le mani, perfetto come lo era lei, argento e smeraldi a decorarlo.

“Per colpa tua sono malata. Per colpa tua vivrò solo pochi anni”

Sibilò Amelia fissandomi con odio, l’odio che incendiava quegli occhi brillanti che mi fissavano come fossero quelli di una belva pronta ad azzannare la sua preda. In quel breve istante compresi che il suo creatore non era morto per colpa delle bambole, né le aveva create con odio come le mie fate. Lui aveva scoperto l’anima delle bambole, lui aveva creato bambole capaci di vivere tramite l’amore dei loro proprietari, ma io avevo fallito nell’aiutare quella bambola a realizzare il suo sogno mentre lei mi aveva fatto realizzare il mio. Avevo paura, ma questa era sopraffatta dal senso di colpa verso quella creatura a cui avevo causato sofferenza. Non potevo dirle nulla, piangevo nel silenzio tremando. Piangeva lei stessa per motivi simili e diversi e fu quell’odio e quella coscienza di una fine prematura a spingerla a colpire una volta, due, tre… infinite volte, sfogando quella rabbia uccidendone la causa con foga. Sembrava la scena di un film dell’orrore, ma ero certa che fosse la realtà. Il dolore scomparve dopo i primi colpi mentre il sangue sprizzava ovunque e mi avvolgeva nella sua calda carezza vischiosa. Osservai il soffitto mentre la vita scivolava via. Non odiai quella bambola perché aveva ragione lei e io ero più che certa di meritare quella punizione. Cosa sarebbero divenute le mie bambole? Avrebbero avverato i sogni dei loro proprietari o sarebbero state la loro rovina, animate fin dalla nascita da odio e frustrazione? Mentre chiudevo gli occhi allungai un braccio, nuovamente leggera come quel giorno di svariati anni prima. Strinsi a me quella bambina. Sentii il suo corpo irrigidirsi, tornare freddo e fragile. Da carne nuovamente a porcellana. Aveva usato le sue energie dei prossimi anni per sfogare la rabbia che l’avrebbe resa solo un mostro. Chiusi gli occhi e mi spensi definitivamente. L’indomani i giornali avrebbero recitato

“La Fata delle Bambole è stata uccisa da un Angelo di Porcellana”

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___psycho - Io adoro le bambole di porcellana, ne ho qualcuna, ma non potrei mai tenerle in camera, il loro sguardo mi impedirebbe di dormire >,< la madre del mio fidanzato ne ha molte e le ama. Mi fa piacere che sia stata di tuo gradimento *-*
  
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