Giochi di Ruolo > Vampiri: la masquerade
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Autore: ThePandaGurl    16/04/2010    0 recensioni
La sua non-vita, anche se iniziata con rabbia e dolore, era per lei un nuovo dono, una seconda possibilità. E non l’avrebbe sprecata, per nessun motivo al mondo. \\ Kanon è un nome che in Giapponese vuol dire "Neve". E quella ragazza era proprio così: pura e candida come la neve. Ma non era destinata a rimanere così per sempre. Ormai quella neve così meravigliosa era diventata sporca, intrisa di sangue. \\ [ Biografia per il GdR sui Vampiri www.nightproject.net ]
Genere: Romantico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Kanon è cambiata molto, rispetto a quando era bambina. Non le importava nulla degli altri, le bastava sorridere perché tutto andasse bene, vedeva sempre il bicchiere mezzo pieno. Era rimasta orfana, non aveva mai conosciuto i suoi genitori, ma nell'istituto dove aveva vissuto quei primi sei anni della sua vita erano tutti stati così gentili con lei. Ma bastò un momento: un momento in cui tutto cambiò.

Due gemelli di dieci anni, i cui genitori erano morti in un incidente stradale, arrivarono all'orfanotrofio proprio il giorno prima del compleanno della bambina. Kanon li accolse con un sorriso: voleva fare di tutto per farli sentire a casa, proprio come si era sentita lei fin dal primo istante. Ma i ragazzini, gli occhi ancora gonfi di lacrime per la tragedia che avevano visto consumarsi davanti ai propri occhi, risposero all'unisono a quell'invito gentile: una risposta secca, per niente cortese, colma d'odio.

"Come possono covare dentro di sé tanto odio e rancore già a questa tenera età e per giunta con me, che non avevo mai rivolto loro la parola prima d'ora?" pensava, affranta. Nei giorni successivi aveva tentato di avvicinarsi di nuovo a loro, rivolgere loro la parola, ma niente: continuavano a trattarla freddamente. Quando un giorno uno di loro arrivò perfino a picchiarla, procurandole una ferita sulla guancia, non se la prese con loro, né li picchiò di rimando: si limitò ad abbassare la testa e ad allontanarsi, sconfitta. “Alla violenza non si risponde con altra violenza”, pensò tra sé.

Nei giorni successivi se ne stette rannicchiata in un cantuccio, fissando il pavimento bianco, gli occhi gonfi e lividi: l’orfanotrofio, che era stato per così tanti anni la sua casa, stava diventando una prigione, una tortura dalla quale non sarebbe mai più stata salvata…

La mattina andava in bagno a lavarsi, rubava dalla mensa un cornetto e un po’ di succo di frutta, e ritornava nella stanza da letto che condivideva con altre tre bambine: queste ultime, stando fuori a giocare tutta la giornata, non si accorgevano di niente. Kanon avrebbe voluto urlare: “Aspettatemi! Vorrei tanto giocare con voi!”, ma era come se qualcosa la bloccasse, la tenesse chiusa in quel luogo. La ragazzina solare ed allegra che era sempre stata si stava trasformando in ciò che non era: una bambina timida, introversa e solitaria.

Essendo di corporatura gracile, un po’ perché non mangiava molto, un po’ perché era sempre stata così di natura, era facile per lei nascondersi sotto al suo letto, in modo che, se fosse entrato qualcuno, non l’avrebbe mai vista, rannicchiata a mangiare il suo pasto rubato..”Non è rubato, è solo preso in prestito!” pensava, forse più per convincere se stessa, piuttosto che per trovare una frase da usare nel caso qualcuno l’avesse scoperta… come se poi sarebbe stata in grado di restituirlo, quel cibo!

 

Andò avanti così per circa un anno: restava lì, tutto il giorno nascosta nella sua camera..che ormai era diventata a tutti gli effetti la sua prigione: aveva troppa paura di uscire fuori, al sole, dove gli altri avrebbero potuto vederla, e riconoscere in lei la debole e gracile ragazzina sempre vittima dei due “bulli”, che ormai avevano familiarizzato con tutti. Era convinta che sarebbe andata così per sempre.. fino a quando non arrivò Lui.

 

Era una giornata d’estate, come tutte le altre, all’orfanotrofio, e Kanon si era svegliata di buon mattino, pronta a commettere il suo “furto” quotidiano: doveva pur mangiare qualcosa, no? E quella mattina il suo stomaco brontolava più del solito! Scese dal letto a piedi nudi, e, poiché sentiva molto trambusto provenire dal cortile, si avvicinò alla finestra e, delicatamente, scostò la tenda di un rosa chiaro, ma nello stesso tempo opaco. Una folla numerosa era riunita in cerchio, incuriosita… la bambina si chiese cosa fosse successo, e, approfittando dell’assenza generale, uscì dalla camera, facendo ben attenzione a non fare rumore chiudendo la porta, scese le scale in punta di piedi, e giunse in cucina. Si avvicinò cautamente alla porta d’ingresso, il cuore le martellava forte nel petto: cosa avrebbe fatto se l’avessero scoperta? Beh, quello non era il momento di pensare ad una cosa simile: la cosa più importante, allora, era scoprire il motivo di tanto fracasso, il motivo di tutte quelle attenzioni. Aprì la porta solo un po’, lasciandola socchiusa quanto basta per poter scorgere qualcosa: qualcuno si stava facendo strada tra la folla… e si stava avvicinando all’ingresso! Era un bambino, un bambino che Kanon non aveva mai visto prima…probabilmente era un nuovo arrivato, naturalmente centro dell’attenzione di persone che, passati due anni dall’arrivo dei gemelli, non avevano avuto occasione di accogliere nessun altro all’interno dell’istituto. Kanon era paralizzata dalla paura, dal terrore di essere scoperta, e non riuscì a muoversi neppure quando il nuovo arrivato aprì la porta con fare calmo e delicato. Alzò la testa e, con gli occhi lucidi e rossi, rimase lì a guardare la moltitudine di persone accalcate sull’uscio, che la fissavano a bocca aperta e con gli occhi sgranati. Ecco, l’avevano scoperta. Tutti quegli anni di esercizio per riuscire finalmente a passare inosservata, sprecati per nulla.

 

 

Dalla folla sconcertata iniziarono a farsi strada sussurri confusi e parole affrettate, le uniche distinguibili nitidamente erano: “Ecco dov’era finita!”, “Pensavo fosse scappata!”, “Ma non era morta?”, “Ma chi è?”…e molte altre che di certo non starò qui ad elencare, visto che non possono essere ripetute, per quanto fossero colme di disprezzo e insensibilità verso quella “piccola ladruncola”, come la definivano loro.

Il bambino, quello nuovo, si voltò e fulminò con lo sguardo tutti i presenti, come se stesse ad ammonirli, a dirgli: “Non vedete come è terrorizzata? Siete sicuri di essere voi quegli adulti che dovrebbero insegnarci cosa il rispetto e l’amore, la fiducia, siano? Io ho qualche dubbio che siate davvero in grado di farlo!”

Ed è proprio vero che uno sguardo dice tutto, dato che quelli ammutolirono all’istante!

Poi si voltò di nuovo verso la bambina e le sussurrò dolcemente: “Il mio nome è Sohei…qual è il tuo?”

“…Kanon” rispose lei, rivolgendogli un’occhiata fugace, lo sguardo un istante dopo rivolto nuovamente alle consumate assi di legno del pavimento.

“Tranquilla, Kanon, ora non hai più nulla da temere.” Le disse poi, e compì un gesto che lasciò la ragazzina senza parole: senza troppi pensieri e spiegazioni, alzò il braccio e posò la sua piccola mano sulla testa di lei, come a rassicurarla, in un gesto d’affetto.

E a Kanon sembrò che Sohei fosse giunto lì davvero per salvarla, per rendere di nuovo quel luogo la sua casa, e fu quella la prima volta che la vista le si offuscò, gli occhi si fecero ancora più lucidi e sentì qualcosa di caldo scendere lungo le sue guance. Si sfregò gli occhi con le mani. Stava piangendo. Piangeva per la prima volta: non aveva mai pianto, mai, neanche una volta, neanche quando i gemelli la picchiavano, o la trattavano male, neanche quando, nascosta sotto il suo letto, veniva oppressa dalla solitudine, neanche quando sembrava che le consumate assi di legno del pavimento scricchiolassero apposta per crollare sotto il suo peso. E, la cosa più strana era che non piangeva perché era triste, ma perché sentiva che, dopo tutto quel tempo, c’era ancora qualcuno disposto a volerle bene : piangeva di felicità.

In un gesto automatico, e con le lacrime che scendevano più copiose che mai a rigarle il volto, si gettò tra le braccia di quel bambino così buono e gentile, e si sentì ancora meglio quando si accorse che lui la stringeva forte a sé.

Il giorno dopo, quando uno dei due gemelli tentò di sferrarle l’ennesimo pugno in faccia, quella bambina così innocua lasciò tutti a bocca aperta. Si era avvicinata, e aveva sussurrato: “Prendi questo, Kevin!”. Quest’ultimo non riusciva a capire cosa significassero quelle parole, ma un istante dopo fu tutto più chiaro: Kanon fece un respiro profondo, e gli sferrò un pugno così forte che il “povero” Kevin finì dritto dritto sul pavimento, sanguinante. Da quel giorno in poi, chissà perché, nessuno osò più avvicinarsi a lei per darle fastidio.  

 

Con il passare dei giorni, il rapporto di Kanon e Sohei non fece che migliorare: la mattina facevano colazione insieme, il pomeriggio pranzavano insieme e la sera cenavano insieme. Non era permesso loro dormire insieme, altrimenti non ti nascondo che l’avrebbero fatto, legati com’erano. Sohei era la famiglia di Kanon, e Kanon era la famiglia di Sohei. Non avevano più bisogno di nient’altro, se avevano la reciproca compagnia.

Ma purtroppo, il destino volle spezzare quel legame che tutti reputavano inseparabile.

 

Quel giorno era il quindicesimo anno di vita per Kanon, ed il sedicesimo per Sohei: erano cresciuti così tanto, che ormai credevano impossibile che qualcuno potesse ancora desiderare di adottarli, oramai erano fin troppo legati l’una all’altro, non potevano vivere separati.

Era appena iniziata la primavera, perché era proprio il giorno della fioritura dei ciliegi, e giunse all’istituto una coppia: dicevano di essere pronti per l’adozione; non volevano portare con loro un bambino, perché sarebbe stato difficile allevarlo; ne cercavano uno ormai maturo e responsabile, da amare come se fosse stato un loro figlio. Dopo minuti che sembravano essere interminabili, presero la fatidica decisione: era Sohei il più adatto ad andare a casa con loro.

Questa notizia raggelò Kanon, ma non poteva farci niente: se ne sarebbero andati quella sera stessa. La famiglia Kobayashi risiedeva a Tokyo, ma, per motivi d’affari, dovevano trasferirsi in America, a Los Angeles. Ciò significava che Kanon non avrebbe mai più potuto rivedere il suo amato Sohei.

Stavolta piangeva davvero per la tristezza. Non poteva andarsene, era tutto quello che le era rimasto. Era il suo sole durante il giorno, la sua luna durante la notte, la sua stella cometa….era la sua vita. Era davvero quello ciò che era chiamato amore? Avvampò al solo pensiero. Eppure non c’era altra spiegazione a quella sua tristezza improvvisa, quel suo timore misterioso. Si avvicino a lui: “Devi proprio andare..?” biascicò, con voce tremante.

“Sembra di si” rispose il ragazzo, e sembrava nervoso quasi quanto lei. Era dunque arrivato il momento dell’addio.

“..Sayounara.” sussurrò Kanon.

“Non c’è bisogno di dirsi addio” disse Sohei “ è solo un arrivederci. Ci rivedremo, ne sono sicuro”. Sorrise. Non era il sorriso che Kanon conosceva, così splendente che sembrava potesse accendere il mondo intero. Era un sorriso triste e preoccupato. Ma la ragazza non disse niente, preferì lasciare le cose com’erano, illudendosi che un giorno sarebbe davvero potuta accadere, la loro riconciliazione.

“E’ una promessa?” chiese poi.

“Si, è una promessa”

“Guarda che ci conto, eh?”

Il ragazzo rispose con un altro sorriso, che stavolta accese il cuore di Kanon. Eh, si, si era proprio innamorata. Ma non poteva dirglielo, non proprio in quel momento...

“Ci vediamo!” Sohei la salutò per l’ultima volta, con la mano, e, quando l’enorme porta dell’istituto si chiuse con un fragore assordante, a Kanon sembrò che le cadesse il mondo intero addosso.

 

La sua vita ritornò quella di un tempo, senza Sohei. La sua felicità era partita in America con lui… per un anno intero ritornò a vivere in disparte, per i fatti suoi.

Ma si era accorta già da tempo che non poteva continuare così.

Era notte fonda, tutti dormivano. Tutti tranne Kanon. Si era preparata già da tempo a quella circostanza. Era pronta per fuggire via. Destinazione: Los Angeles. Non sapeva se avrebbe mai potuto incontrarlo di nuovo, ma almeno si sarebbe sentita più vicina a lui. Perché la lontananza la stava uccidendo. Era stanca di vivere sotto un cielo buio e spento. Voleva indietro il suo sole. E sarebbe andata a riprenderselo.

Si calò giù dalla finestra utilizzando un lenzuolo come corda, e salì sull’aereo per Los Angeles delle 4 del mattino dopo aver comprato il biglietto, ovviamente. Non avrebbe mai più sentito nelle narici l’odore di muffa del soffitto bianco pieno di condensa di quello stupido orfanotrofio. Mai più.

Arrivò a destinazione ancora più stanca di prima. Si sentiva come se avesse preso la decisione sbagliata. In fondo quel posto, per quanto facesse schifo, era pur sempre la sua casa. “Ma no”, pensò “E’ meglio così. In fondo è quello che voglio, no?”.

C’era solo un piccolo problema: dove avrebbe alloggiato, da quel momento in poi? Sarebbe riuscita a comprare una casa, con i suoi risparmi?

Non era una ragazza responsabile. Aveva smesso di pensare a ciò che era giusto molto tempo fa. Essere buoni non serviva proprio a niente. Sono proprio i buoni ad essere sfruttati, usati e malmenati. L’aveva imparato sulla propria pelle. Lei era diversa. Lo era diventata per scelta. Decise di tingersi i capelli: non più quel castano scuro, quasi nero, comune a tutti gli Asiatici. Ora i suoi capelli erano chiari, di un colore quasi rossiccio, lunghi e pieni di gel e lacca.

Non ricorda come fosse entrata a contatto con un Vampiro. Fatto sta che è successo.

Ricorda, però, che qualcuno aveva tentato di salvarla: era alto, e bello come un angelo. Le sorrideva, con quei suoi occhi color nocciola, i capelli di un castano così scuro da sembrare nero, lunghi ma non troppo.. lo riconobbe subito, nonostante fossero passati anni. Come aveva fatto durante il loro primo incontro, le poggiò delicatamente una mano sulla testa: “Ti amo. Abbi cura di te. Questa è l’ultima volta in cui posso proteggerti”, e cadde a terra, colpito.

Avrebbe voluto dire, urlare che anche lei l’amava…Ma tutto ciò che riuscì a fare fu sussurrare: “Sohei..”

“SOHEI!”, urlò, con voce soffocata, piangendo tutte le lacrime che aveva trattenuto per troppo tempo, ormai. Si, aveva tanto desiderato rivederlo, ma non in quel modo. Non in quel momento. Si rese conto che era giunto davvero il momento dell’addio.

Fu in quel momento che venne aggredita.

L’Abbraccio fu violento e doloroso. Il sangue le ribolliva nelle vene, il cuore le martellava nel petto e le ossa bruciavano. Poi per il dolore svenne, o forse si addormentò. Il suo sire era un Sabbat, e Kanon imparò presto cosa fosse la violenza e la crudeltà. All’inizio tentò di opporsi, ma poi capì e iniziò persino a condividere il loro pensiero. Odiava profondamente il suo sire, per tutto il dolore che le aveva causato, ma stranamente nutriva per lui anche un profondo rispetto, perché l’aveva salvata da una vita che non conosceva, che non le aveva portato nient’altro che sofferenza. Aveva imparato che prima o poi tutte le persone amate se ne vanno. Quindi da quel momento decise che non avrebbe amato mai più nessuno. Nacque una nuova forza in lei, alimentata dall’odio e dalla rabbia, per combattere non si sarebbe servita di pistole o fucili: le bastavano i suoi pugni stretti, stretti come erano i suoi denti nei momenti di difficoltà. Ma l’arma più potente era la sua mente, capace di concepire strategie nemmeno lontanamente immaginabili per un umano.

La sua non-vita, anche se iniziata con rabbia e dolore, era per lei un nuovo dono, una seconda possibilità. E non l’avrebbe sprecata, per nessun motivo al mondo.

  
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