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Autore: Broderick    20/04/2010    2 recensioni
Lui chi è? non importa. Importano solo la sua corsa, il suo obiettivo… e che non si fermerà mai. Questa è la mia prima storia su efp, già pubblicata ed ora un pochino migliorata, se non altro nell'impaginazione… un grazie a BizzarreBiscuit che mi ha recensito per prima e mi ha fatto notare alcuni problemi, che ho iniziato a correggere, anche se non ho ancora finito.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Scese dall’autobus e guardò l’orologio: aveva ancora tempo, quindi si avviò con calma alla fermata dell’altra linea. L’aria era fredda e trasportava l’odore delle caldarroste che erano vendute a quasi tutti gli angoli.

Voltò l’angolo in tempo per vedere l’autobus che doveva prendere caricare gli ultimi passeggeri e partire. Lui aveva tempo, ma non era sicuro che, ora che aveva perso l’autobus, gli sarebbe bastato: non aveva idea di quanto tempo sarebbe passato fino al prossimo arrivo. Si mise a correre: non troppo piano, perché aveva ancora un bel tratto di strada da percorrere, ma nemmeno troppo veloce, perché altrimenti si sarebbe stancato a metà strada.

Le suole battevano ritmicamente sul suolo duro, il suo respiro era regolare e seguiva uno schema ben preciso: piede destro, inspira, piede sinistro, inspira, piede destro, espira, piede sinistro, espira.

Forse lei non se la sarebbe presa se lui fosse arrivato un pelo in ritardo a causa dell’autobus, anzi, quasi sicuramente, ma per lui la puntualità era davvero importante e non voleva prendersi il rischio di aspettare un autobus di cui non conosceva l’orario.

All’inizio, le sue gambe rispondevano bene e si mangiavano grossi tratti di strada ad ogni falcata, i suoi polmoni pompavano instancabili, le sue braccia oscillavano per imprimere al suo corpo una maggiore forza nello spostamento, i piedi battevano sul cemento facendolo vibrare e producendo dei sordi tonfi, a ritmo con il suo battito cardiaco.

Dopo un po’, il continuo colpire il cemento con i piedi iniziò a dargli fastidio: la forza dei piedi che battevano sul terreno si trasmetteva a quest’ultimo e, non potendo sfogarsi in altro modo, rimbalzava nei piedi di lui, facendogli vibrare leggermente le ossa, vibrazioni che si trasmettevano anche alle gambe che, alla lunga, iniziarono a far male.

L’ossigeno non bastava più a nutrire le cellule, che ora dovevano produrre energia dagli zuccheri senza ossigeno, creando così acido lattico che si accumulava fino a creare la fastidiosa sensazione di fatica muscolare. I polmoni provavano a chiedere maggiori quantità d’aria, intanto che le gambe s’indolenzivano e le braccia cominciavano a stancarsi.

Ogni suo pensiero era impiegato nella corsa, era concentrato sulla sua meta e sugli eventuali ostacoli che potevano trovarsi sul percorso, ma una parte sempre più grande della sua mente era distratta dalla crescente sensazione di disagio.

Il continuo movimento dei suoi muscoli arrivò a produrre una tale quantità di energia termica da sovrastare il freddo dell’aria circostante, così che il corpo, percependo il surriscaldamento, iniziò a secernere piccole gocce di sudore su tutte le parti più calde dell’epidermide, per ridurre il calore.

Oscillare le braccia per ridurre il quantitativo di energia che le sue gambe dovevano usare per fare un passo iniziò ad essere sempre più insostenibile per le braccia stesse.

Sapeva però che, se si fosse fermato per riposarsi, gli sarebbe stato difficile riuscire a ripartire in tempo, così sarebbe arrivato in ritardo, cosa che voleva evitare assolutamente.

Forse era già in ritardo: gli sembrava che fosse passato troppo tempo da quando aveva perso l’autobus, ma non aveva il coraggio di guardare l’orologio, un po’ per paura di ciò che vi avrebbe potuto scorgere, un po’ per paura di interrompere fatalmente il ritmo delle sue braccia.

Le vibrazioni che il terreno duro riflettevano sulle sue ossa iniziavano a dargli una sensazione di dolore ai talloni, alle caviglie ed alle ginocchia.

Qualunque cosa trovasse sulla sua strada, non si fermava, rallentava piuttosto, ma non si fermava.

La fatica muscolare si mescolò al dolore alle gambe provocato dal duro cemento, dandogli sempre di più il bisogno di fermarsi. Il sudore iniziava a dargli prurito, ogni fase della respirazione diventava pesante come un macigno, l’ossigeno, già scarso per i muscoli, iniziò a mancargli anche al cervello, dandogli un leggero capogiro.

Ma lui non voleva fermarsi, non poteva fermarsi, non doveva fermarsi.

Gli veniva in mente l’inseguimento di Aragorn, Legolas e Gimli de “Il Signore degli Anelli” dietro ai terribili Uruk-ai, che avevano catturato i loro due amici Hobbit. I tre avevano corso senza mai fermarsi per giorni e giorni. Ma lui non aveva la forza della stirpe di Numenor, come Aragorn, ne’ la leggiadria degli Elfi, come Legolas, ne’ la resistenza dei Nani, come Gimli. Tuttavia, resisteva.

Vedeva già l’ultima curva, l’ultimo angolo da doppiare prima del suo arrivo, ma era ancora lontano e lui non sapeva se gli sarebbero bastate le energie.

Gli venne in mente una vecchia canzone di Edoardo Bennato, che diceva:

 

“Non farti cadere le braccia,

Corri forte ma più forte che puoi.

Non devi voltare la faccia,

Non arrenderti né ora né mai.”

 

Le parole del cantautore napoletano gli ridiedero il coraggio necessario a tenere per gli ultimi metri.

Voltò infine l’ultimo angolo e si appoggiò al muro, ansimando e sentendo ogni respiro fendergli il petto come una lama rovente, nonostante l’aria continuasse ad essere gelida.

Si guardò intorno, con il respiro ancora affannoso, ma non vide alcuna traccia di lei.

Guardò infine l’orologio che teneva al polso sinistro. Era arrivato alcuni minuti in anticipo.

Un autobus della stessa linea di quello che aveva perso si era appena fermato a scaricare passeggeri a pochi metri da dove lui si trovava.

Se il suo respiro non fosse stato pesante come un’incudine dei giganti, si sarebbe preso la libertà di mettersi a ridere.

   
 
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