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Autore: Frytty    21/04/2010    6 recensioni
Si ripeteva che doveva essere il caso, si, proprio il caso, quello in cui credevano milioni di persone. Non c'era altra spiegazione. Nel suo vagabondare era finita proprio nella città che più odiava: strano. Ma Londra, per quanto non le andasse giù, e per quanto odiasse i suoi abitanti, le piaceva davvero. Aveva sorpreso anche lei questo pensiero.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Robert Pattinson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salve ragazze? Come va? Per quanto mi riguarda direi piuttosto bene, anche se domani parto per Praga per cinque giorni e non potrò scrivere, ma va bene lo stesso, in fondo è pur sempre la gita dell'ultimo anno e ci si può mai perdere la gita dell'ultimo anno?!? No xD, per cui, direi che ero quasi obbligata ad andarci (ciclo a parte, ma credo che, purtroppo, mi seguirà anche lui xD). Passando alle cose serie, eccomi di ritorno con una (si spera) bella Ff sul nostro Robert Pattinson *_* che dire, la mia fantasia su di lui non ha proprio limiti, specialmente quando poi sogno una cosa del genere... lo scoprirete leggendo, temo xD, perché non ho intenzione di anticiparvi nulla *risata malefica alla Crudelia Demon* xD! Purtroppo, mi duole dirlo, ma non potrò leggere le recensioni che, spero, vorrete lasciarmi, se non fra una settimana, come, del resto, non potrò aggiornare prima di mercoledì prossimo, cosa che mi pesa enormemente, anche perché ho già tutte le idee in testa e non poter avere una tastiera a portata di mano è davvero un trauma per me ç_ç. Spero solo che questi giorni volino, così appena ritorno e disfo la valigia, mi siedo davanti al pc e non mi ci scollo nemmeno se mi regalano Robert in persona (oddio, adesso non esageriamo xD)! Delirio a parte, si nota che ho proprio bisogno di questi cinque giorni di vacanza, vero???, direi che posso lasciarvi anche al primo capitolo.

Spero commenterete in tante e spero che la Ff vi affascini al punto da farmi sapere cosa ne pensate *_* Ovviamente, da questo momento in poi, sul blog Making a Memory troverete gli spoiler concernenti anche i capitoli di questa Ff.

Detto questo, vi lascio davvero al primo capitolo. Un bacione e alla prossima settimana *_*!

 

She Holds A Key


Charis pizzicava le corde della sua chitarra acustica con devozione e totale trasporto. 

 

Il mondo in cui la sua fedele Ibanez riusciva a trascinarla era qualcosa di impagabile e di assolutamente appagante, in tutti i sensi.

 

Le sue dita lunghe, sottili, bianche, pizzicavano le corde dolcemente, producendo una melodia quasi mistica, fuori dal tempo.

 

Il Tamigi scorreva placido, con il suo lento sciabordare, alle sue spalle, cullandola.

Aveva gli occhi chiusi, Charis, e non si preoccupava del vento freddo che le scompigliava i capelli e che la infreddoliva e la faceva tremare.

Charis adorava vagare senza meta e dare poca confidenza agli estranei, soprattutto gli stranieri. Gli stranieri per lei erano gli inglesi, in particolar modo.

Per lei che veniva da New York, fedele americana, era inconcepibile persino il modo di camminare di un inglese. Non che avesse dei pregiudizi, per carità! Non era quel genere di persona: preferiva conoscere prima di giudicare, ma gli inglesi davvero non riusciva a sopportarli, e se qualcuno le chiedeva come ci era finita a Londra, preferiva fare spallucce e non rispondere.

Si ripeteva che doveva essere il caso, si, proprio il caso, quello in cui credevano milioni di persone. Non c'era altra spiegazione.

Nel suo vagabondare era finita proprio nella città che più odiava: strano. 

Ma Londra, per quanto non le andasse giù, e per quanto odiasse i suoi abitanti, le piaceva davvero. Aveva sorpreso anche lei questo pensiero.

Le luci del Bin Ben al tramonto, la ruota panoramica che riusciva ad intravedere in lontananza, dall'altro lato del fiume, l'odore salmastro del Tamigi, le classiche cabine del telefono rosse disseminate per i marciapiedi, gli autobus a due piani carichi di turisti entusiasti, la musica e l'aria di libertà che si respirava nei vicoli, la frenesia delle persone la mattina presto, già dall'alba.

Quel giorno aveva scelto una delle caratteristiche vie panoramiche della città, quella che affacciava sul Tamigi e dal quale si intravedeva la ruota panoramica illuminata. Poco più avanti c'era qualcuno che scattava foto ed una coppia che si teneva per mano a testa bassa.

Aveva steso a terra il suo solito foulard malridotto e ci si era seduta sopra, estraendo la chitarra dalla sua custodia, aprendola accanto a lei, e prendendo a suonare, come faceva di solito.

Non aveva scelto di diventare una vagabonda: era successo.

Anche questo un caso, per come la vedeva lei.

Viaggiare, d'altronde, le era sempre piaciuto. E suonare anche.

Aveva speso tutti i risparmi di una vita, come ripeteva sempre a chi glielo domandava, per comprare quell'Ibanez acustica: Kimberly. Era così che l'aveva chiamata, anche se non riusciva a ricordare il perché. Le dava un senso di forza, di potere e, se ci pensava attentamente, le arrivava l'eco di qualcosa che aveva sentito a scuola, forse, circa una tizia con quel nome, ma ovviamente la scuola era tempo passato, ormai, e non poteva certo ricordarsi tutto.

Comunque era un nome che le piaceva e questo poteva bastare.

Non ricordava nemmeno quand'era stata l'ultima volta che aveva passeggiato per le strade della sua città. New York era come un regno troppo lontano adesso, nel quale non riusciva più ad immedesimarsi. Aveva lasciato tutto lì, o forse niente, fatto sta che non aveva rimpianti di alcun genere: aveva dimenticato i volti dei suoi genitori e aveva dimenticato i volti dei suoi amici, così come le strade trafficate, i negozi chic, le bancarelle dei mercati di quartiere, Central Park e le sue paperelle nello stagno e l'erba soffice, l'odore dolce dei libri nella biblioteca che amava frequentare, i pub il sabato sera con le amiche, il suo primo bacio, il venticello fresco che ti scompigliava i capelli, ma che non dava fastidio... aveva dimenticato, anche se dimenticare è una parola troppo forte.

Aveva voluto farlo? Questo sì, magari questo poteva anche accettarlo, eppure l'aveva fatto e tornare indietro avrebbe complicato le cose. E poi, lei, Charis, non era una che si tirava indietro alla prima difficoltà.

Posò la chitarra nella custodia, racimolando le poche monete che, generosamente, qualche passante le aveva lanciato, infilandosele in tasca, e si alzò, sistemando le sue cose e godendosi per un solo attimo l'atmosfera tranquilla e pacifica del fiume di notte.

I soldi non le servivano. Più che altro camminava e proprio quando aveva la necessità di prendere un aereo o cose simili, utilizzava la carta di credito di suo padre che aveva avuto la furbizia, o forse la stoltezza, di sfilare dal suo portafoglio prima di partire, prima di abbandonarlo. Sapeva che così sarebbe stato più facile rintracciare i suoi spostamenti, ma sapeva anche che i suoi non l'avrebbero cercata per il momento. In fondo, non gli era mai importato veramente di quello che facesse o non facesse. E, comunque, c'erano anche i treni per spostarsi, o gli autobus, o le metropolitane. Gli spiccioli servivano per mangiare e quando non ne arrivavano a sufficienza, poteva sempre fare finta che sua madre l'avesse messa in punizione mandandola a letto senza cena, come faceva di solito.

Charis aveva disimparato a lamentarsi: insomma, i bambini si lamentano, non gli adulti e lei era perfettamente cresciuta, capace di badare a se stessa, perciò non bisognava più dei capricci per convincere qualcuno per cui credi di essere importante a comprarle le caramelle.

Chitarra in spalla, prese a camminare diritta verso il ponticello di legno umido che l'avrebbe condotta nel The Brown Dog, il pub in cui amava rifugiarsi prima di cercare un posto sufficientemente comodo per trascorrerci la notte. Londra era una così grande città, che davvero non riusciva a capacitarsi di come avesse potuto scegliere uno dei locali più distanti dalla capitale, nel vicino villaggio di Barnes, ma le aveva trasmesso subito quell'atmosfera di complicità e familiarità che l'avevano attratta e anche se era sempre buio pesto in quei dintorni, e di certo non poteva nascondere la paura e il leggero tremolio che le coglieva le gambe, fasciate dai soliti jeans chiari troppo leggeri per la stagione londinese, amava andarci quando poteva spendere qualche soldo per un pasto caldo.

Avrebbe preferito uno di quei pub dove facevano musica dal vivo, ma non era ancora abbastanza pratica del posto, e non era particolarmente loquace, perciò non aveva domandato a nessuno e aveva preferito accontentarsi.

Un'ondata di calore la investì appena spinse la porta in legno per fare il suo ingresso, stupendosi della folla accalcata intorno al bancone principale. Di solito era quasi vuoto.

Si trascinò fino all'ultimo sgabello libero, poggiando la sua chitarra lì vicino e accomodandosi, guardandosi intorno con aria circospetta e prendendo a torturarsi le mani l'attimo successivo. Lo faceva sempre quando aspettava.

< Ciao, Charis! Il solito? > La distrasse la voce di Kendy, la cameriera, o la barwoman. Per Charis non faceva differenza.

Annuì e incrociò le braccia sul legno scuro, osservando il gruppo di ragazzi alla sua destra che faceva tintinnare i bicchieri di birra l'uno contro l'altro e sorrideva.

< Come mai tutto questo affollamento, stasera? > Domandò, tornando con lo sguardo a Kendy che le stava preparando il piatto.

< Oh, beh, niente di speciale, suppongo. Sono il solito gruppo di ragazzi del giovedì. Non li avevi mai incontrati prima? > Sistemò l'insalata in un angolo del vassoio con una forchetta e afferrò il contenitore delle patatine fritte alla sua sinistra.

Charis scosse la testa: sembrava si stessero divertendo e parecchio anche.

< Abitano qui vicino e si riuniscono in questo pub da quando avevano quattordici anni. > Spiegò, facendo spallucce, la donna.

< Quattordici anni?!? Dio! I quattordicenni non possono bere! > Protestò.

< Questo perché tu sei americana, tesoro. Nel Regno Unito sono tutti molto più liberi. > Le porse il piatto e afferrò un bicchiere sul ripiano in alto, esattamente sulla cabina che le permetteva di comunicare con il cuoco, e lo riempì di birra.

Charis afferrò una patatina con le dita e se la infilò in bocca, masticando lentamente.

< Io l'ho sempre detto che odio l'Inghilterra. > Borbottò a capo chino.

< Ti ci abituerai, zuccherino. Qui è tutto diverso, non è per questo che sei scappata dalla tua madrepatria? > Pulì il bancone con fare energico e le rivolse uno sguardo sorridente, gli occhi color nocciola brillanti.

< Già, ma magari non è questa la diversità che cerco. > Prese un sorso dal suo bicchiere.

< Io dico di sì. Non c'è posto più strano di questo e presto te ne renderai conto, fidati di me. > Le lanciò un'ultima occhiata e sparì verso i ragazzi che avevano chiesto il bis di birra.

Lei terminò in silenzio il suo piatto rigorosamente vegetariano e trafficò per qualche momento con la tasca della sua felpa, alla ricerca delle banconote che ritrovò dopo qualche istante e che lasciò sul bancone dopo un ultimo sorso di birra chiara. Salutò Kendy con un cenno della testa e uscì nell'aria fresca di ottobre, la chitarra ben ancorata sulle sue spalle.

Si era alzato il vento e con lui anche il cappuccio della felpa di Charis che, tuttavia, non riusciva a trattenerle i capelli dispettosi che le svolazzavano davanti al viso, rendendola nervosa, in special modo perché non aveva alcuna intenzione di togliere le mani dalle tasche calde della sua felpa e poi perché temeva che un minimo movimento potesse rovinare quell'atmosfera di pace che solo la notte dona ai piccoli paesi, durante il giorno sempre movimentati.

Però, forse, non sarebbe stata l'unica a rovinare l'atmosfera: il vento le trasportava l'eco lontana di diverse voci piuttosto chiassose. Non riusciva a capire da dove provenissero, eppure si guardò intorno perplessa, quasi potessero essere dietro di lei. Nessuno. Non sarebbe di certo stata la prima volta che si immaginava le cose, ma le voci-ora grida, avrebbe osato dire-le sembravano così vicine e vivide da riuscire quasi a distinguerne le parole.

Chiuse gli occhi e si fermò nel punto esatto dove aveva suonato qualche momento prima, in ascolto.

Non c'erano dubbi, erano davvero grida quelle che sentiva, ma non grida di spavento o di terrore, erano grida di gioia, di estasi pura e sembrava appartenessero a delle ragazzine. Quasi le vide saltellare nella sua mente e sorrise inconsapevole. La sua adolescenza spensierata le mancava.

Le voci erano sempre più vicine e Charis pensò che quel gruppo urlante sarebbe passato proprio di lì, perché la direzione era giusta, e quasi sorrise all'idea di scontrarsi con esso e di ridere e gridare anche lei.

Peccato che qualcosa, o qualcuno, avesse interrotto il suo sogno, il suo idilliaco ascolto della natura, trascinandola bruscamente in un vicolo.

< Ehi, ma che razza di s- > Il qualcuno le tappò la bocca con una mano e le fece segno di fare silenzio, schiacciandola contro la parete del palazzo di mattoni rossi che ricordava ci fosse dall'altro lato della strada: come diavolo avevano fatto a spostarsi così in fretta?

L'orda di grida scomparve, trascinata dal vento e il qualcuno tornò a respirare, anzi, si allontanò da lei e poggiò entrambe le mani sulle cosce, piegandosi in avanti come se stesse per avere un conato di vomito: magari era ubriaco.

< Ti senti bene? > Chiese, forse un po' troppo brusca.

Il qualcuno sospirò di sollievo e fece cenno di sì con la testa, cambiando posizione e arrancando verso il muricciolo e sedendosi a terra, la testa tra le mani.

< Sì, solo un momento. > Rispose.

< Oh, certo, tanto io ho tutta la notte a disposizione e anche la mattina! > Sbuffò di rimando, alzando gli occhi al cielo e poggiando la schiena contro i mattoni freddi, incrociando le braccia e osservando il cielo nuvoloso.

Quel qualcuno, cominciava davvero ad innervosirla. Ti viene addosso, ti tappa la bocca stile maniaco sessuale, sembra voglia rimettere e ti chiede un minuto per riflettere nel buio di un vicolo da film dell'orrore. Certo, cose da tutti i giorni, in effetti.

< Allora? Esame di coscienza terminato? > Gli chiese sarcastica qualche minuto dopo quando lo vide rialzarsi e passarsi una mano tra i capelli corti, tenuti su dal gel.

< Sì, beh... mi dispiace, insomma, non vado in giro a trascinare la gente nei vicoli se te lo stai chiedendo, solo che... era un'emergenza, ecco, quindi... ti chiedo scusa. > Arrossì e Charis se ne accorse anche se non una fonte luminosa era stata pensata per quel posto.

< Oh, beh... non importa. Certo, se tu fossi un maniaco probabilmente adesso sarei contro il muro a fare sesso violento con te, perciò... direi che posso anche perdonarti e ringraziare il cielo che sia stata così fortunata. > Alzò le palme delle mani in aria in segno di adorazione e sospirò, inclinando leggermente la testa di lato, come se stesse pregando sottovoce, poi alzò gli occhi al cielo, sbuffò e si avviò fuori dal vicolo, sotto il primo lampione disponibile.

Il qualcuno la seguì imbarazzato, le mani nelle tasche dei jeans stretti che indossava e lo sguardo basso, un sorriso storto ad addolcirgli le labbra sottili.

< Che fai, mi segui? > Charis riprese a camminare lungo il marciapiede, voltando appena la testa indietro ed accorgendosi del ragazzo.

Su per giù aveva la sua età, forse qualche anno in più.

Lui rise appena, una risata che Charis considerò troppo strana, non normale, nevrotica quasi. In ogni caso, da pazzoide. Chi si metteva a seguire le giovani fanciulle nel cuore della notte di un piccolo paesino del Regno Unito come Barnes? Solo un pazzoide da casa di cura. Probabilmente l'allegra combriccola urlante di poco prima era nient'altro che l'intero reparto di psichiatria accorso per soccorrerlo, chi poteva dirlo?

< E' che abito proprio laggiù. > La affiancò e le indicò una casa di grandezza media con un piccolo giardino ben curato sul davanti.

< Niente male. > Commentò, sistemandosi la chitarra sulle spalle.

< Tu sei di qui? > Le chiese, voltando il viso ad incrociare la stoffa della felpa nera che non riusciva a coprirle tutto il viso, lasciando una porzione di pelle candida in bella mostra.

< Certo, sarebbe come dire che Jane Austen è americana! > Rise sarcastica.

< Quindi sei americana e odi questo posto. Bene. > Le rivolse un sorriso e continuò a guardare dritto davanti a sé.

< Tu, invece, sei inevitabilmente nato e cresciuto qui, no? > Era praticamente ovvio. Lo caratterizzava la classica antipatia inglese, senza contare lo scarsissimo senso dell'umorismo.

< Ci hai preso! > Finse entusiasmo e si passò nuovamente una mano tra i capelli. < Beh... io sono arrivato a destinazione a quanto pare. Allora... scusa ancora per prima e... buonanotte! > La salutò, fermandosi nel vialetto accanto alla cassetta della posta e agitando una mano.

Charis nemmeno perse tempo a salutare come si deve. Proseguì per la sua strada e sventolò un braccio al contrario.

< A non rivederci! > Sghignazzò l'attimo dopo, facendo scoppiare a ridere anche lui.

Di nuovo quella risata nervosa. Quasi Charis avvertiva il sapore sulla lingua: il sapore della sua ansia, ovvio.

Aveva degli occhi belli, però. Un blu profondo, quello della primavera newyorkese. 

Se solo fosse stata in grado di ricordarsene. 

   
 
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