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Autore: Kiki May    25/04/2010    3 recensioni
Una storia a me molto cara, scritta nel gennaio del 2010. Il mio primo personaggio originale, che affianca un Angel umano nei panni di sua figlia. Sullo sfondo, la vita intensa di Angel, piena di protagonisti e comparse.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio, Angel
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Una ficlet un pochino particolare, che vede Angel alle prese con un OC creato dalla sottoscritta.
Un ringraziamento sentito a ReaderNotViewer per il prezioso suggerimento e per il commento alla storia.

 

 

 

Green

 

 

 


Always Darkest

 

 


Nella stanza silenziosa si rincorrevano le ombre del pomeriggio. Un ramo fradicio di pioggia sbatteva contro l’unica finestra, ritmicamente, senza romperla.
Entrò, accolto dall’ululato del vento.
Chiuse la porta alle sue spalle, censurando il brusio proveniente dal corridoio. Non accese la luce. A guidarlo nella stanza – azzurra come un cielo di zucchero filato
l’ombra opaca del sole, nascosto dalle nuvole.
Raggiunse la culla addossata alla parete. Un orsacchiotto sorridente, illuminato da una stella arancione, vegliava sul sonno della bambina. Si chinò a guardarla, incerto.
Avvicinò le labbra al suo naso, per sentire il respiro incomprensibilmente vivo e puntuale. Voltò il corpicino indifeso, esitando timoroso. Se lei si fosse svegliata, non avrebbe saputo gestirla, né consolarla. Aggiustò grossolanamente la coperta verde che la proteggeva, carezzando le manine.
L’unica raccomandazione che gl’avevano fatto prima d’entrare era quella di tenere bene per la testa, nel caso avesse deciso di prendere la bambina.
Deglutì.
Decise d’osare.
Del resto, era di sua figlia che si stava parlando.
Fece leva sulle braccia, sollevandola dolcemente, con lentezza. La tenne contro il petto e corse a sedersi sulla poltrona, per osservarla meglio.
Non aveva mai visto un essere umano nei primi giorni di vita. Cercò d’individuare una qualche somiglianza, fallendo miseramente. Maldestro tentativo di ricondurre
quella creatura a sé. Poggiò la figlia sulle ginocchia. Lei s’agitò dispettosamente, cercando di sfuggire alla presa che la reggeva.
La vide aprire gli occhi.
Sorrise.

 

 

 

Berlino,
Venticinque anni dopo.

 

 

 

Le bollicine d’acqua frizzante si scontravano veloci contro i cubetti di ghiaccio. Una fetta di limone prosciugata giaceva abbandonata in un fazzoletto umido.
May si guardò intorno, aggiustando le spalline del vestito sotto l’impermeabile.
Il brusio dei locali affollati le torceva lo stomaco, soprattutto quando non era in compagnia. Prese un sorso d’acqua, leccandosi le labbra aspre. Il barista le rivolse
uno sguardo dubbioso che la mise a disagio. Provò a mandare un messaggino col cellulare. Non c’era campo.
D' un tratto, la porta del locale s’aprì.
Gli avventori, seduti al bancone delle ordinazioni, si voltarono e May sorrise, soffocando un senso di dejà vu.
Una figura umida di pioggia la raggiunse, facendola voltare. Stringendola in un abbraccio.
“Ti ho fatta aspettare molto? S’è messo a piovere senza preavviso. Le strade sono tutte intasate dal traffico.”
La ragazza sorrise.
“Ero io in anticipo.” spiegò, serena.
Angel ricambiò il sorriso con entusiasmo.
Una gocciolina di pioggia percorse i suoi capelli scuri, il volto liscio e bellissimo, andandosi a nascondere nel colletto del cappotto.
“Fatti guardare. Sei dimagrita! Sei dimagrita molto e … i capelli! Hai tagliato i capelli!”
“Vedi? Sembro un maschiaccio!”
“Li avevi lunghi e ricci. Li hai tagliati!”
“Adesso somigliano ai tuoi. Il taglio è quello ed io metto anche il gel. Senti come stanno ritti.”
Angel fece una smorfia incerta, carezzando il capo della sua bambina.
“Mi piacevano i tuoi capelli.” mormorò, imbronciandosi.
May fece spallucce.
“Ricresceranno.”
Venne attirata  in un nuovo abbraccio.
“Mi sei mancata. Mi sei mancata molto. William ti ha comprato un regalo, ce l’ho in macchina. Dovresti mangiare di più perché sei pelle e ossa.”
“Papà, ho capito. Non mi soffocare.”
“Certo, certo.”
La ragazza raggiunse lo sgabello che aveva occupato nell’attesa. Prese la borsetta.
“Hai fame?”
“Moltissima.”

 


Si diressero in un ristorante in centro che il padre conosceva.
Aveva appena smesso di piovere, le strade della città erano tranquille e scure.
Angel fece strada e aprì la porta del locale per May. Salutò un cameriere e precedette la figlia al guardaroba. L’aiutò col soprabito.
“Devi raccontarmi dei nuovi progetti! Ho letto le critiche su tutti i giornali, devono essere ottimi lavori.”
“Grazie." sorrise lei, educata. "Non tutti sono rimasti colpiti positivamente. Molti hanno criticato i miei lavori. Dicono che sono troppo cerebrali e privi d’emozione.”
“Chi ha detto queste stronzate? Hamilton?”
“Esatto, ma non solo. Come fai a saperlo?”
“Conosco quello stronzo dai tempi del mio esordio. Un coglione. Non saprebbe distinguere un Cezanne da uno scarabocchio nel cesso di una discoteca.”
May rise.
“Certe volte sono proprio capolavori anche quelli!” scherzò, aggiustando l'abito nero che indossava. “Non lo so, probabilmente aveva ragione lui. Devo risultare una pseudo intellettualoide arida.”
Angel si voltò, quand’era finalmente in giacca e camicia.
Condusse la figlia nella sala da pranzo principale.
“Non dire sciocchezze.”

 


Si sedettero e ordinarono.
Come nel locale precedente, un gruppo di avventori si voltò verso di loro. May abbassò lo sguardo imbarazzata, lasciando trascorrere gli istanti di vergogna in
religioso silenzio. Suo padre non aveva smesso di essere un uomo ammirato e desiderato, a quanto pareva.
Grattò il collo e la nuca nuda e s’accorse d’aver dimenticato, ancora una volta, gli orecchini che lui le aveva regalato.
Gl’infliggeva sempre lo stesso, infinitesimale dolore. Con una puntualità svizzera, maledizione!
“E tu, papà?” chiese, riprendendo la discussione. “Ho sentito che danno una mostra in onore dei tuoi vent’anni di carriera.”
“Sì. Proprio qui, a Berlino. Ti ci porto più tardi, se lo desideri.”
“Mi piacerebbe molto. Come mai in questa città?”
Angel rise, versandosi del vino rosso. Decise di offrirne un po’ alla figlia, ma May rifiutò.
“Sembra assurdo, vero? La stessa città che ti ha vista venire al mondo, a più di vent’anni di distanza celebra me.”
“Un giorno, forse, omaggerà anche la sua cittadina scultrice!”
“Le tue opere abbelliranno le sale del museo principale.”
May giocherellò con un grissino, divertita.
“Quando si dice risollevare il morale di una povera apprendista!”
Angel si chinò di colpo, attraversato da un pensiero.
“Quasi dimenticavo! Non voglio dartelo a cena conclusa.”
Prese un pacco lucido e nero, con un grande fiocco sopra. Lo diede alla figlia.
“È un pensiero di William. Ci teneva tantissimo.”
“Non poteva darmelo di persona?”
“Domani parti, giusto? Stasera non è potuto venire e non voleva che andassi via senza un segno del suo affetto.”
“È sempre così gentile con me. Mi manca molto … diglielo! Digli che mi mancano anche le sue torte al cioccolato. È perché non mangiamo più insieme che sono
dimagrita tanto.”
Angel annuì.
“Aprilo. Io volevo collaborare, ma compro sempre cose che non metti e sbaglio la tua taglia. Spike, non so perché, non fallisce mai.”
May staccò gli adesivi, delicatamente. Fece spallucce, serrando gli occhi nervosamente.
“Non compri cose che non metto …”
“E gli orecchini, allora? Le collane? Credevo ti piacessero, ma non le porti mai.”
“È che … non sono il mio genere. Non porto mai gioielli, li trovo fastidiosi.”
“Ho comprato abiti a decine di donne, con te dovevo fallire.”
Nessuna replica.
Un’attesa.
“Oh!”
“Ti piace?”
Il pacco scuro nascondeva un graziosissimo abito giallo, a maniche corte e con lo scollo a V.
“È delizioso!”
“L’ha detto anche lui. Dice che il colore ti dona. Concordo.”
May sghignazzò come una bambina.
“È così … giallo!”
“Esattamente.”
“Mette il sorriso solo a guardarlo.”
“Sono contento che ti piaccia. William impazzirà di gioia nel conoscere la tua reazione. Ti ha scritto anche un biglietto, leggilo.”
La ragazza prese il foglio, nascosto nel tessuto della gonna. L’aprì e lesse in silenzio.
Si commosse.
“È veramente bello. Ringrazia Will da parte mia.”
“Lo farò.”
Arrivarono le prime portate.
May ed Angel fecero spazio ai vassoi, sistemarono i tovaglioli sulle ginocchia.
“Allora, con cosa vuoi cominciare?”
“Col salmone, grazie. Prendimene una fetta e lascia il limone.”
“È buonissimo, vero? Ti passa pure di mente che la Germania non ha sbocchi sul mare.”
La ragazza rise, coprendosi le labbra con la mano.
“Papà!”
“Sono serio. Magari ci viene un solenne mal di stomaco, più tardi.”
“Per cortesia! Domani ho un treno da prendere!”
Appunto, avrebbe voluto ribattere lui. Scelse, strategicamente, di tacere e May fece finta di non notare l’esitazione.
La conversazione riprese.
“Mi sono piaciute tanto le ultime sculture. Quelle modellate su forme umanoidi. Il vetro le rende sottili e poeticamente astratte.” spiegò Angel, tra un boccone e l’altro.
“Davvero?”
“Sì. Sono molto … trasmettono un senso di fragilità e anche d’elevatezza. Sembrano anime, staccate dai corpi.”
“È molto bello quello che dici.”
“Lo penso veramente.”
May rifletté, assorta.
“In un certo senso, è come dici tu: sono anime staccate dai corpi. È paradossale, nella scultura, cercare di annientare le forme e i volumi. Cercare l’immateriale,
piuttosto che il fisico. Ma la dimensione corporea mi ha sempre, in qualche modo, spaventata molto e questo disagio s’è inevitabilmente riversato nelle mie opere. Probabilmente avrei dovuto fare la pittrice, come te.”
Angel la fissò attentamente.
“No, invece. Sei molto brava in quello che fai. Devi solo crescere, umanamente e professionalmente. Il talento ce l’hai. Io, per esempio, non saprei realizzare una sola
delle tue curve di vetro! Ho apprezzato molto anche il semiritratto. Di Buffy, vero?”
“Di Buffy.”
“È molto bello.”
“Ti ringrazio. In effetti, è anche merito tuo se ho avuto l’ispirazione. Ho ripreso lo stile che hai avuto nel ritrarla, il messaggio di fondo che desideravi trasmettere.”
“Sì.”
Un silenzio pesante, carico di parole non dette.
Angel s’armò di coraggio.
“Andrai con lei, vero? La seguirai.”
May non rispose con immediatezza.
Attorcigliò le mani, in una presa lieve e nervosa.
Parlò con dolcezza.
“È quello che sento di fare. Ciò che per me è giusto. Lei sta cercando di cambiare le cose. Se non credo nel cambiamento adesso, quando lo farò? È mio dovere
morale seguirla.”
“Ti comprendo perfettamente. Ma se avrai bisogno di aiuto, di soldi o di un biglietto aereo per tornare, dovrai solo chiamarmi e penserò a tutto io. Non voglio
ostacolarti, desidero solo aiutarti.”
“Lo so.”
La ragazza raggiunse la mano che il padre aveva appoggiato sul tavolo.
La strinse, incapace di afferrarla nella sua interezza.
“Ti chiamerò. E chiamerò Will. Non sentirete la mia mancanza neanche per un secondo.”
“È un po’ difficile, non credi? Tuttavia, la scelta è tua e fai bene ad esserne così convinta.”
May sorrise.
“Buono il misto, vero?”
“Gustoso, sì.”
“Ci vieni spesso in questo locale?”
“No. Volevo proprio portarti in un posto che non gridasse ‘Angel’ da tutte le pareti.”
Lei rise, divertita.
“Volevo stare un po’ di tempo solo con te. Sono rarissimi i momenti che passiamo insieme.”
“È vero.”
“Ma non c’è da sentirsi in colpa. Soprattutto tu non devi. Io sono felice di sapere che finalmente hai trovato la tua strada.”
“Non saprei … se è la mia strada, intendo.”
“Col tempo te ne accorgerai. Li vuoi i gamberetti?”

 


Raggiunsero la galleria intorno alle undici. Le luci erano accese, le porte serrate.
Angel si diresse all’ingresso sul retro.
May provò a corrergli incontro. Cambiò idea, immediatamente. Il marciapiede era umido e, nonostante non portasse i tacchi, c’era la seria possibilità di cadere e farsi
male.
Si fermò, a pochi passi dal padre.
“Credevo fosse aperta!” esclamò, affannata. “Non mi dirai che hai intenzione di …”
“Certamente. Ho le chiavi.”
May spalancò gli occhi.
“Ma … ma come?! Come fai ad avere le chiavi?”
“Beh … l’organizzazione, il trasporto dei quadri, l’ordine da stabilire … sai come vanno queste cose!”
“Ma non possiamo entrare adesso!”
Angel aveva già aperto.
“Perché no?”

 


Entrarono.
Angel accese i riscaldamenti, per evitare che May congelasse. Le passò le mani sulle braccia.
“Avresti dovuto mettere una sciarpa.” asserì, in tono di rimprovero.
“Lo so. Ne avevo una. L’ho persa.” replicò lei.
“Una sola?!”
“Mi danno fastidio le cose sul collo.”
“Ah, però! Più tardi passeremo a comprarla.”
“Eh?!”
“Lascia stare. Forza, goditi l’esposizione.”

 


Raggiunsero la prima sala: un enorme corridoio luminoso e candido.
Le tele del padre di May emergevano nella loro disperata cupezza.
Nero, verde scuro, marrone. Figure di carne, nudi maschili e femminili, impietosi e crudi. La pennellata di Angel donava loro una concretezza sanguigna e viscerale,
scevra di qualsiasi tendenza estetizzante. Al contrario, i corpi sembravano denudarsi nelle loro ansie e contraddizioni.
La visione dannata.
May fissò i primi ritratti, una donna stesa sul letto e un uomo in piedi. Spese del tempo a scrutare con precisione le sbavature di mirto scuro sul fondo dei neri.
“Adoro questi dettagli, papà. Dai corpo agli sfondi. Ingoiano i personaggi.”
Angel, orgoglioso, non replicò nulla.
Rimase a qualche passo di distanza dalla figlia, che raggiungeva la sala principale.
Il primo quadro esposto ritraeva Lilah Morgan, l’avvocato.
La donna emergeva dalla dimensione oscura della tela, per stagliarsi tutta in verde dinnanzi agli occhi dello spettatore. Il suo volto era spezzato da un sorriso
enigmatico e cattivo. Era vestita.
Raramente Angel non dipingeva nudi. Per lei aveva fatto un’eccezione. Come per Drusilla.
Che sorrideva, nel suo vestito viola da bambina.
May la fissò cinica.
“Mi vengono in mente gli idioti a cui piaceva.”
“Chi? Drusilla? Perché idioti?”
“Come si può provare attrazione per una persona che non si rende neanche conto dei suoi bisogni reali? Lei mi  faceva pena e disprezzavo quelli che le giravano
intorno.”
“Lei era …”
“Era malata. Non era l’unica, del resto.”
Superarono due ritratti maschili, Lindsey e Doyle, niente che a May interessasse.
Amava le forme femminili, nelle opere del padre. Arrendevoli e distorte, la spaventavano e le piacevano.
“Carina la disposizione!” scherzò, aggrottando le sopracciglia.
Su due pareti opposte, Darla e Cordelia, una di rosso e l’altra di blu.
“Hanno dedicato la mostra alle tue conquiste sentimentali?” domandò ancora, acida.
Angel non rispose.
Ingoiò amaro, però, perché il tono della figlia aveva virato verso un pericoloso e tagliente sarcasmo.
“Immagino di sì. Del resto, come non parlarne?”
“Lo dici come se fosse stato un gioco. Non hai mai pensato che si potesse trattare di amore?”
May si voltò, fissandolo dubbiosa.
“Non capisco. Non credo.”
“Perché?”
“Perché tu sei sempre stato …” cercò le parole adatte. Si rese conto che non ne esistevano. “Tu eri diverso e loro non potevano capire. Ti amavano, forse.
Suppongo che credessero d’amarti, ma era impossibile.”
“Spiegami.”
La ragazza abbassò il capo.
“Come potevano conoscerti veramente?” chiese, inquieta. “Non sei stato mai una sola persona.” si voltò verso Darla, che alzava il mento, nuda e orgogliosa. “Lei era
particolarmente seccante.”
Angel rise, suo malgrado.
“Non l’hai mai sopportata, vero?”
“Per carità! Gliel’ho anche detto un giorno!”
“Cosa?”
“Che stava recitando nel suo personale romanzo rosa. Mi ha risposto con crudeltà ed aveva ragione.”
“Cosa t’ha detto?”
Che neanche io ti conoscevo.” rispose May. “E, nonostante questo, l’ho spuntata io. Con lei particolarmente. Si affannava così tanto ad amarti che neanche
comprendeva. Mi chiedo: a cosa serve tutta la passione di questo mondo senza un briciolo di raziocinio?” prese un respiro e puntò lo sguardo in direzione di Cordelia che si reggeva sulle lunghe gambe, coperte da calze blu. “La cosa più assurda è che cercavano di risolverti i problemi! Non Darla, ovviamente, ma alcune sì. Alcune credevano di poter venire a capo del dilemma, di risolvere un conflitto che tu e solo tu potevi conoscere. Che sciocchezza!”
Angel non aggiunse nulla.
Continuarono a camminare.
La ragazza rise al ritratto successivo, passandosi una mano tra i capelli cortissimi.
“Lo sapevo! Buffy!”
“L’hai detto tu che era importante. Del resto, dovevano metterli questi ritratti. Sono tutti dello stesso ciclo artistico.”
Lei fissò il primo, quello che preferiva.
C’era Buffy, nuda sino allo stomaco, che si attorcigliava i capelli nascondendo il volto. Suo padre l’aveva dipinta come un ammasso di nervi e ossa quasi grottesco.
C’era qualcosa di furioso nel gesto e nella sua postura, eppure lei era incredibilmente attraente.
“Non hai idea di quanti si sono innamorati guardando quel ritratto.” sospirò Angel.
Anatomy of Restlessness, Buffy Summers 1999.
“Lei è un tipo che conquista le gente o si rende detestabile. O tutte e due insieme. Non ho mai capito come riesca, però ha senso.” spiegò May, rivolgendo lo
sguardo all’altro dipinto. 
Sempre Buffy, coperta di verde e azzurro. Una luce gialla le partiva dallo stomaco, mentre sorrideva enigmatica, guardando l’orizzonte.
Choosing Life.
“Mi piace questo quadro. Dovrebbe essere apprezzato di più. Probabilmente è il messaggio che la gente non comprende. Come si fa a tornare normali dopo aver
visto la natura deforme delle cose … suppongo che sia soggettivo … il grado d’aderenza emotiva nei confronti di un’opera d’arte.”
“Mi dispiace sentirti dire queste cose. Lo sai?” mormorò Angel, amaramente.
“A me dispiace essere in grado di capire.”
“Lei o me?”
“Tutti e due, forse.”
Angel si rese conto che la figlia mentiva. Non era Buffy il problema. Comunque, incassò senza una parola.
“Ti ha aiutata molto negli ultimi anni.” riprese, rivolgendosi a May.
Lei sorrise, grata di non dover continuare la precedente conversazione e anche piena d’affetto.
“Sì, è un donna assurda! Forse era l’unica con cui mi potessi confrontare.”
“Sono contento che tu l’abbia ritrovata come amica.”
“Anche tu, papà. Io sono contenta che abbiate messo da parte quell’insano desiderio di stare insieme che avevate da giovani. Capisco come lei fosse l’unica, per
certi versi, in grado di capirti. Ma quando ci stavi assieme eri sempre triste. Sempre. Nessuna passione può essere tanto grande da giustificare la sofferenza.”
“Dici?”
“Non lo so. Penso di sì.”
May guardò suo padre. Sorridendo incerta, disse:
“Tu ne sai di più sull’argomento. Sai tante cose. Ed, in un certo senso, sei stato tutti gli uomini possibili. Forse per questo non siamo riuscite ad arrivare a te. Né io, né
le donne che portavi in casa. Eravamo sempre all’oscuro di qualcosa.”
“Io non volevo tenervi all’oscuro.” spiegò Angel, quasi a volersi giustificare.  “Io cercavo disperatamente di …”
“Lo so. Adesso ho capito. Prima mi sembrava che ci fosse un muro tra noi, un muro perenne. Detestavo le donne che fingevano di non sentirlo o, addirittura, s’
illudevano che non esistesse! O forse ero soltanto consumata dalla gelosia di non essere importante quanto loro …”
Angel mormorò solo una frase.
“Tu sai quanto conti per me.”
“Penso di sì. Lasciamo perdere.”
La visita dell’esposizione riprese.
“Gesù! Ma queste sono …”
Foto, in bianco e nero. Le hanno integrate ai quadri per completare la visione artistica e personale.”
“Oh Dio! Io questa la ricordo!”
Nel ritratto fotografico, c’era lei, all’età di cinque anni, con la bocca sporca di cioccolato ed un girasole nella mano destra. Spike la reggeva sul letto, ridendo.
“L’ha fatta quel tuo amico …”
Lorne, sì. Lo scatto è risultato particolarmente bello.”
“E l’hai messo qui. Carino.”
May ridacchiò. L’espressione di Spike era esilarante.
Spalancò gli occhi alla foto successiva. Sempre lei, da bambina, che beveva dal rubinetto della doccia.
“Che follia!”
Ammirò estasiata un trittico di tele sottili e alte che raffiguravano Spike, steso su un letto in tre posizioni. Il colore e la consistenza della sua pelle erano rese in un
gioco di giallo chiaro, bianco e rosa. L’uomo guardava il pittore, si voltava, si portava un braccio agli occhi, celando una specie di smorfia.
May, che s’era confrontata col ritratto per la prima volta a dodici anni, arrossiva con puntualità nel rivederlo.
“Credevo che non ti facesse più questo effetto …”
“Oh! Ma stai zitto, papà! Come se non lo sapessi che questo … questo coso … m’imbarazza da morire!”
Angel ghignò, malefico.
“Addirittura!”
“Smettila di sfottere. È disturbante.”
Lui sospirò, scuotendo il capo.
“Beh … hai anche ragione …”
Nicchiarono entrambi, riflessivi.
Volsero l’attenzione agli ultimi quadri.
Uno diviso in due parti: Buffy e Spike ritratti come opposti complementari, in un lavoro di eccezionale cura delle espressioni facciali. Altri due dedicati alle donne:
Faith, con le mani nei capelli scuri. Nina, tutta di bianco.
“Lei mi stava simpatica.”
“Nina?”
“Sì.”
“Perché?”
“Così! Era gentile.”
May si voltò in tutte le direzioni, incerta.
“Non ce n’è neanche una della …”
“Sì, è lì.”
Winifred Burkle.
May s’avvicinò lentamente alla foto. Strinse le braccia, infreddolita.
“Non le hai mai fatto un ritratto.” sussurrò pianissimo.
“Non è vero.” disse Angel. “Prima che tu nascessi, ne avevo fatti molti. Li ho bruciati tutti, dopo …”
“Non me l’hai mai detto.”
“Uno dei lati oscuri di cui ti lamenti.”
La ragazza si voltò, seria.
“Scusami, non avrei dovuto dirlo.” fece il padre, pentito.
“Non fa niente.” fu la rigida replica. “Com’erano?”
“Vuoi sapere come …”
“Che colori usavi, come la raffiguravi.”
Angel si passò una mano sul volto, sospirando.
“Ne ricordo uno. C’era lei, stesa su un divano, circondata di verde, ciano e rosso scuro.”
“Doveva essere molto bello.”
Era ... adesso non esiste più.” tagliò corto Angel. Si concesse una pausa ponderata. Cercò di trovare le parole adatte per spiegare. “Noi non abbiamo mai parlato del perché io
…”
Te ne fossi andato dopo la mia nascita? C’è bisogno di aggiungere qualcosa adesso? Non credo. Del resto, col tempo, ho capito anche le tue ragioni.”
“Volevo bene a tua madre, solo che …”
“Solo che non potevi restare. Davvero, l’ho capito. Non ti biasimo per essertene andato, ero troppo piccola. Non ricordo neanche la tua partenza e, a tre anni, ero
già tornata a stare con te.”
Angel si morse le labbra, dispiaciuto.
Quando era triste, i suoi occhi sembravano più grandi e profondi.
“Mi dispiace. Quando ci penso … mi dispiace di non essere stato capace di far funzionare le cose.”
“Non devi fartene una colpa.”
“No. Ma tu m’hai odiato per tanto tempo, per questa ragione.”
May annuì.
“Era inevitabile che lo facessi. Però, davvero, ora voglio lasciarmi il passato alle spalle. Quel che è fatto, è fatto. Non parliamone più.”
Angel esalò un respiro troppo a lungo trattenuto.
Raggiunsero l’ultima sala.
May si sedette su un rettangolo di legno nero e alzò lo sguardo lucido.
“Ah.”
“Ti ho detto che sei importante per me. Non potevo non metterti al centro.”
“Ma io …”
“È stata una mia decisione.”
La ragazza incrociò le gambe, davanti al ritratto enorme.
Wilhelmina Green, daughter.
Il suo volto, così simile a quello del padre, occupava una tela enorme, tagliata a metà. Un occhio castano, vivo e intelligente, ed un vuoto di verde e marrone. Verde.
“Non mi hai ancora detto perché mi hai chiamata così.” disse lei, in un singhiozzo amaro.
Angel si avvicinò e May si scansò leggermente, lasciando intuire quanto non volesse essere toccata.
“È un colore crudele, il verde.” continuò, addolorata. “Lo odio. Sarei potuta essere gialla o rosa o rossa. Invece, sono verde. E tu lo sapevi. L’hai fatto apposta!”
Angel non rispose.
May continuò a parlare.
“Forse è questa l’unica cosa che non riesco ancora a perdonarti: l'avermi scelto il destino. Con un nome, una città, un colore …” un lacrima le solcò il viso pallido.
“Berlino era divisa da un muro quando io nascevo, e tu giravi l’Europa. Avresti potuto farmi nascere altrove. Avresti potuto farmi nascere nella tua terra. O in Italia o in Grecia! Invece hai scelto l’unica città divisa dalla Guerra Fredda. L’hai fatto apposta?
Sei stato enormemente intuitivo, comunque. Come sempre. Perché, adesso, io mi sento divisa come te. Mi sento Berlino, condannata a divenire e non essere mai.”
La ragazza pianse rabbiosa, stringendo la gonna nera.
“Mi sento crudele a dirti queste cose, ma … è la verità.”
Anche Angel aveva gli occhi lucidi.
“Non hai idea di quanto tempo abbia speso a cercare di liberarmi di te. Ad essere me stessa, lontana dalla tua ombra. Mi sono arresa per una sola e semplice
ragione: ho capito che era impossibile.
L’ho capito una mattina, sulla metropolitana, quando ho visto il mio riflesso allo specchio. I capelli, gli occhi castani, l’incarnato pallido e l’espressione … Tutto quello
che riuscivo a distinguere eri tu! Ho sofferto così tanto, in quel momento.”
Stavolta, l’artista si avvicinò e prese la figlia tra le braccia, ignorando le sue proteste.
“Tu non sei me.” affermò, determinato.
“Tu dici? Io ho cercato di ripeterlo per vent’anni, ma sembra che …”
“È vero che sei in grado di capirmi e che mi assomigli, ma non sei me. Non sei condannata a ripetere i miei errori, né sei destinata ad essere molte persone in una.”
May fissò il padre, nonostante le lacrime.
“Davvero?”
“Certamente. È questo che voglio assicurarti: la possibilità di scegliere.”
“Papà, io …”
“Sono contento che tu mi abbia detto queste cose. Per la prima volta in venticinque anni, penso d’essere riuscito a capirti. E mi dispiace. Mi dispiace tantissimo per
tutta la sofferenza che t’ho provocato.”
Lei si nascose nella giacca scura, colpevole e rasserenata allo stesso tempo.
“Posso avere un momento? Mi bastano cinque minuti e torno normale.”
Angel le diede un bacio sulla fronte.
La lasciò sola.

 


Percorsero la strada che conduceva ad una gelateria in silenzio, sorridendosi di tanto in tanto.
Si sedettero e ordinarono.
Due coppette miste, cioccolato e nocciola.

 


“Salgo con te.”
“Non preoccuparti, papà. Non c’è il serial killer che m’aspetta all’ingresso del palazzo!”
“Ma quanto sei deficiente quando dici queste cose?”
May ed Angel scesero dalla macchina, dinnanzi alla casa della giovane scultrice.
Angel andò incontro alla figlia e le coprì il collo con una sciarpa di lana pesante.
“Papà!”
“L’avevo dietro. Prendila o t’ammazzerai.”
May sorrise. Baciò il padre e abbassò lo sguardo, incerta.
“Quindi … non sei arrabbiato con me per …”
“No. Anzi, sono contento.”
“Contento?”
Di aver abbattuto almeno un muro.”
“Anch’io.”
Angel annuì, pensoso.
Si precipitò a prendere il regalo che stavano scordando in macchina.
“Ecco! Ci mancava solo che lo dimenticassi! Poi William mi uccideva!”
May rise.
“Hai ragione … papà?”
“Dimmi.”
Sono contenta che tu abbia trovato lui. Meritate di essere felici.”
Suo padre l’abbracciò, commosso.
Le baciò i capelli.
“Mi mancherai. Torna presto e compra un cappellino che fa freddo.”
“Lo farò”
Si staccò da lei, aggiustandole il colletto.
“Mi raccomando.”
May si voltò e fece per andare via.
“Dimenticavo di dirti …” sussurrò, estraendo un piccolo oggettino rosso dal portafoglio. “Lo porto sempre con me, sai?”
“Davvero?”
“Giuro! È nel portafoglio, non vedi? Tu l’hai ancora il tuo?”
“Certo. È la cosa più cara che ho.”
May ghignò divertita.
“Ci sentiamo presto.”

 

 

 


Los Angeles,
Aprile 1990

 

 

 

 


Papà era tornato.
Aveva sentito il rumore delle auto, il frastuono delle pesanti valigie che sempre portava con sé e dei pennelli, delle tele.
S’era alzata in piena notte, nonostante non dovesse fare la pipì. Era scesa al piano di sotto, reggendosi alla parete, prudente, ed aveva scorto una figura nella cucina
scura. Era entrata.
La intimoriva sempre la visione di suo padre nell’oscurità. Era tanto grande, lui. Più grande di tutti gli uomini che aveva conosciuto. Anche più grande del bidello
Jones, che s’aggirava nei corridoi e rimproverava i bambini fuori dalla classe. Lei era troppo piccola davvero per poter competere con tanta forza e imponenza.
Mosse qualche esitante passettino. Rabbrividì.
Notò che il padre si teneva la testa tra le mani.
Preoccupata, si fece avanti.
“Papà?”
Angel si tese di scatto.
“Che ci fai qui? Non dovresti essere a letto?”
Lei non seppe come rispondergli.
“È tardi, le brave bambine sono tutte a nanna. Vai anche tu.”
“Ma io …”
“Vai a letto, May.”
“Sì. Ma tu … tu che hai, papà? Ti senti male?”
Angel sospirò, stanco.
Si coprì il volto, come in preda ad un grande mal di testa.
“Sono solo.”
May tacque, impietrita. Cosa avrebbe dovuto rispondere? Mesta, s’apprestò ad andare via. Aggiustò le maniche del pigiama coi funghetti e s’allontanò.
“Oh, dannazione! May?”
Papà la chiamò. Doveva essere dispiaciuto.
Lei si bloccò, riflessiva.
Prese degli oggettini dalla scatola rosa in salotto e tornò indietro, con le mani piene.
“May, non volevo … mi dispiace. Ti ho spaventata, vero? Ti ho spaventata …”
“Papà?” mormorò la bambina, porgendo i pugni chiusi.
Angel deglutì attento.
Lei aprì le mani, rivelando due anellini di plastica trasparente. Uno rosso, l’altro verde.
“Li ho trovati nell’uovo di Pasqua. La prossima volta rimani a Pasqua.”
“Lo farò.”
“Scegli quale vuoi, papà. Quello che resta lo prendo io.”
Angel scelse quello verde.
Lo nascose in tasca. Accennò un sorriso.
“Grazie.”
“Prego.”
Si rivolse alla figlia, curioso.
“E, dimmi, cosa significano questi anelli?”
May sorrise, senza incisivi.
“Significano: non essere più soli.”

 

 


Estate Invincibile

 

 

  
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