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Autore: shining leviathan    26/04/2010    3 recensioni
Quella notte Rufus Shinra prese una decisione che avrebbe cambiato le sorti del mondo in un futuro che sua madre non gli avrebbe mai augurato. quello di un dittatore. Che avrebbe perso tutto ad un passo dalla vittoria.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Rufus Shinra
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Altro contesto
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Erano stati molto chiari. Lì dentro non poteva entrare, anche se aveva vagamente capito cosa stesse succedendo dietro quella porta.

Una persona stava morendo, e non una qualsiasi.

Aspettava paziente, seduto sul pavimento di marmo, con il colletto della camicia così inamidato e stretto da impedirgli quasi di respirare.

Le gambe formicolavano, era rimasto a terra per troppo tempo, e a nulla erano valse le minacce della signora Mildred per farlo sloggiare.

Non era così facile ragionare con lui, se voleva una cosa doveva averla subito. Viziato e capriccioso come tutti i bambini, assecondare le richieste di quella vecchia strega era una di quelle cose che non si sarebbe mai sognato di fare, dato che possedeva già quell’impertinenza tipica della sua famiglia.

L’unica cosa che suo padre apprezzava veramente, quando non era troppo impegnato a urlargli contro.

Alternava dei momenti in cui lo prendeva in braccio e  gli mostrava quello che un giorno sarebbe stato suo ad altri che lo trovava perfettamente insopportabile anche quando se ne stava  a giocare per i corridoi intralciando il passaggio. Lo scrollava come un pupazzo di pezza, insultandolo, facendolo sentire uno schifo.

Per questo lo odiava. Per quanto delle volte sembrasse un’altra persona, Rufus sopportava a malapena il lunatismo di quell’untuoso uomo d’affari che era suo padre.

E non aveva ancora compiuto cinque anni quando lo capì.

Successe ad una serata di gala. Perse l’equilibrio e cadde a terra, macchiando il completino gessato e scatenando l’ilarità dei fotografi che l’avevano inondato con l’accecante luce dei flash.

Mentre minuscole macchiettine gli danzavano davanti agli occhi, sentì chiaramente la manata di suo padre calargli sulla testa. Non gli fece male, ma fu umiliante, più della caduta stessa.

Infatti le lacrime cominciarono a sgorgargli dagli occhi celesti come un fiume in piena, sotto lo sguardo beffardo di tutti. Tranne una, sua madre.

L’aveva sollevato da terra e se l’era stretto al petto, come a volerlo proteggere da quel branco di sciacalli, mentre sussurrava parole dolci volte ad incoraggiarlo.

Il suo sorriso era prodigioso, la sua dolcezza innata, e lui l’amava. Perché lo faceva sentire bene, in pace con se stesso. E soprattutto era l’unica che riuscisse a tenere testa a suo padre.

Sophia  Kingsley era una donna risoluta, se voleva qualcosa lo otteneva, ma la maggior parte delle richieste riguardavano Rufus. Desiderava ,per lui, un futuro diverso da quello di suo padre, una vita libero dai vincoli pericolosi del mako. Ma l’inevitabile non si poteva rimandare a lungo.

Shinra accontentava suo malgrado la moglie, ma metà delle condizioni spettava a lui fissarle.

Dopo il frettoloso matrimonio ,convolato per ragioni economiche, si era accorto di quanto diverse fossero le loro vedute.

Sophia difendeva idee fantasiose con un’ingenuità che Rufus, a cinque anni, trovava infantili oltre ogni dire. Era un’ecologista, sperava che la Shinra di suo figlio potesse cambiare il mondo e renderlo un posto migliore, dove il verde sarebbe tornato a crescere nei parchi di cemento.

Quest’esaltazione culminò quando disse di sentire le voci del pianeta sussurrarle all’orecchio cose orribili.

Disse che vedeva i morti del passato, quelli deceduti da poco, quelli che volevano vendetta e la notte piangeva, come una bimba spaventata.

Rufus riusciva a sentirla dalla sua stanza, contando ogni singhiozzo che andava a lacerargli il cuore. Non voleva soffrisse così per colpa di fantasmi non suoi, ma non poteva sapere che le voci esistevano solo nella mente profondamente scossa della donna e che il pianeta poco centrava in questa storia.

“ Sono venuti a prendere me, mi  trascineranno nel Lifestream” singhiozzava

“ Shhh, mamma, calmati”

Anche lui cominciava ad avere paura. E se ciò che dicesse la mamma fosse vero? Gli spiriti li avrebbero uccisi per i peccati commessi?

Allora non concepiva il peso che il suo nome implicava. Chiamarsi Rufus  Shinra era una cosa irrilevante, ma ciò che il padre faceva poteva vagamente comprenderlo dalle confessioni deliranti di miss Mildred quando beveva uno o due bicchieri di Porto.

“ Andrete all’inferno” biascicava con un occhio mezzo chiuso “ Pagherete tutto, fino all’ultima goccia di sangue”

Shinra lo consolava con un ottimismo di chi aveva  tutto dalla vita e che non poteva minimamente comprendere il dolore delle persone che aveva calpestato per arrivare ai suoi fini.

“ Tutte sciocchezze. L’inferno è per chi ci crede. Smettila di pensare a queste stronzate e va a giocare”

Chiaro, conciso,odioso per nulla rassicurante.

Le crisi di Sophia continuarono con una frequenza preoccupante, tanto che lo stesso Shinra cominciò ad accigliarsi.

Quando vide la donna lanciare un vaso contro Rufus decise che era giunto il momento di risolvere questo problema, dato che un gioco non si poteva più considerare e che stava diventando pericolosa per se e per chi le stava attorno.

L’esito delle analisi fece dissolvere tutti i dubbi sulla sua presunta empatia con la natura.

Sophia Kingsley aveva un tumore al cervello in stato avanzato. Non era una predestinata, come insisteva a farsi chiamare, era semplicemente un cadavere ambulante. Questione di mesi, forse di settimane, perché il pianeta la reclamasse e se.

Infatti dopo due giorni non riuscì più ad alzarsi dal letto e Rufus sgattaiolava silenziosamente nella stanza per stare un po’ con lei.

Non gli importava se la pelle della mamma stava diventando trasparente, se la sua percezione del reale diventasse sempre più fievole, voleva godere un po’ del suo calore, delle risate quando lui si raggomitolava contro il suo corpo e i suoi baci umidicci che gli elargiva sui capelli biondi.

Nei giorni buoni, gli raccontava storie di eroi e mostri venuti a rapire principesse e lui, nonostante non ci credesse, rimaneva appoggiato sul suo fianco a fissare la penombra della stanza con un vago sorriso sulle labbra.  La malattia pareva lontana, la morte pure e allora la donna cominciava a fargli il solletico, facendo sgorgare una ristata cristallina e pura dalle labbra del bambino.

Forse è stata quella l’unica felicità provata nell’infanzia.

Però non mancarono dei momenti bui.

Delle volte Sophia lo allontanava con uno spintone se si avvicinava troppo, o rimaneva perfettamente immobile, persa nella profonda nebbia della sua pazzia, mentre Rufus l’abbracciava senza sorridere, con La testa contro la sua spalla.

E allora la vedeva la morte, nera, troppo vicina.

Pregava perché se ne andasse, piangeva lacrime amare che Sophia guardava con curiosità, prima di spedirlo via con un cipiglio impaziente.

Shinra non poteva neanche lontanamente comprendere il dolore del figlio, ne quello di Sophia che lottava giornalmente col suo tumore. Aveva smesso di preoccuparsi per lei quando era nato Rufus, il suo dovere l’aveva fatto, non serviva più.

Anzi, sperava che spirasse il più presto possibile. Non sopportava le molteplici chiacchiere che circolavano sul suo conto. Quando  gli chiedevano se avesse una moglie mezza pazza negava sempre, almeno da salvare le apparenze.

“ Questione di mesi” gli aveva detto il dottore e allora si sentiva più sollevato.

Quel giorno Rufus non era ancora riuscito ad entrare. Ma quando miss Mildred scese in cucina ne approfittò per sgattaiolare dentro.

L’aria era satura di chiuso, marcio. Dalle tapparelle non entrava nemmeno uno spiraglio di luce e dovette procedere a tentoni fino al grande letto per evitare di sbattere contro qualcosa.

Salì a fatica sul materasso, avvertendo il corpo della madre a pochi centimetri da lui. Era sdraiata, a pancia in su, e teneva un braccio abbandonato sul petto, o almeno così gli parve di vedere.

Ci mise un attimo a mettere a fuoco il viso pallido di Sophia, e quando ci riuscì notò che le sue labbra erano piegate in un sorriso sereno. Il primo dopo mesi.

Si accovacciò vicino a lei, rassicurato, ma la sentì fredda oltre la vestaglia di organza e così scattò seduto.

La guardò un minuto prima di decidersi a portare una mano al viso. Le accarezzò una guancia, gelata e liscia quanto un blocco di marmo e sussultò. Non aveva sentito sulla pelle quel lieve solletico che causava il respiro quando usciva dalle narici.

Era rigida, i capelli stopposi sparsi sul cuscino le conferivano un’aura di santità, accentuato dal sorriso che solo le persone forti sanno trarre dalla morte.

Perché lei era forte, aveva vissuto molto più di quanto  i medici sperassero.

“ Grazie al mio piccolo” sussurrava con un sorriso stanco “ Il suo amore mi fa andare avanti”

Ma il suo amore non l’aveva salvata.

Se ne era andata senza disturbare nessuno, con una pace che aveva perso anni prima.

E adesso Rufus Shinra era rimasto solo.

Così pensò piangendo e raggomitolandosi contro la madre un’ultima volta.

 

 

 

 

 

 

Passarono due anni, e Rufus crebbe.

O così credeva.

Non si era mai ripreso del tutto da quel lutto, ma nessuno lo aveva consolato.

Suo padre aveva tirato un sospiro di sollievo. Con Sophia fuori gioco poteva educare Rufus come meglio credeva. Scrupoli o meno sarebbe diventato il prossimo presidente della Shinra Elettric Company.

Seguendo lo stesso metodo che lui aveva utilizzato per anni, al diavolo l’ecologia e gli ecologisti.

“ Mio figlio non diventerà una checca” borbottava al nuovo Turk, un ragazzo magro dai lunghi capelli neri, appena ebbe terminato il suo lungo monologo “ Seguirà le mie orme come io feci con mio padre. Non è più saggio questo?”

“ Sì signore” mormorava lui ad occhi bassi “ Lo è”

Il presidente si sporse per guardarlo meglio. Forse era un po’ troppo giovane per essere un Turk, ma non gli importava più di tanto. Se era in gamba avere diciassette anni e neanche un pelo sulla faccia contavano  poco.

“ Qual è il tuo nome, ragazzo?”

“ Tseng, signore”

“ Bene Tseng” disse Shinra, annoiato “ D’ora in poi, sarai il protettore di mio figlio. Se gli succederà qualcosa pagherai cara la tua disattenzione. Hai capito wutaiano?”

Tseng annuì , con quel servilismo tipico che adottava  con persone come lui.

Tuttavia non alzò lo sguardo, o l’uomo avrebbe potuto notare la scintilla d’odio che li aveva improvvisamente accesi, e accettò di buon grado il ruolo di balia.

Lo conobbe quello stesso giorno.

Si trovava nel salone, stava leggendo un libro seduto sul divano ed era talmente concentrato che non si accorse della presenza di Tseng.

Il Turk era appena entrato, e osservava il bambino con distacco, provando però uno strano senso di compassione per quel futuro manager in miniatura.

Doveva essere dura per lui. Essere caricati di un peso così grande a soli sette anni.

Il biondino alzò lo sguardo dalla pagina e, vedendo quello sconosciuto, si accigliò.

“ Chi sei?” chiese gelido e Tseng sorrise.

“ Tseng dei Turk, piacere di conoscerti Rufus”

“ Il piacere è tutto tuo” e abbassò nuovamente gli occhi, come se la presenza di Tseng non lo turbasse più di tanto.

Il Turk accolse la scortesia del  ragazzino con rassegnazione. L’educazione impartitagli dal padre doveva avergli  inculcato lo stesso disprezzo che vedeva negli occhi degli abitanti di Midgar quando attraversava le strade. Non poteva biasimarlo, anche perché era figlio di un suo superiore.

“ Cos’hai da guardare?”  sbottò piantando nuovamente i suoi occhi glaciali in quelli di Tseng e il ragazzo ,colto di sorpresa, perse l’equilibrio. Il goffo movimento piegò le labbra di Rufus in un sorriso di scherno.

“ Il mio compito è quello di sorvegliarla, signore” replicò Tseng col contegno che più si addiceva in quelle situazioni e il bambino lo squadrò con attenzione.

Era più grande di lui, ma pareva un adolescente appena affacciato sulle soglie dell’età adulta, sedici, diciassette anni al massimo, corporatura non troppo sviluppata ,un viso ovale e liscio. Era diverso dagli altri Turk che aveva conosciuto, ma solo per quel particolare modo di esprimersi.

Nel suo mondo Rufus aveva sentito solo lo spiccio ed informale linguaggio degli affari, ma mai una cortesia tanto servile da risultare insopportabile.

Wutaiani… che gente strana.

“ Non ho bisogno del cane da guardia, non ora” mormorò tagliente, poi si ributtò nella lettura, congedandolo con un cenno imperioso della mano “ Puoi andare adesso”

Tseng si irrigidì, punto sul vivo. Ma come Turk doveva ubbidire a  qualsiasi ordine, anche se quest’ultimo veniva dal  bambino più viziato di quel maledetto mondo.

Il figlio del presidente aveva più malvagità in corpo di quanto si aspettasse.

Accennò un breve inchino e uscì velocemente, senza aggiungere nulla.

 

 

Era quasi tentato di lasciare l’incarico.

Non aveva intenzione di sopportare quel piccolo tiranno per il resto della sua vita.

Lui era un Turk, non la bambinaia di turno a cui affibbiare il marmocchio maleducato del  suo datore di lavoro. Non aveva lasciato Wutai per dedicarsi a questo.

Camminava per le strade del settore cinque con passo marziale, calciando con rabbia ogni lattina che gli capitava a tiro. L’irritazione riflessa nelle sopracciglia corrugate e negli sbuffi d’aria che ogni tanto espelleva.

Nei bassifondi poteva lasciarsi andare ad ogni umore, senza il rischio di essere deriso   dai suoi colleghi. La gente si ritraeva spaventata da quella divisa, persino gli ubriachi smettevano di schiamazzare quando passava.

“ Stupido ragazzino” si ritrovò ad inveire con l’impeto della sua età “ Chi si crede di essere?”

L’erede della più grossa multinazionale del mondo, che da energia agli angoli più sperduti del pianeta. In virtù di ciò poteva vantarsene ma a sette anni non si può capire fino in fondo.

E l’essere spacconi con i sottoposti l’aveva imparato per riflesso, convinto di stare di due gradini al di sopra di tutti. Quando era più solo dell’ultimo dei cani.

Quella consapevolezza raffreddò la rabbia di Tesng in un attimo.

Già dal primo sguardo aveva notato quanto la figura di quel piccolo biondino stonasse con la vuota ricchezza del salone in cui stava leggendo.

L’esclusività di quel mondo lo tagliava fuori da tutto ciò  che un bambino normale  dovrebbe avere.

L’amore, la presenza di qualcuno al suo fianco.

Un amico.

“Ma certo” pensò ricordando la scintilla di tristezza negli occhi di Rufus.

Quel ragazzino stava per troppo tempo solo. Un po’ di compagnia diversa dalla servitù della casa gli avrebbe fatto bene.

Ma in che modo poteva aiutarlo?

Una pila di scatole quasi gli crollò addosso e si ritrasse velocemente. Si piegò in avanti, per capire cosa diamine fosse quel fagotto nero che tremava tra avanzi di cartone e sgranò gli occhi.

Gli dei quel giorno gli avevano fornito la soluzione.

 

 

 

“È arrivata una cosa per voi ,signorino”

“ Ah sì?” replicò Rufus sorseggiando il suo tè al tavolino sulla terrazza “ Cosa sarebbe?”

“ Non ne sono del tutto sicuro”

“ Bene” finì di bere e si voltò verso il maggiordomo “ Allora portala qui poi sparisci”

Il servitore prese il servizio e scomparì per alcuni secondi, recando poi una cesta di modeste dimensioni.

Rufus guardò l’oggetto con curiosità, mentre il maggiordomo lo lasciava solo.

Scese dalla sedia, avvicinandosi giusto per scoprire un musetto nero che fece capolino dalla cesta con un morbido verso somigliante ad un miagolio.

La sua espressione da curiosa mutò in sorpresa, finendo ben presto ad osservare il cucciolo con malcelato disgusto.

“ E tu cosa dovresti essere?”

La “cosa” piegò la testa di lato, fissandolo coi suoi occhietti lucidi e innocenti.

“ Non sei un gatto” constatò Rufus sollevandolo dalla collottola, che non somigliava a pelo ma ad una membrana lucida. Lo lasciò andare schifato.

“ Che schifo!” si pulì la mano sulla camicia, con l’illusione di avere qualcosa di umido a insudiciarla, e il cucciolo si avvicinò scuotendo giocosamente la testa. Un sottile ciuffo di peli arancio gli cresceva sulla nuca, per allungarsi fino alla fine del suo corpo.

“ Stammi lontano!” gli intimò Rufus salendo quasi sulla sedia “ Va via!” ma il cucciolo si era incapricciato di lui. Gli era piaciuto a prima vista quel bambino riottoso, tutto il contrario del futuro padrone.

“ JEEVS!!” ma il servitore non poteva sentire le urla del bambino dalla cucina.

Rufus era spaventato da quell’animale così strano, temeva che fosse uno di quei mostri di cui aveva tanto sentito parlare, le WEAPON, e la consistenza molliccia del pelo gli aveva causato un brivido di ribrezzo.

Il piccolo Dark Nation si alzò sulle zampe posteriori, cercando di arrivare fino a lui, ma le manate decise del bambino lo portavano sempre più lontano.

Credeva però di star giocando, così si acquattò a terra, mostrando i denti con fare giocoso, ma questo servì ad atterrire ancora di più Rufus.

“ JEEVS!!” urlava fuori di se, salito orami coi piedi sul sedile di velluto “ DOVE DIAVOLO SEI QUANDO HO BISOGNO?? TI FACCIO LICENZIARE,HAI CAPITO??” il cucciolo scodinzolava gaio, chiedendosi perché il piccolo umano sbraitasse così tanto.

 

 

 

 

Pensava di aver fatto bene, invece l’espressione furibonda del biondo lo fece sussultare. Nessuno lo aveva mai guardato con quell’odio, con l’animale rinchiuso in una minuscola gabbietta per uccelli, che guaiva con la criniera abbassata.

Assunse un’espressione sottomessa, mentre Rufus sembrava trattenersi appena dal saltargli al collo.

“È stata un’idea tua vero?”

Freddo come il ghiaccio e con l’accusa ad avvelenargli le labbra, con l’unico obbiettivo di umiliarlo.

“ Pensavo che le fosse gradito” mettersi sulla difensiva non serviva niente, ma tanto valeva avere una scusa con cui pararsi la reputazione. La sua  doveva essere stata  pessima, perché Rufus inspirò bruscamente l’aria, diventando rosso d’indignazione. Il ciuffo gli cadde scompostamente sul viso.

“ Che bella trovata” commentò sarcastico “ Volevi farmi morire prima del tempo?” e le scaraventò addosso la gabbia, che prese al volo sotto lo sguardo atterrito della bestia. Tseng si scusò mentalmente con lui per averlo coinvolto in tutto questo.

“ Se l’ho offesa in qualche modo, signore, la prego di perdonarmi”

Rufus rise, in una maniera che non gli piacque “ Offeso? Oh no, io sono arrabbiato” si risistemò i capelli “ E perplesso. Cosa me ne faccio di… quell’affare? Spiegamelo, e forse non dirò nulla a mio padre”

Tseng esitò “ Pensavo che potesse aiutarlo”

“ Aiutarmi?” rispose Rufus acido ,ma con una nota di curiosità “ Per cosa?”

“ Niente, dimentichi le mie parole”

“ NO! Ora me lo dici! Per cosa?”

Tseng sospirò, conscio del fatto che si stava giocando il posto con quella confessione ma non potè farne a meno.

“ Lei sta sempre solo. Ho pensato che questo cucciolo potesse aiutarla ad essere felice” tacquero.

Rufus lo fissò a lungo, con un’espressione indecifrabile. Le sue labbra si mossero una volta, due senza emettere suoni poi alla terza trovò la forza di esclamare.

“ Mi stai dando dell’asocile???”

“ No ,signore” Tseng sentiva una strana calma dentro di se, come se qualcuno lo guidasse nel scegliere le parole nel modo più saggio “ Ma ho come l’impressione che lei viva troppo separato dalla realtà”

“ Non voglio la realtà” gli diede le spalle, dirigendosi verso la finestra “ Non ne avrei comunque il tempo. A me piace questa esistenza, avere nelle mani qualcuno da comandare a piacimento. Non ho bisogno di amici, se era questo il tuo intento, solo di burattini. Capisci?”

“ Lei ha mai amato qualcuno che non fosse se stesso?” entrambi scattarono, sorpresi da quelle parole.

“ Scusa?” si voltò a guardarlo, con incredulità e Tseng si maledisse mille volte. Cosa gli era preso?

“ Se ho mai amato qualcuno?” sibilò Rufus scandendo bene ogni parola e il Turk evitò il suo sguardo omicida. Poi l’impensabile.

Un’ira trattenuta con  voce rotta.

“ Se proprio vuoi saperlo” mormorò con gli occhi lucidi “ L’unica persona è morta due anni fa. L’unica in questo schifo di mondo” abbassò il viso, mentre l’autocontrollo andò a farsi definitivamente benedire, e grosse lacrime caddero a terra.

“ CHE DIAVOLO PUOI SAPERNE?? TU NON SAI COSA VUOL DIRE ESSERE ME!!” e sotto lo sguardo scioccato di Tseng e i guaiti del cucciolo scappò in camera sua.

Pianse tutte le lacrime che aveva trattenuto in due anni, invocando sua madre la sua carezza. Si chiese cosa ci fosse di grandioso essere odiato da tutti, camminare sopra i vinti in un’onda di repressione feroce quanto la battaglia che si  stava consumando dentro al suo cuore.

Odiò se stesso, suo padre.

Tutto.

Quella notte Rufus Shinra prese una decisione che avrebbe cambiato le sorti del mondo in un futuro che sua madre non gli avrebbe mai augurato.

Quello di un dittatore. Che avrebbe perso tutto ad un passo dalla vittoria.

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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