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Autore: baby80    02/05/2010    13 recensioni
Questa storia è una sorta di continuazione di "André", ci pensavo da tempo e non ho saputo resistere. Oscar è sopravvissuta al 14 luglio, e dovrà affrontare la propria esistenza senza André. Racconterò di questa nuova Oscar, sbocciata in una notte piena di lucciole e appassita, improvvisamente, con la perdita del suo amore. La "mia" Oscar non è malata di tisi.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Oscar François de Jarjayes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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È trascorso un mese dal giorno in cui mi è stato strappato, a forza, un pezzo di cuore.
È trascorso un mese da quando lui, l'uomo che amavo, se ne è andato.
È trascorso un mese e mi sorprendo d'essere ancora qui.
Mi sorprendo che non siano state accolte le mie preghiere.
Mi sorprendo di non essere morta anch'io, come tanti amici, in quel funesto giorno di luglio.
Quel giorno che resterà nella mente d'ogni cittadino di Francia.
Il 14 luglio 1789.
Sono ancora qui, ancora viva.
Viva nel corpo, ma morta nel cuore.
Colma di vita, all'esterno, tremendamente vuota, all'interno.
La perdita di André è stata così devastante da farmi desiderare l'impensabile.
Ho desiderato l'oblio.
Ho desiderato il sonno eterno.
Ho bramato, con tutta me stessa, la morte.
Ho abbandonato la vita, il giorno in cui lui, il mio amore, ha esalato il suo ultimo respiro.
Mi sono allontanata da quella vita che non aveva più senso.
Quella vita che, tutt'oggi, non ne ha.
Ho ricercato la morte, un mese fa, durante quel maledetto giorno.
Ho sperato che il 14 luglio 1789 diventassi il giorno della mia dipartita.
Rammento, come fosse oggi, l'odore di fumo nelle narici.
Rammento, come fosse oggi, gli spari provenire da ogni dove.
Fucili.
Cannoni.
Urla.
Ricordo, come fosse oggi, la rabbia che iniziò a scorrermi nelle vene, prendendo il posto del dolore.
Una rabbia senza senso, una rabbia che sapeva di follia.
Follia che mi fece richiamare, a gran voce, la fine.
Ricordo il caro Alain, accanto a me.
Ogni singolo momento è impresso, come fuoco, nella mia mente.
Ho combattuto per, e contro, la mia Francia.
Ho combattuto per il popolo.
Ho combattuto per un futuro migliore.
Ho combattuto per il mio André.
Ho combattuto, consapevolmente, per morire.
Ma...
Ma la morte non mi ha voluta tra le sue, allettanti, braccia.
Ho sperato, nel corso della battaglia, che il mio corpo venisse colpito, a morte.
Mi sono augurata d'essere trafitta, senza possibilità di salvezza, da innumerevoli pallottole.
Ho sperato d'essere uccisa dal fuoco nemico.
Ho supplicato.
Pregato.
Implorato.
Nulla.
Sono vissuta.
Sono viva.
Sono viva eppure vorrei andarmene, vorrei abbandonare questa esistenza.
Non vi sono più colori.
Non vi sono più profumi.
Niente possiede vita, nel mio mondo.
È trascorso un mese e ancora anelo la fine.
Un mese, trenta giorni, quattro settimane.
Giorno dopo giorno, ora dopo ora, un susseguirsi di minuti.
Tempo.
Tempo che è divenuto un'estenuante agonia, da mattina a sera.
Attendo il buio come un affamato attende un tozzo di pane.
Attendo il buio fin dal mattino
Dischiudo gli occhi e già bramo la notte.
Attendo la notte, unica consolazione.
La notte, unica amica.
La notte, in cui i pensieri, cessano di bisbigliare al mio orecchio.
La notte, il solo istante in cui posso riunirmi a lui.
Nel buio ritrovo André, nel ricordi di un passato ormai lontano, e in un futuro che vive soltanto nel mio cuore.
Ricordare è dolore e consolazione al tempo stesso.
Figurarmi i suoi bellissimi occhi verdi è lacerante, eppure, non potrei continuare ad alzarmi dal letto se non li ricordassi.
Non vi sono più lacrime in me.
Piangere è un lusso che non mi è più concesso.
Il dolore è così forte da farmi scoppiare il cuore nel petto, ciononostante non vi è lacrime a bagnare i miei occhi.
È trascorso un mese dal giorno in cui ho unito, nel cuore, nell'anima e nel corpo, la mia vita a quella di André.
Un mese dal giorno in cui ho amato, per la prima volta, come donna.
La prima volta che ho amato un uomo.
Il solo uomo che avrei mai potuto amare, nel corpo e nell'anima.
Solo lui, André.
Poso le dita sulle mie labbra e mi pare di sentire, su di esse, quelle calde di André.
André.
Pronunciare ad alta voce, il suo nome, mi fa ancora troppo male.
Evito prudentemente di nominarlo in presenza di chiunque.
Mi manca così tanto, mi manca così prepotentemente.
Mi manca come non avrei mai creduto potesse mancarmi qualcuno.
Quando la notte avvolge, questa Francia devastata, e me, giaccio nel mio letto con un senso di serenità, apparente, ma in qualche modo confortante.
Giaccio nel letto, sdraiata su di un fianco, serro gli occhi e abbraccio il mio corpo.
Circondo il busto con le mie braccia.
Mi abbraccio, stupidamente, in cerca di calore.
Mi abbraccio, come fossi una bambina, immaginando.
Fingendo che quello sia l'abbraccio di André.
Qualche volta penso a quanto io sia divenuta folle e patetica.
Qualche volta mi soffermo, su me stessa, e mi rendo conto di quanto io sia cambiata.
Mi rendo conto di quanto non vi sia più nulla di Oscar Francois De Jarjayes, in me.
Non vi è più nulla della Oscar di un tempo.
Ora sono Oscar Francois e null'altro.
Ho scelto d'abbandonare il mio titolo, senza rimpianti, un mese fa.
Ho scelto d'essere una donna.
Ho scelto d'essere una compagna.
Ho scelto col cuore, senza rimpianti.
Ora sono Oscar Francois, e avrei voluto acquisire il titolo più importante.
Avrei voluto poter diventare...
Oscar Francois Grandier.
Avrei voluto diventare tua moglie, André, come mai ho desiderato qualcosa in tutta la vita.
André.
Se solo riuscissi a  piangere!
Se solo fossi in grado di mutare in lacrime il dolore.
Ma forse vi è troppo dolore in me, così immenso da aver esaurito le lacrime, durante questo interminabile mese.
Ho trascorso ore, a piangere.
Ho passato notti intere a partorire piccole perle di sale.
Rinchiusa in un oscura stanza, avvolta dalle tenebre, ho pianto il mio tormento.
Ho pianto il vuoto, la mancanza, la perdita.
Ho pianto l'amore.
Ho pianto fino a che gli occhi son divenuti deserto.
Il dolore è mutato in inquietudine.
L'inquietudine è divenuta rabbia.
Una rabbia cieca.
Rabbia, violenta, sfogata su qualsiasi oggetto inanimato.
Io, da sempre calma e controllata.
Algida e perfezionista.
Io, son divenuta, sotto l'effetto della rabbia, un animale senza controllo.
Quando le lacrime hanno cessato di lambire i miei occhi, ho accolto, in me, la rabbia.
Ho gettato, a terra, tutto ciò che mi era possibile raggiungere con le mani.
Ho strappato le lenzuola bagnate di  pianto, bagnate di quella lacrime che mi stavano tradendo, nel momento in cui ne avevo più bisogno.
Ho riversato la rabbia su me stessa.
Ho sfogato la rabbia ferendo il mio corpo.
La collera mi è montata sotto pelle, ha strisciato col sangue, ed è giunta, prepotentemente alla mente.
Non vi era più nulla da scaraventare a terra, non vi era più nulla da gettare contro le pareti, nulla da fare a pezzi.
Nulla su cui effondere l'ira di una donna inconsolabile.
Ho sfogato, allora, la rabbia sul mio stesso corpo.
Le mani strette in pugni, così stretti da ferirne il palmi.
I pugni, compressi, sferrati con forza sui miei arti.
Pugni violenti sulle mie cosce.
Un gesto insensato, come insensato era, ed è, il mio dolore.
Un gesto sconsiderato, ad occhi estranei, ma non ai miei, non agli occhi di chi conosce la vera sofferenza, quella sofferenza che non trova pace.
Quella sofferenza che non ha risposte, ne giustificazioni.
Quella sofferenza inconsistente.
Quella sofferenza che pare irreale.
Un gesto folle, il mio, che ha in sé, una logica.
Come è possibile rifuggire il dolore procurandosene dell'altro, questo il naturale quesito che, qualsiasi persona sana di mente, si domanderebbe.
Il dolore dell'anima è celato agli occhi, non lo si può toccare, rimane un dolore inesistente, un dolore che non esiste, che non ha consistenza.
Il dolore del corpo è qualcosa di reale, qualcosa che si può toccare.
I lividi macchiano la pelle.
I tagli sanguinano.
I dolori della  pelle sono reali, si possono toccare, si possono vedere.
Sono dolori che si possono accettare.
Ed io ho accettato, il sangue, sui palmi delle mie mani.
Ho accettato, i segni bluastri, che hanno macchiato la mia pelle d'avorio.
Ho accettato il dolore fisico e, per un istante, mi è stato possibile vedere, toccare, il dolore dell'anima.
L'ho accettato, il tempo di un respiro.
È passato un mese, ma non ho smesso di domandarmi il perchè.
Non ho smesso di chiedere, a qualsiasi dio, il motivo di una tale sofferenza.
Non smetto di chiedere, ancora, per quale motivo, lui, mi è stato strappato dal cuore.
Non smetto di domandarmi perché, lui, mi abbia lasciata sola.
Perché André?
Perché mi hai lasciata qui?
Come potrò andare avanti senza di te?
Mi è difficile credere che sia trascorso un intero mese, non mi capacito di come sia riuscita ad andare avanti fino ad ora.
Alain.
Rosalie.
Bernard.
Loro l'unico motivo per cui, il mio cuore, oggi, continua a battere.
Loro, i miei unici e soli amici.
Loro, la mia forza, il mio aiuto.
Dopo quella ormai famosa giornata, non sono più tornata indietro.
Dopo il 14 luglio ho deciso di rimanere a Parigi.
Non ho mai più fatto ritorno in quella che fu, un tempo, la mia casa.
La mia casa e, al tempo stesso, la mia prigione.
Ho vissuto con Alain per le prime 2 settimane, accudita dalle sue bizzarre, eppur amorevoli, attenzioni.
Il caro Alain, immagino la sua paura.
Percepivo il terrore nei suoi occhi.
Paura per me, per questa donna disperata.
Paura ch'io compiessi un gesto sconsiderato.
Il caro Alain, la mia ombra, per 2 settimane, la mia ombra, tutt'ora.
Tra noi non vi sono più formalità di grado.
Tra noi è stato abolito il voi, ed è invece stato accolto, con entusiasmo, il tu.
Mi rivolgo ad Alain come è normale che ci si rivolga ad un amico.
Alain fa lo stesso, nei miei riguardi, ma non ha perduto un irritante vizio.
Non ha smesso di chiamarmi Comandante.
Un irritante vizio che ha il potere di strapparmi un sorriso, qualche volta.
Non sono più Comandante, non vi sono uomini da comandare.
Ho abbandonato tutto, un mese fa.
Vivo in un limitato, ma confortevole, appartamento.
Una stanza da letto, una cucina ed una ancora più limitata stanza da bagno.
Tiro avanti attingendo ai miei risparmi, a quella parte di denaro che ancora mi è dato di possedere.
La disperazione mi ha portato ad attingervi.
Ho bisogno di un lavoro ma, in questo mese, mi era impossibile anche solo immaginare di alzarmi dal letto.
Ho bisogno di un lavoro e forse, domani, sarà la giornata ideale per cercarlo.
Domani.
Forse.
Siedo sul letto e mi accorgo dell'arrivo di una cara, fedele, amica.
È giunta, anche oggi, la notte.
Mi lascio avvolgere dalle tenebre, senza porre resistenza.
Mi lascio cadere tra le lenzuola, su di un fianco, come di consueto.
Cingo il corpo con le braccia.
Il cuore accelera la sua corsa.
Il gelo colpisce la mia pelle.
I ricordi cominciano a sussurrarmi una storia.
La storia di un bellissimo bambino, un dolcissimo bambino dagli occhi verdi.
Il dolore si impossessa del mio cuore a metà.
Il male si avvinghia alla mia anima.
Invoco delle lacrime traditrici.
Sigillo i miei occhi e mi sorprende una vertigine.
Sigillo il mio sguardo e mi lascio cullare da un capogiro che mi è divenuto amico.
Un malore che, follemente, rende il mio dolore più sopportabile.
Un malore che è in grado di farmi tollerare tutto questo dolore.
Aumento la pressione del mio abbraccio, sognando, il mio amore perduto.
Aumento la pressione del mio abbraccio, sognando il suo, di abbraccio.
Sogno, ancora sveglia.
Immagino, tra i miei occhi, il suo bellissimo viso.
Immagino, tra l'azzurro delle mie iridi, il suo caldo respiro.
Immagino, ad occhi chiusi, la morbidezza delle sue labbra.
Immagino il mio André e mi domando perché.
E mi domando, perché io sia ancora qui.
  
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