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Autore: Beatrix Bonnie    05/05/2010    5 recensioni
Esiste qualcosa che può trasformarsi in un'ossessione per un vecchio burbero soldato nazista? Esiste una donna che può piegare ogni uomo al suo volere? Esiste un giovane soldato con una fede cieca nel suo credo nazista? Esiste un quadro che può decidere della sorte di tre personaggi così diversi tra di loro?
Sì, tutto questo si trova in una fredda Parigi occupata dalle truppe tedesche. E in un luogo che nessun vivente è mai riuscito a sondare fino in fondo: la mente dell'uomo.
Storia prima classificata al contest "Di giovani fanciulle, donne misteriose e ritratti"
Genere: Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
- Questa storia fa parte della serie 'Historia docet'
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Il profumo di Sophie”



Parigi era una città noiosa. Essere assegnati alla guarnigione di Parigi significava aver combinato qualcosa nell'esercito: era una specie di punizione per soldati indisciplinati. Certo, Paris, la città dell'amour, il Mouline Rouge, la Tour Eiffel, i negozi di moda... ma per un uomo abituato a combattere in prima linea, a sopravvivere in qualsiasi situazione, a obbedire e uccidere, Parigi era una prigione dorata. I francesi poi, con quella loro aria di superiorità, quell'orribile accento biascicato, gli davano proprio sui nervi. Un incubo. Voleva tornare sul campo.

Come aveva fatto il suo maggiore a trascinarlo in quella stupida galleria d'arte, se lo stava ancora chiedendo. Prima di tutto, per lui, dipingere su una tela era un inutile passatempo di gente che non aveva niente di meglio da fare, figuriamoci poi spendere delle ore a fissare il risultato molto spesso patetico di questi che si spacciavano per artisti. Se anche poteva avere un minimo di interesse per qualche opera di un secolo lontano, che trascinava con sé una patina di antico, certamente non era in alcun modo affascinato da una galleria d'arte dove il quadro più vecchio aveva sì e no dieci anni. Si ritrovò a fissare con aria apatica uno schizzo di colore senza senso. “Che coglioni...” pensò sconsolato.

«Oberst Schröder!» lo chiamò il suo maggiore.

Che cazzo vuoi?” si domandò il colonnello Schröder, avvicinandosi con passi strascicati al giovane soldato.

Il maggiore Gisbert Kraus era un uomo che aveva fatto una brillante carriera militare tanto da arrivare al suo grado a soli venticinque anni. Aveva la mascella squadrata, i corti capelli tagliati a spazzola e gli occhi azzurri sempre illuminati dalla fede al Terzo Reich. Come diavolo una tale promessa dell'esercito fosse finita nella guarnigione di Parigi, nessuno lo sapeva: un ragazzo come quello doveva stare a combattere in prima linea.

Quanto al colonnello Hilderich Schröder, lo sapeva benissimo di essersi meritato Parigi. Aveva commesso un errore, un errore imperdonabile: aveva disobbedito ad un ordine diretto di un superiore. E così, a cinquant'anni suonati, i capelli che cominciavano a diventare brizzolati sulle tempie e lo sguardo sempre duro di un soldato che è scampato una volta di troppo alla morte, era stato mandato nella capitale francese. A marcire.

«Guardi questo quadro, oberst. Non le pare magnifico?» gli chiese il maggiore Kraus, animato da troppo entusiasmo per i gusti di Schröder.

Il colonnello si voltò apatico per osservare la tela che il ragazzo gli stava indicando, ma contro il suo volere ne rimase colpito. Era stata rappresentata una donna meravigliosa, con i boccoli castani che ricadevano gentili al lato del volto, il rossetto scarlatto, lo sguardo fiero e ammaliatore, completamente nuda se non per un cappello e un paio di guanti bianchi. Il colonnello Schröder ne fu stregato. “Ritratto di giovane donna con i guanti.” recitava una triste etichetta bianca posta a lato. Sotto, il nome dell'autore, che il colonnello non degnò nemmeno di uno sguardo.

«Voglio comprarlo.» sentenziò. Doveva averlo, assolutamente.

«Oberst, non credo che si possa...» cominciò il maggiore Kraus

Ma il colonnello lo interruppe con foga: «Perdio, giovanotto! Credi che il Führer abbia chiesto il permesso ai polacchi prima di invadere la loro nazione?»

«No, signore.»

«Certo che no! E sai che significa questo, giovanotto?»

«Cosa, signore?»

«Che i tedeschi si prendono sempre quello che vogliono!»

Un omino piuttosto basso apparve alle spalle del maggiore Kraus. «Vi prego, signori, siamo in una galleria d'arte.» biascicò in un tedesco dal forte accento francese.

Il colonnello Schröder lo incenerì con lo sguardo. «Me ne infischio di dove siamo! Voglio comprare questo quadro.» sbraitò imperioso il colonnello. Se c'era almeno anche solo un vantaggio nell'essere confinato a Parigi, era che gli orgogliosi francesi diventavano degli agnellini alla vista delle divise naziste.

L'omino si schiarì la voce a disagio. «Questo quadro appartiene ad un privato collezionista. Non possiamo venderglielo, signore.» farfugliò con un sorrisetto a mo' di scusa.

Il colonnello Schröder lo sovrastò con la sua mole imponente. «Allora faccia una cosa. Vada a prendere il suo registro e mi dica il nome del proprietario.» Il suo tono di voce era gentile, ma lo sguardo non lasciava presagire nulla di buono.

«Ehm... certo, herr Kommandant.» bisbigliò l'omino e poi scomparve.

Tornò pochi minuti dopo: tra le mani aveva un enorme registro ingiallito, dove qualcuno aveva catalogato con una grafia inferma e tremula i quadri e i rispettivi proprietari. Il custode fece scorrere il suo ditino magro sull'elenco, alla ricerca della tela che interessava al soldato tedesco. «Oh, ecco qui...» sospirò, evidentemente sollevato. «“Ritratto di giovane donna con i guanti.” La proprietaria è una certa signorina Sophie Petit.» lesse con voce tremante.

Il colonnello Schröder sorrise. Un sorriso da squalo. «Visto che era facile?»


Quella mattina la temperatura era piacevolmente bassa. Hilderich Schröder era il tipo di uomo che amava stare in camicia quando nevicava, noncurante del freddo pungente. Stoico avrebbe detto qualcuno, folle avrebbero pensato i più.

La gente che affollava le vie parigine era imbacuccata in enormi cappotti e pesanti pellicce, lui indossava solamente la divisa militare.

Entrò nel caffè all'angolo della strada e scelse un tavolo per due in un angolo. Doveva aspettare una persona. Il maggiore Kraus, con zelo quasi maniacale, era riuscito a rintracciare la proprietaria del quadro che avevano visto qualche giorno prima alla galleria d'arte e aveva organizzato un incontro in quel caffè. Schröder si aspettava una vecchia zitella appassionata di arte, una di quelle che, non avendo altro da fare nella vita, spendevano i loro patrimoni in idiozie come quadri e mobili d'epoca. Per questo si stupì parecchio quando una giovane donna castana si sedette al suo tavolo. Dovevano essere passati una decina d'anni perché il suo sguardo era più maturo, ma quella era certamente la modella che era stata ritratta nel quadro.

«Sophie Perit?» domandò incerto il colonnello Schröder.

La donna sorrise con fare accattivante. «Oui, monsieur.»

L'uomo annuì soddisfatto. «Io sono il colonnello Schröder. Credo che il mio maggiore le abbia chiarito la situazione... dunque è lei la proprietaria del quadro?» chiese con tono serio. Era difficile non farsi distrarre dall'aurea di fascino che emanava la donna, ma Hilderich cerò di concentrarsi sul suo obiettivo: comprare il quadro, niente di più.

La signorina Petit si aggiustò con il dito un ricciolo ribelle. «Oui, monsieur Schröder.»

«La prego di parlare in tedesco, fräulein Petit!» esclamò di botto il colonnello. Odiava il francese, con le sue ridicole flessioni. E poi sulla bocca di Sophie suonava così melodioso e ammaliatore che gli faceva perdere di vista il suo obiettivo.

«Oh, ma il tedesco è una lingua così dura, monsieur Schröder!» cinguettò Sophie nell'idioma del suo interlocutore, tuttavia senza perdere il suo accento d'origine.

«E il francese è la lingua dei rivoluzionari!» rispose il colonnello.

Mademoiselle Petit si concesse una ristata tintinnante. «Ma che dice? Noi non facciamo più rivoluzioni dalla presa della Bastiglia.»

Schröder rimase interdetto a quelle parole: e l'esperienza della Comune di Parigi allora che cos'era? Le lanciò un'occhiata di sbieco, ma Sophie non si scompose, né perse quel suo profumo di frivolezza. «La sua ignoranza sui fatti storici e politici della sua nazione è a dir poco squisita.» commentò allora il colonnello in tono ironico.

Sophie ridacchiò deliziata, come se l'uomo le avesse fatto un complimento. «Oh, grazie monsieur Schröder!» disse con un sorriso luminoso. «Lei mi lusinga!»

Il colonnello Schröder non riusciva a crederci: aveva davvero confuso il suo sarcasmo con un elogio? Si sentì costretto a chiarire la situazione. «Ero ironico, fräulein

Sophie Petit si portò una mano alla bocca, sgranando gli occhi come se avesse scoperto qualcosa di tragicamente irreparabile. «Oh.» sussurrò, ma poi riprese a sorridere. «Nulla di grave! In fondo io dico: che importanza ha la storia, monsieur Schröder? Viviamo nell'oggi, godiamo del presente! La vita è piena di dolori anche senza che noi ci angustiamo per il passato. Io dico sempre: quello che è stato, è stato!» decantò con la sua voce tintinnante.

Una filosofia di vita certamente apprezzabile, ma troppo lontana dall'eroico stoicismo che guidava le mosse di Hilderich Schröder. «Davvero nobile, fräulein. Ora veniamo agli affari.» sentenziò il colonnello in tono che non ammetteva repliche.

Il sorriso di Sophie divenne meno frivolo. Anzi, le dava al volto un'espressione indecifrabile, quasi di furba malignità. «Il quadro non è in vendita, herr Schröder.» decretò.

E con quelle parole si alzò dal tavolo e uscì dal caffè.


Il maggiore Kraus era convinto che il suo colonnello e la signorina Petit fossero diventati amanti, perché dal loro primo incontro oberst Schröder non faceva altro che cercare pretesti per incontrarla di nuovo. Il colonnello Schröder la tartassava, letteralmente, l'aspettava fuori di casa, le spediva lettere, le chiedeva un altro appuntamento. Non le voleva vendere il quadro, quella puttana, diceva il colonnello come scusa, ma il maggiore Kraus non si lasciava fregare. Erano amanti, ne era certo.

Come faceva una donna così bella e affascinante ad essere attratta da un vecchio scorbutico come Hilderich Schröder? Kraus, proprio, non se ne capacitava. Lei era così delicata, amante dell'arte e delle gioie della vita, lui era burbero e rigido, senza nessuna capacità di apprezzare il bello. Il maggiore Kraus avrebbe fatto di tutto perché la bella Sophie lo degnasse anche solo di uno sguardo, mentre lei non aveva occhi che per l'austero colonnello. Com'era possibile? Com'era possibile?

Finalmente Sophie cedette alle attenzioni di Schröder: usando come tramite il maggiore Kraus, organizzò un nuovo incontro proprio alla galleria d'arte dove si trovava l'oggetto del desiderio. Quando il maggiore la andò a prendere davanti a casa sua, con una delle automobili militari della divisione parigina, Sophie Petit era più splendida che mai. Indossava un lungo cappotto scuro, con il collo di pelliccia, e aveva i riccioli sapientemente acconciati in un nodo sulla nuca. Non appena salì sull'automobile puzzolente di gas di scarico, un profumo di lavanda investì le narici del giovane Gisbert Kraus.

«Non trovate che sia adorabile il mio profumo, monsieur Kraus?» domandò Sophie con un sorriso deliziato.

Il maggiore Kraus deglutì sonoramente, incapace di proferire parola.

«Possiamo andare.» sussurrò la giovane donna con la sua voce delicata.


Il colonnello Schröder attese pazientemente l'arrivo del suo maggiore e della signorina Petit: avrebbero concluso quella faccenda una volta per tutte. Ormai era diventata una questione di principio, tanto che del quadro non gli interessava più molto, ma non si sarebbe sottomesso al capriccio di una donnicciola qualunque. Lui era il colonnello Hilderich Schröder, perdio!

Il maggiore arrivò alla galleria d'arte in perfetto orario. «Lasciaci soli.» ordinò il colonnello al suo giovane sottoposto. Il maggiore Kraus fece il saluto militare e si allontanò. “Militaresco come sempre, il mio ragazzo!” pensò con Schröder con orgoglio, osservandolo mentre se ne andava.

Poi la voce secca della signorina Petit lo richiamò alla realtà. «Herr Schröder...»

Il colonnello si girò verso di lei e rimase spiazzato: aveva perso tutta quell'angelica frivolezza con cui si era presentata il primo giorno al caffè. Pareva che sangue tedesco scorresse nelle sue vene, tanto era ferrea nella postura e nello sguardo.

«L'ho fatta venire qui per chiarire questa situazione ridicola una volta per tutte. Vede, herr Schröder, io sono una donna che sa quello che vuole e che sa come comportarsi con gli uomini. Loro vedono in me solo la prestante modella con i boccoli dorati che lei vede qui ritratta e dunque io so che mi devo comportare come loro si aspettino che faccia, per ottenere quello che voglio. Frivolezze e profumo alla lavanda, per intenderci. Ma le voglio chiarire che io non sono affatto così. Lei vuole questo quadro, ma io non ho intenzione di venderglielo perché è lei un pomposo soldato tedesco che ha invaso la mia amata nazione, perché si ritiene superiore agli altri per la sua potenza militare, perché è un misogino, un egoista e un prepotente! Piuttosto che vedere il mio quadro nelle sue mani, preferisco distruggerlo!» strillò Sophie.

Hilderich Schröder rimase senza parole. Lurida puttanella nazionalista francese! Si stava facendo beffe di lui e del Terzo Reich!

Sophie estrasse un coltello dalla borsetta, si voltò verso la tela e fece per strapparla, quando il colonnello, ripreso dallo shock e furibondo per le parole velenose della ragazza, le saltò addosso. Sophie urlò e si dimenò.

E poi uno sparo.

Il corpo del colonnello Schröder le fu addosso con tutto il suo peso. Sophie non capì cosa fosse successo finché non notò il sangue vermiglio che si allargava in una macchia scura sulla schiena del soldato tedesco. Urlò in preda al terrore. Qualcuno gli aveva sparato, qualcuno l'aveva ucciso!

E poi lo vide. Gisbert Kraus, il giovane maggiore di Schröder, ritto davanti a lei con la pistola ancora alzata. «Monsieur Kraus... lei, cosa?» farfugliò la donna, senza capire cosa fosse successo. Forse il maggiore temeva che il suo colonnello stesse cercando di abusare di lei e, colto da spirito eroico, aveva deciso di ucciderlo. Ma Kraus non accennava ad abbassare la pistola.

«Sì, mademoiselle Petit, trovo che il suo profumo sia adorabile.»

E fece fuoco.


L'avevano cacciato via per amoreggiare. Che idioti che erano stati! Lui sapeva benissimo come stavano le cose, non ci era cascato alla loro messinscena, signorno! Lui era un tipo sveglio, eccome, a soli venticinque anni era già maggiore dell'esercito tedesco! Non si faceva gabbare da quei due, proprio no.

Ma sta volta li aveva fregati lui. Che amoreggiassero adesso, con tutto quel sangue e gli occhi vitrei sbarrati verso il soffitto. Sì, sì, li aveva fregati, lui.

Si allontanò dalla galleria d'arte con il cuore più leggero. La gente per strada, al suo passaggio, lo additata e urlava, chissà perché. Forse era per le sue vesti sporche di sangue, o per la pistola che aveva ancora tra le mani. Arrivò al ponte sulla Senna con un sorriso sereno stampato sul volto. Che bel fiume, come scorreva veloce, lì sotto! Ora che aveva punito i due amanti, non sapeva che altro fare. Magari una nuotata nel fiume lo avrebbe distratto per un po', e poi gli sarebbe venuta in mente una bella idea per passare il resto della giornata. Scavalcò il parapetto.

«Monsieur!» gridò qualcuno. Che lingua musicale il francese!

Nel rapporto che avevano redatto prima di spedirlo a Parigi, il medico aveva scritto “soggetto psicolabile, con frequenti attacchi d'ira.” Strano, al momento gli pareva tutto, tranne che di essere arrabbiato.

«Faites attention!» urlarono ancora. Mamma, che noiosi questi francesi! Si voleva solo fare un tuffo!

Un uomo riuscì ad afferrarlo per la giacca, ma era troppo tardi e il peso del corpo del ragazzo fu tale che il francese non riuscì a mantenere la presa.

Gisbert Kraus cadde nella Senna con un sorriso beato sul volto.



Epilogo


Tamara de Lempicka andò all'ufficio postale per ritirare un pacco che le era stato spedito dall'Europa. Era accompagnato da una lettera scritta in un inglese stentato, con una grafia incerta e tremula. Parlava di un quadro, la cui proprietaria era morta senza lasciare eredi e che era stato irreparabilmente danneggiato. Il mittente era il custode della galleria d'arte dove si trovava l'opera.

Tamara aprì il pacco, incuriosita. Una donna altera, completamente nuda se non per un cappello e un paio di guanti, la fissava della tela. Sì, se lo ricordava quel quadro. L'aveva disegnato come minimo dieci anni addietro, ritraendo una modella francese. C'erano numerose macchie scure, rossastre, sul corpo della donna. Tamara ci passò sopra un dito, sovrappensiero. Sembrava che fosse stato dipinto del sangue su quel corpo morbido. Era un peccato che si fosse rovinato in tal modo.

Ma forse un rimedio c'era. Tamara osservò per un attimo il pennello e la tavolozza che giacevano abbandonati nella stanza accanto: le era avanzato un po' di colore verde, dall'ultima tela che aveva disegnato. Si voltò nuovamente verso il quadro venuto da Parigi, con un mezzo sorrisetto. «Credo che proprio sia ora di vestirsi, miss




Spero che la breve storia vi sia piaciuta; qui inserisco il link del concorso, dal titolo “Di giovani fanciulle, donne misteriose e ritratti”, nel quale questo racconto si è classificato al primo posto. QUI, invece, il quadro protagonista del racconto.

Alla prossima,

Beatrix



Edit: la storia è stata recentemente corretta nell'impostazione dei dialoghi secondo le giuste norme!

   
 
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