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Autore: Geilie    15/05/2010    3 recensioni
Mettiamo subito le carte in tavola. Sono una vipera senza peli sulla lingua, non amo la vita e la vita non ama me. Ah, quasi dimenticavo: sono in prigione, e salvo miracoli non ne uscirò se non dentro a una bara, per aver ucciso cinque persone. Non pensate che sia una persona violenta, non nel senso comune del termine. Non è stato un atto volontario; io la definirei una coincidenza fortuita, un caso sfortunato, un evento totalmente casuale nel totalmente casuale intreccio d’eventi che è la mia vita. O che era, visto che la mia non è più una vita, e comunque non lo sarà ancora a lungo. Sì, ho deciso di porre fine a tutto quanto: ho intenzione di suicidarmi l’ultimo giorno del mese. Che poi sarebbe oggi.
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note 1: questa storia è nata per partecipare a un concorso letterario indetto nella mia città. A lavoro terminato, però, la storia non mi convinceva più e non l'avrei inviata, magari costringendomi a scrivere qualcosa di diverso, se non fossi stata convinta da mia madre in primis, e poi dal parere positivo ricevuto da Grinast ed Ernil, alle quali ho fatto leggere questa cosa prima di spedirla per avere un'opinione spassionata. La storia non ha vinto (il premio era, per le prime dieci storie, essere pubblicate in un libretto messo poi in vendita), e io ne sono piuttosto felice perché se fosse accaduto il contrario non avrei più potuto pubblicarla online, cosa a cui tenevo invece tantissimo! ^^

Ringrazio quindi Grin ed Ern, perché la storia non è propriamente betata ma della loro lettura in anteprima mi fido ciecamente, e perché senza di loro questa shot sarebbe probabilmente finita in un cestino! ;)

Grazie anche alla mia Gi, a cui avevo mandato questa fic per avere anche il suo parere prima di spedirla al concorso, ma che non l'ha finita di leggere prima dello scadere del bando (e credo che ancora non l'abbia letta tutta, a dire il vero) e che quindi quel parere non me l'ha mai dato! XD

Note 2: ciò che vi apprestate a leggere (o che vi stavate apprestando a leggere prima che io vi facessi fuggire a colpi di note) risponde inoltre a una piccola sfida privata che io e la mia fida alfa-writer Ernil ci siamo lanciate a vicenda: non era un obiettivo voluto, ma ho cominciato a inserire le parole richieste da Ern senza accorgermene e quando me ne sono resa conto... beh, non mi pareva giusto sprecare nulla, no? ;)

Le sue richieste erano le seguenti:

  • fandom libero;
  • minimo 500 parole;
  • deve apparire un fatto di sangue (omicidio, suicidio ecc.);
  • deve esserci almeno un flashback;
  • devono apparire la citazione di Marilyn Monroe: "Se avessi rispettato tutte le regole, non sarei andata da nessuna parte." e le parole ciliegie e déjà-vu.

Disclaimer: questa storia non è scritta a fini di lucro ma come puro divertissement ed esercizio di stile (mal riuscito, temo! <.<"). Qualsiasi riferimento a cose o persone realmente esistite o esistenti è da ritenersi puramente casuale.

 

-Gy

 

 

 

Killer

 

Mettiamo subito le carte in tavola.

Sono una vipera senza peli sulla lingua, non amo la vita e la vita non ama me.

Ah, quasi dimenticavo: sono in prigione, e salvo miracoli non ne uscirò se non dentro a una bara, per aver ucciso cinque persone. Non pensate che sia una persona violenta, non nel senso comune del termine. Non è stato un atto volontario; io la definirei una coincidenza fortuita, un caso sfortunato, un evento totalmente casuale nel totalmente casuale intreccio d’eventi che è la mia vita. O che era, visto che la mia non è più una vita, e comunque non lo sarà ancora a lungo. Sì, ho deciso di porre fine a tutto quanto: ho intenzione di suicidarmi l’ultimo giorno del mese.

Che poi sarebbe oggi.

Sono riuscita a procurarmi un po’ di cianuro, non penso importi come...

 

Questa in effetti è la mia lettera d’addio, quel foglio di carta spiegazzata, magari coll’inchiostro un po’ sbavato per le lacrime, in qualche punto (stronzate da romanzetti rosa, per quanto mi riguarda), quel foglio che tutti i suicidi lasciano in bella mostra come memento per coloro che restano. Qualcosa che dica loro “Ehi! Ricordati del mio gesto! Scava nella tua coscienza, trovati colpevole per questo: ci rivedremo all’Inferno!”.

O forse non proprio così, ma questa è la mia idea.

Questa lettera non è un commiato dalla vita come di solito lo si intende; non ci saranno “Mamma, ti voglio bene” e “Papà, ti prego, non piangere”. No, niente del genere.

Non ci saranno lacrime né insulti, condanne né verità svelate in punto di morte: non c’è un fattore esterno che mi spinge a questo gesto considerato estremo, non c’è un colpevole.

Sfrutterò le pagine ancora bianche che ho davanti, per buttar giù tutti gli ultimi pensieri che mi passeranno per la testa nei prossimi minuti.

 

Ad esempio, ora penso alle mie ultime cinque vittime. Ricordo benissimo i nomi di tutti loro, le loro età, lo stato civile... una sfilza di dati anagrafici.

Jana Anissina, 56 anni, badante. Nata in Bielorussia, vedova, due figli rimasti in patria; ricordo la sua faccia paffuta, con gote rosse come mele e occhietti affilati color acciaio.

Anita Moraccioni, 19 anni, studentessa. Bei capelli scuri e lisci come seta, vestita Gucci e Prada dalla testa ai piedi. Una grande borsa panna appesa al braccio sinistro, mi pare.

Mario Antonio Dell’Angelo, 78 anni, ex-insegnante in pensione. Felicemente (almeno a quanto dicevano i conoscenti) sposato con Giuliana Frongia, 71 anni, titolare di una piccola merceria in centro. Ricordo di essere passata per quel negozietto un paio di volte, a comprare tela Aida e fili dalle tonalità ricercate, quando mi divertiva ancora tanto ricamare a punto croce. Un posticino simpatico, all’antica, con le pareti rivestite in legno scuro e lampadari di vetro celeste.

E per finire Michele Costa, rispettabile avvocato 35enne, l’unico che sarebbe davvero dovuto morire quel giorno. Come tutti gli avvocati degni di tal nome, che se cadono si portano sempre dietro qualcuno, il signor Costa ha trascinato con sé nell’altro mondo quattro innocenti.

Per me è stato uno spiacevole imprevisto, che mi è costato la libertà, e di conseguenza la paga e il lavoro, ma in fondo ho portato a termine la mia missione e questo mi basta.

È quello che fanno i killer: uccidere la gente, possibilmente con lauto compenso, possibilmente senza errori e imprevisti. Possibilmente.

Io ho 23 anni, faccio questo discusso mestiere da quando ne avevo 16 e non ho mai, mai mancato un obiettivo in tutta la mia carriera; mi consola pensare che il mio primo e unico errore non abbia causato il fallimento della mia missione. È come se avessi esagerato giocando a battaglia navale: ho abbattuto la grande portaerei del nemico, il mio target, solo che nella foga ho eliminato anche quattro navi della mia stessa flotta.

Ma io dico che se avessi potuto usare i miei metodi, non ci sarebbe stata nessuna vittima innocente, nessuno scandalo, nessuna sbavatura nel mio altrimenti perfetto curriculum. Io sono un cecchino per vocazione, amo appostarmi, prendere la mira e vedere il mio bersaglio afflosciarsi come un fiore reciso dopo un unico, precisissimo colpo. Stavolta mi hanno imposto un’arma con cui ho poca confidenza, perché “l’avvocato è uno che non si fa vedere molto in giro, non avresti opportunità sufficienti dalla distanza. Prova questo nuovo gas invece; è preciso, rapido, difficile da scovare al tossicologico” e un mare di balle del genere.

Preciso, bah! La verità è che quel gas tanto preciso mi ha costretta ad avvicinarmi tanto al fottutissimo avvocato che mi è crollato addosso quando è crepato. E io sono stata riconosciuta subito come l’assassina, visto che ero l’unica ad essere sopravvissuta in quella stradina maledetta. Merito del congegno ultra innovativo che purifica l’aria e funge da maschera anti-gas, senza però essere visibile all’esterno e bla bla bla...

 

A volte non sopporto il mio attaccamento al denaro; non fosse stato per soldi non avrei mai accettato quest’incarico. Non mi piaceva l’idea di dover agire nella mia cittadina, né di dover usare armi strampalate e ancora in fase sperimentale. Ma la mazzetta di biglietti da 500 che mi hanno messo in mano mi faceva proprio comodo; ci avrei estinto il mutuo per la casa, tanto per cominciare.

Ma evidentemente era destino, dopo sette anni di incarichi portati a termine senza una macchia, che la mia esistenza imperturbabile prendesse una brusca piega e mi portasse fuori strada.

Amen.

Non ho nemmeno provato a difendermi al processo: era troppo evidente che fossi colpevole, non avevo vie d’uscita. Non legali, perlomeno.

A un’evasione non ho mai pensato, è una cosa che richiede troppo tempo e troppa preparazione, molto rischiosa e con poche probabilità di riuscita, nella maggior parte dei casi. E poi non avrei sopportato di vivere come una volpe che fugge da un gruppo di signorotti inglesi a cavallo: sempre in fuga, sempre a nascondermi, attiva solo di notte. Io amo il sole, anche se adesso lo posso vedere solo attraverso una finestrella a sbarre e durante la mia ora d’aria.

Forse è per questo che ho deciso di farla finita, perché non sopporto di non poter godere del sole. Non vedo altri motivi; la solitudine non è un problema, io sono sempre stata sola e non ho mai avuto bisogno di compagnia. Qui nessuno osa maltrattarmi: non infastidisco anima viva e soprattutto ho costantemente l’aria di chi potrebbe uccidere un uomo tagliandogli la gola con un’unghia. La miglior difesa è sempre l’attacco, no?

Non ho famiglia, non ho legami, non sono chiusa qui da tanto da poter essere presa dalla claustrofobia e dalla disperazione. Non sento granché nemmeno la mancanza del sesso. Mai stato una componente di spicco nella mia vita, comunque.

Mi manca giusto il mio lavoro, le mie armi, la sensazione di pace che mi dà l’accarezzare il grilletto del mio fucile preferito poco prima di sparare quel mio unico colpo letale...

Mi sono costruita una piccola fionda con un paio di elastici e una piccola pezza di stoffa, una di quelle che si incastrano nelle dita della mano e sono facili da nascondere in tasca. Il gioco preferito dei ragazzini, un tempo. Quando proprio non resisto al bisogno di colpire qualcosa, di sparare un proiettile di qualche tipo, mi alleno a prendere le guardie che fanno la ronda sul muro di cinta, in linea retta con la mia finestra, con delle palline di carta o dei noccioli di frutta.

Giochi da bambini, già, ma sempre meglio di niente.

E d’altronde, non ho mai avuto un’infanzia, non ho mai giocato quando avrei potuto, perché non recuperare il tempo perso ora?

Ora sto qui, nella mia celletta, e penso che forse mi sarebbe piaciuto crescere come gli altri bambini, che forse mi sarebbe piaciuto tornare a casa da scuola, scorrazzando per viuzze affollate con i libri in mano e il grembiulino svolazzante; dare un bacio alla mamma, lavarmi le mani e mettermi a tavola, con papà che si slaccia la cravatta sorridendo, appena tornato dall’ufficio. Sulla tovaglia decorata con un motivo di ciliegie stanno in bella mostra risotto alla milanese e scaloppine di tacchino al limone con contorno di patate in verde; quasi sento il profumino delizioso che si alza dalle pentole semichiuse...

E poi guardare la tv, con Kiky, il nostro gatto, acciambellato in grembo.

“Vai a fare i compiti, tesoro.”

“Sì, mamma, ancora cinque minuti: sta finendo i Simpson!”

 

Già. Penso che mi sarebbe piaciuto.

Invece sono finita qui, chiusa in una stanzetta grigia e spoglia. Piccola, anche, ma questo non mi preoccupa. Per la missione Beinoff sono stata in Giappone, uno dei miei innumerevoli viaggi di lavoro, ed ero alloggiata in un grande hotel futuristico, con stanze-cubicolo che avevano giusto lo spazio per il letto. Ricordo che la camera più ambita fosse la suite presidenziale, perché si narrava che avesse il soffitto alto tre metri invece che due. Ridicolo.

Comunque adesso mi fa comodo aver vissuto per una settimana in quell’albergo, così non mi crea alcun problema dover restare in una cella in cui di letti ce ne starebbero anche due.

E in fondo, purché ci sia lo spazio per qualche buon libro, io potrei vivere ovunque.

La lettura è ciò che amo di più dopo il mio lavoro, l’unica cosa che riesca a farmi sentire euforica a parte un fucile di precisione. Leggo di tutto, in tutte le lingue che conosco (che sono parecchie). Dopo aver portato a termine un incarico, mi regalo sempre uno o due libri: il mio personalissimo premio...

E che fosse una copia dell’Odissea o la Divina Commedia, il Riccardo III di Shakespeare o l’Ulisse di Joyce, non ho mai fatto un viaggio senza portarmi dietro almeno un libro. A volte la gente si stupisce nel pensare che una killer professionista possa essere un’appassionata lettrice di Tolstoj e Hugo, che possa commuoversi con Lucia nell’addio ai monti e pianificare la propria vendetta insieme a Edmond Dantes. Le persone che uccidono a sangue freddo non hanno sentimenti, è impossibile che si facciano intenerire da Marguerite Gautier o dalla vicenda di Giulietta e Romeo! (1) Questo è il pensiero comune. Spesso mi stupisce quanto la gente “per bene” sia ignorante. Io parlo 8 lingue, ho girato il mondo, suono il sax da 6 anni e ho studiato le arti marziali in Cina, dopo questa missione avrei avuto la stabilità economica sufficiente a prendermi una pausa per laurearmi in filosofia, ma siccome uccidere è il mio mestiere non valgo niente? Odio gli stereotipi, li ho sempre odiati.

 

Amo ciò che è creativo, invece.

Avrei voluto imparare a scolpire il legno, ad esempio.

Ricordo un vecchietto, un signore simpatico che incontravo spesso in un paesino di montagna dove ho vissuto per un mese, che passeggiava sempre con due fedeli compagni: il suo cane, un bel pastore tedesco, e uno splendido bastone da passeggio intagliato da lui stesso. Ne aveva più di uno, tutti egualmente belli, ma quello che gli vedevo usare più spesso era un bastone lungo, di un legno chiaro e resistente, levigato a mano: la sommità era stata modellata con grande maestria fino ad ottenere la forma di una testa d’aquila, mentre il fusto era lavorato con un motivo a rombi in rilievo. L’aquila era poi stata dipinta con una minuzia insospettabile, per un uomo di quell’età, e pareva quasi un animale vero, magari imbalsamato e fissato al suo trespolo con chissà quale trucco.

Un altro oggetto mirabile che mi capitava di notare tra le sue mani era una pipa, scura e tozza, del classico modello “da marinaio”, che si era costruito da solo per i momenti di relax.

Chiacchieravo spesso con quel vecchio signore; il più delle volte ci incontravamo in mezzo ai boschi dove io andavo a leggere e pensare, e lui a fumare e cercare pezzi di legno che gli “parlassero”, come diceva lui.

Quando ci incrociavamo, sempre per caso, era diventata una sorta di abitudine per noi trovarci un masso o una chiazza d’erba morbida all’ombra di una grossa quercia per sedersi e mettersi a parlare. È strano ripensarci ora, ma quell’uomo è stato uno dei miei pochissimi amici, se così si può definire. Morì qualche tempo dopo il mio arrivo nel paese. Quando venni a saperlo, andai a cercare la sua tomba nel piccolo cimitero ordinatissimo e vi lasciai un mazzo di fiori selvatici che ero andata a cogliere quella mattina, di quelli tra cui ci sedevamo spesso quando chiacchieravamo nei boschi.

Dopo la morte del Mago del Legno, come cominciai a definirlo nella mia mente, non ho più avuto una persona con cui chiacchierare in quel modo, senza scopo né limite, per il solo gusto di sentire la mia voce intrecciarsi ad un’altra.

Solo una volta, un paio di anni dopo, provai uno strano senso di déjà-vu nell’incontrare un’anziana signora in una cittadina francese dal nome trascurabile che passeggiava con un bastone intagliato finemente. La testa rappresentata era quella di un serpente, ma lo sguardo gentile e insieme fiero che la donna mostrava mi riportò immediatamente con la memoria al mio amico Mago del Legno. Fu una sensazione tanto intensa, come non ne avevo mai provate prima, che dovetti sedermi sulla prima panchina che trovai sulla mia strada per evitare di perdere l’equilibrio.

Probabilmente fu in quel momento che mi resi conto di cosa significa perdere una persona cara: per me non era che un conoscente, una persona gentile che sapeva usare il silenzio quanto le parole, per esprimersi... Ma se mi aveva fatto un tale effetto, a me che avevo un sangue freddo invidiato da parecchi e disprezzato da altrettanti, improvvisamente mi chiesi come sarebbe stato avere una madre e trovarla morta nel suo letto una mattina di primavera.

Ma in fondo non ha senso pensarci, io non ho mai conosciuto mia madre.

 

E parlando di morte, torno a pensare a ciò che so fare meglio: uccidere. Faccio dei voli pindarici che per un eventuale lettore devono sembrare piuttosto astrusi, a volte, ma mi piace seguire l’ideale di Joyce. Se devo riportare dei pensieri a ruota libera, non si può certo pretendere che ci sia sempre un filo logico ben visibile che li lega. La mente ha tutto un suo modo di lavorare... E se proprio volessi battere su questo punto, dovrei fare proprio come il caro vecchio Jimmy e tralasciare anche la punteggiatura; quando mai si pensa con i punti e le virgole?

Eh sì, il signor Joyce era un “uomo dal multiforme ingegno”. (2) Forse con una filosofia di vita (e un’idea di arte) un po’ esagerata, però.

La mia è sempre stata più semplice: discrezione, precisione, ordine.

Ma in realtà se avessi rispettato tutte le regole, non sarei andata da nessuna parte. (3)

L’unica regola a cui cerco di non venire mai meno è di non bere quando sono in missione, perché non sai mai che può succedere se perdi il controllo per aver esagerato con l’alcol. Rivelare informazioni, svegliarti in gattabuia, finire a letto con la tua vittima...

A un mio collega successe. Eravamo insieme quella sera perché avevamo un incarico incrociato: io dovevo uccidere il fratello della sua vittima, lui il capo della mia. Tra killer bene o male ci si conosce e si cerca di non intralciarsi, per questo abbiamo un nostro codice con cui ci comunichiamo gli obiettivi, senza comunque dare troppi dettagli per evitare problemi, e se capita di avere una missione nello stesso posto, addirittura di dover colpire delle persone tra loro legate, spesso ci si accorda per agire insieme; così si riesce quasi sempre a far ricadere i sospetti su clan di mafiosi e grandi organizzazioni criminali, e si evita di dover eliminare dei soggetti superprotetti perché due settimane prima è stato fatto fuori un loro conoscente, o un loro nemico.

Insomma, ero con questo ragazzo in un pub, in Scozia, e ci eravamo accordati per entrare in azione la notte successiva. Eravamo lì per mettere a punto gli ultimi dettagli del colpo e per gettare una piccola trappola alla guardia del corpo del suo target. Ma parlando parlando, il ragazzo beveva, si scolava una birra dopo l’altra, e poi passò al brandy.

“Smettila Vince, non ho intenzione di pulire il tuo vomito.”

“Oh, non rompere! Sono luuuucidissimo!”

 

Già. Lucidissimo. Proprio così.

Infatti quando qualche minuto dopo è entrata la donna che poi avrebbe dovuto ammazzare, è andato a rimorchiarla. E gli è andata anche bene, visto che sono finiti a casa di lei in preda a chissà quale attacco di folle passione.

Io l’ho lasciato fare. Sono sadica, che ci volete fare? E per godermi meglio lo spettacolo, li ho seguiti per scoprire dove fosse la villa della signorina e la mattina dopo, all’alba, mi sono appostata nel palazzo di fronte con il binocolo a infrarossi e ho osservato la scena che si svolgeva nella camera da letto al primo piano.

 

Lui si è svegliato senza sapere dove fosse e con un mal di testa da record, almeno a giudicare dalle smorfie che faceva, e appena ha notato lei che sonnecchiava lì accanto e si è accorto di chi in realtà fosse, è entrato in stato di shock.

Ha lasciato la stanza silenzioso e rapido come un gatto e non l’ho più visto. Mai più. So per certo solo che non ha portato a termine la sua missione, perché il suo datore di lavoro mi ha contattata per offrirmi una cospicua somma se mi fossi accollata anche l’incarico “del fottutissimo figlio di puttana che mi ha piantato in asso ed è sparito!” e quella donna l’ho eliminata io due notti dopo, assieme al mio bersaglio.

 

La vita è strana. Decisamente.

Ma ora si sta facendo tardi e ho buttato giù tutti i miei pensieri.

Non ho più niente da dire, penso di potermi avviare sulla grande strada a dodici corsie che porta dritta dritta all’Inferno. Sempre che l’Inferno esista, s’intende.

 

In tal caso, au revoir!

 

P.S.

Ne approfitto per fare testamento.

Voglio essere cremata, tanto non c’è nessuno che possa andare a metter fiori freschi sulla mia tomba di marmo e a lucidare il portafoto di bronzo.

Tutte le mie proprietà possono essere donate in beneficienza o spartite tra gli avvoltoi che si getteranno sulla mia villetta in campagna con l’acquolina in bocca, se preferite. Non fa differenza.

Tutto ciò che chiedo è di conservare del denaro sufficiente a farmi seppellire nei boschi di quel paesino dove io e il Mago del Legno abbiamo trascorso tante giornate. Qui accanto c’è una cartina del luogo disegnata a mano con indicato il punto esatto in cui voglio che siano gettate le mie ceneri. O che sia seppellita la mia urna, se preferite.

Ah, cogliete un mazzo di quei fiori azzurri che troverete lì e portateli sulla tomba del mio unico amico. Chiedete al parroco, domandategli del signore col bastone a testa d’aquila; vi indicherà la lapide giusta.

 

Firmato

Silvia “Hawkeye” Freira (4)

 

Note

 

(1) Lucia e l’addio ai monti fanno ovviamente parte de I Promessi Sposi, di Manzoni. Edmond Dantes, meglio conosciuto come Conte di Montecristo, è invece il protagonista dell’omonimo romanzo di Alexandre Dumas padre. Marguerite Gautier è la cortigiana protagonista di La Signora dalle Camelie, di Alexandre Dumas figlio. In quanto a Giulietta e Romeo, non credo abbiano bisogno di presentazioni.

(2) Riferimento al celeberrimo proemio dell’Odissea. “L’uom dal multiforme ingegno” è infatti Ulisse (o Odisseo, a seconda dei gusti).

(3) Parola (e copyright) di Marilyn Monroe! Io cito e basta...

(4) “Hawkeye” significa “occhio di falco”: è trito e ritrito, ma rimane un buon nome di battaglia per un cecchino.

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