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Autore: avalon9    20/05/2010    6 recensioni
Gli youkai sono essere terribili: affascinano e uccidono. Sono esseri diversi. I ningen sono insignificanti, per uno youkai; creature semplici, irrazionali, che trascinano la vita senza comprenderla. Dei ningen gli youkai non si curano; li ignorano con superiore indifferenza.
Sesshomaru è youkai ed è orgoglioso della sua essenza. Ma un inverno, incontrerà una ningen e, da quel momento, la linea netta che separa uomini e demoni inizierà ad assotigliarsi.
Genere: Romantico, Malinconico, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Sesshoumaru
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sono migliorata, no

Sono migliorata, no?

Sette mesi contro i diciassette dell’altra volta. Sì: direi che può andar bene. É il capitolo più lungo che abbia scritto finora; e quello che – ne sono sicura – molti di voi aspettavano. Da tanto. E ho cercato di evitare cerchi, onde e scioglimenti (e sì, parlo di quello).

Ringrazio infinitamente chi mi segue, con pazienza e comprensione.

Grezie a Lete89, prima lettrice e prima critica (spietata).

Grazie a Rosencrantz Miriel e Blackvirgo. Per esserci e per quello che siete.

Grazie a Lein87, _Christine_, Eiby, Celina, Elenasame per le bellissime parole che mi avete usato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 48

LUCCIOLE

 

 

Prima c’era stato il silenzio.

Pesante; profondo; strano. Prima: silenzio. Poi, l’ossessione della pioggia. Sempre; sempre. O forse era il sangue. Il sangue che scorreva e scorreva, mentre il suo cuore tentava di mantenere un ritmo, un barlume di normalità anche quando il respiro era un rantolo e nei polmoni, nella bocca, il sangue c’era e grattava e soffocava. Perché di sangue, in bocca, ce n’era stato tanto, e non riusciva a mandarlo via. Prima, nel silenzio, il sangue era l’unico ossessivo fastidioso rumore. Poi. Poi anche il sangue era sparito. Ed era rimasto solo quell’abbandono, quel nulla che rimbombava e risuonava e sembrava prenderle la testa e schiacciarla e appesantirla e comprimerla per distruggerla.

 

Il silenzio. Quanto poteva essere profondo e fasullo e irreale e snervante, il silenzio? Era. Era una prigione. Assieme al buio. Provava a urlare; apriva la bocca e gettava fuori aria. Aria rabbia terrore sconforto. O almeno credeva di urlare. Ma la bocca restava aperta, e il silenzio restava silenzio e il buio era buio. Nel buio, si era accorta di non riconoscere se stessa, di non avvertire il suo corpo. Sapeva che c’era; si convinceva che era solo uno sbaglio, solo stanchezza. Il suo corpo. Era un formicolio lontano; una sensazione quasi estranea e poco allettante. Rifiutava di pensarci, al suo corpo. Rifiutava di immaginarlo. Ma, nel buio, anche il rifiuto prende forma e il corpo, il suo corpo, lo vedeva: lì, davanti a lei. E chiudere gli occhi e scuotere la testa e gridare – provarci – e voltarsi e scappare non era possibile. E il suo corpo diventava doppio, triplo. Si rivedeva riflessa in ogni ombra: e la pelle chiara era nera; e gli arti apparivano e sparivano; mani che si tendevano sporche di terra e sudore e sangue. E ventri, schiene, seni, gambe, ginocchia. Nel buio, quel corpo che percepiva lontano la stringeva e la stringeva; le si gettava addosso, assieme all’odore di marcio e sudore che le prendeva…Le prendeva…La prendeva. E basta. Perché non sapeva nemmeno lei se lì, in quel nulla, in quel silenzio, fosse qualcosa. Potesse essere ancora qualcosa. E non osava abbassare gli occhi; non si permetteva di sollevare una mano davanti al viso. Per cosa poi? Per scoprire un arto scheletrico, con brandelli grigiastri di carne? Per vedere la pelle nera e chiedersi, in fondo, che differenza ci fosse, se ci fosse differenza, fra il suo corpo e quel…quel…quel qualunque cosa fosse il luogo dove si trovava. Era come se fosse mente. Solo mente. Pensiero alla deriva. Senza possibilità di tornare; senza una strada da percorrere. Forse non aveva nemmeno il desiderio di tornare. Aprire gli occhi e vedere…Cosa avrebbe visto? La stanza che le era stata assegnata a palazzo? Delle membra distese in un futon e coperte di sangue o avvolto nello yogi o…O forse avrebbe visto ancora buio e l’odore della terra e della polvere secca che scende in bocca assieme al respiro inghiottito a fatica. Forse era ancora in quella piana, su quel campo di battaglia che si era costretta a vedere, che aveva imposto a se stessa di raggiungere. Forse. Forse era come i corpi di quei demoni che aveva visto: arti e membra dilaniate; ossa liquefatte e viscere molli e gocciolanti. Forse. Forse non vedeva nulla perché, in fondo, non c’era più nulla da vedere e il suo copro se lo stavano contendendo gli youkai o i corvi. Ce n’erano molti, di corvi, sulla collina dove Inuyasha aveva costretto il loro cervo a fermarsi: neri e lucidi, con il loro gracchiare simile ad una risata gutturale e quel becco. Quel becco opaco che rifletteva in tralice il sole e deformava le ombre in un sorriso da scheletro. Aveva pensato ad uno scheletro; uno scheletro con le ali che aspetta solo il silenzio e il vuoto per calare su membra e sangue e cercare e mangiare e strappare e affondare il becco degli occhi, negli squarci coperti da una fanghiglia mista di sangue e polvere secca.

 

Forse non sentiva nulla, non vedeva nulla, perché, semplicemente, il suo corpo non c’era più. Tranciato in tanti e tanti pezzi, portato in trionfo e masticato e spezzato. E quel buio, quel vuoto era…Cos’era? La morte? L’aldilà? Non le interessava. C’era solo il silenzio e quella sensazione lontana di formicolio che avvertiva ogni tanto. Forse era il dolore. Forse era l’eco dei suoi nervi torturati e tranciati; forse era lo schiocco secco delle articolazioni che vanno in frantumi e lo strappo della pelle e dei tessuti nervosi. La pelle. Che rumore ha la pelle che si strappa? Forse era; era come la sensazione che la percorreva a sorpresa, quasi il rimasuglio di una privazione.

Prima c’era stato il silenzio; e l’abbandono. Senza pretesa di reagire; senza volontà di arrendersi. Era stata strana, quella sensazione. Una rassegnazione che non era una resa. Come se qualcosa, da qualche parte, dentro di lei, attorno a lei, nel silenzio e negli echi distorti di percezioni che credeva di cogliere, le stesse sussurrando di aspettare. Solo aspettare. Senza farsi domande e senza pretendere nulla. Aspettare. Richiudendosi di più, arrotolandosi in se stessa quando lo smarrimento diventava afasia e asfissia; espandendosi e fondendosi con quella coltre che non capiva se fosse altro da sé o il suo nuovo stesso corpo, la sua nuova essenza. C’erano momenti in cui le sembrava di possedere ancora delle mani e di tenderle e di stringere qualcosa che poteva essere un avambraccio, una spalla, un seno. C’erano momenti in cui era convinta di star scavando, di sprofondare in una sabbia densa e nera e liquida e di continuare a scavare e scavare e scavare forse per non lasciarsi seppellire forse perché, da qualche parte, dentro la sua testa, sapeva che era la sola cosa da fare e che forse, in fondo, le mani, quelle cose che erano nel molle, nel buio, avrebbero fatto male e le avrebbe viste colorarsi di rosso. Le avrebbe sollevate: le unghie spezzate e le dita sporche piene di tagli ed escoriazioni che bruciavano e tremavano e, ne era certa, avrebbe riso e avrebbe pianto e le avrebbe affondate di nuovo in quel nero fino a doverle raccogliere a fatica contro il petto e tossire per recuperare un po’ di ossigeno.

 

Prima c’era stato il silenzio. Poi la pioggia.

Uno scroscio continuo e lento, molto lento, quasi una litania. Non ricordava come. Era solo consapevolezza. La percezione di un cambiamento che c’era stato. In quel buio, in quel niente si era insinuato un sibilo sempre più acuto, sempre più penetrante; ed era diventato eco e pesantezza e bagnato e brividi sulla pelle e rimbombo nelle orecchie e arsura nella gola e respiro pesante e umido. La pioggia era stata la strada. Una strada senza linee o pietre; una strada di suoni che affondavano ancora e ancora in quel buio e in quel nulla. Non era cambiato, il buio. Non era cambiata la deriva che viveva, sempre che fosse ancora viva, e cui si abbandonava come in un bozzolo, in attesa. In spasmodica nervosa attesa, con la frustrazione della debolezza e dell’incomprensione pronte a risvegliarsi ad ogni accenno, ad ogni minimo immoto movimento, pensiero di movimento. Non era cambiato nulla. Neppure il silenzio. C’era ancora silenzio. Era solo un diverso silenzio: l’ossessione della pioggia.

E. E si era chiesta se fosse davvero pioggia; se fosse davvero lo scroscio dell’acqua quel suono che fischiava e scendeva fin nei recessi, come un serpente, girando e rigirando in spire eleganti e lunghe e lisce. Si era chiesta se fosse davvero acqua, o non piuttosto il gocciolare ritmico del sangue da membra abbandonate; il gorgoglio del respiro che si colora di rosso ed esce schiumante dalla bocca. Il sangue; e la bocca. Era; era un qualcosa di conosciuto. Assieme al ricordo di un risucchio. Sì; proprio il verso strozzato dell’acqua che mulinella e scende e scende e sparisce. Un risucchio. Come se da qualche parte, qualcosa o forse qualcuno la stessero succhiando. E non avrebbe saputo dire se era solo una sensazione, la consapevolezza o forse la paura di un qualcosa non meglio definito o se, semplicemente, quel vortice era lì, nella sua testa, nei suoi occhi ciechi, ed era solo il rumore dell’acqua che cadeva goccia a goccia.

 

Le era anche sembrato di poterle contare, tutte quelle gocce. Una, due, dieci, ventimila, sette miliardi. Tutte. Le sentiva tutte. Rimbalzare nel nulla; perforare il nulla. Era stato come se avessero penetrato la sua stessa pelle; come aghi sottili che scendevano sempre di più in quel corpo che non aveva o non riconosceva.

La pioggia era stata la follia. L’ossessione che si era fatta densa e pesante; l’ossessione e basta. Negli spasmi e nelle torsioni che laceravano e comprimevano ed erano solo pensiero che non riusciva, non poteva, liberare. La pioggia. Diventava grida; diventava lacrime e risate e urla e schiaffi e carezze e dolore e…piacere. Sì; c’era stato piacere. In un certo momento, assieme alla pioggia, assieme ad un silenzio che era ovatta e sapeva, lo sentiva, era falso e irreale e distante, lo ricordava, c’era stato piacere. E orrore.

 

La pioggia; il piacere; l’orrore.

Per. Per. Non lo riusciva a definire; non con esattezza. Ricordava. Ricordava che il nero era diventato grigio. O forse era colore. Sì; tanti colori precisi, tanti colori che avrebbe dovuto rimettere al loro posto. Forse dei visi; forse degli abiti. E delle voci. Voci come colori: e il rosso era lussuria, il giallo sgomento, il blu livore, il verde ingenuità, il nero durezza e il bianco…il bianco era terrore. Ed era la sua voce; nella pioggia. O nel silenzio.

I ricordi e le sensazioni si accavallavano, si sommavano; un viso, una parola, una mano, una bocca. Denti, zanne, artigli, stoffa, occhi, acqua, aria, morbido, duro. Rabbia, dolore, paura, tristezza. Consapevolezza. Di qualcosa. Di qualcosa che faceva male, maledettamente male. E che non riusciva, o forse solo non voleva, realizzare, recuperare e affrontare. Non subito; non ancora.

Prima il silenzio; poi la pioggia. E infine il sole.

 

Il rumore del sole.

Il tintinnio di un furin; il fruscio di un ventaglio; il singhiozzo cupo del sozu; lo sfrigolio del kayaributa. Ha un rumore strano, il sole. Mille piccoli suoni che si rincorrono ed esplodono nella testa. Era diverso dalla pioggia. Ed era stato come se tutto avesse riacquistato un equilibrio. Il nero restava nero; il corpo restava formicolio lontano. Ma c’era quel barlume di diverso che piano piano cresceva e metteva radici e si apriva. C’erano momenti in cui credeva di poterlo vedere, anche, il sole. In quel nero, c’erano macchie che diventavano ancora più scure e tremavano e si intensificavano e poi, piano piano, quasi con dolcezza, ritornavano indistinte e immobili. Restavano i suoni, e un rimbombo come nel cristallo. C’era qualcosa di confortante in quel miscuglio che non avrebbe neppure saputo dire se sentiva davvero o solo immaginava. Come la pioggia; come il silenzio.

 

Forse era solo una stupida illusione; forse erano le mille percezioni del suo corpo ormai smembrato: e il sole erano le ossa abbandonate; e la pioggia erano denti e zanne e saliva; e il silenzio e il buio erano le viscere di un demone o l’umido della terra. Quello che, quasi con paura, aveva realizzato di non avvertire era il dolore. C’erano, a volte, piccole scosse, come lo sfilacciarsi di una stoffa, ma erano lontane, quasi estranee. C’erano momenti in cui le mancava l’aria o qualunque cosa stesse o credesse di respirare. E si sentiva comprimere e schiacciare prima di ritrovarsi con i polmoni pieni d’ossigeno e il desiderio di tossire per liberarsi della troppa aria. Ma non c’era dolore. O forse era tutto dolore; e ne era talmente assuefatta, quasi anestetizzata, da non distinguere quello nuovo dal vecchio, da sommare semplicemente ogni retaggio di percezione e abbandonarvisi quasi con necessità. Ogni fremito, ogni minima eco, ogni barlume di possibile consapevolezza era un miraggio cui arpionarsi per coltivare, cullare, il desiderio, il limite della speranza, di poter tornare indietro; di poter , prima o dopo, riaprire gli occhi e il sole sarebbe stato sole e la pioggia pioggia e il silenzio si sarebbe dileguato in una girandola di suoni confusi e quasi fastidiosi. Sparire. E ritornare. Fosse anche per ritrovarsi in piedi nel padiglione medico, in quell’ospedale improvvisato in cui si era costretta a trascorrere gli ultimi mesi. Sarebbe andato bene anche l’odore di sake caldo, di sangue marcio e vecchio, il fetore di corpi madidi sotto una volta che bruciava e la nausea che ti prende e preme e attorciglia lo stomaco, mentre una mano corre alla bocca e inghiotti acido e disgusto e cerchi e inventi ed elabori una scusa, una stupida sciocca facile scusa per allontanarti e non mostrare lo sconvolgimento che, nonostante l’abitudine, nonostante il tempo trascorso, non se ne vuole andare, e ti costringe a digiunare e rigettare quel poco che sei riuscita a mangiare e ti lascia addosso un velo che si deposita e ti avvolge e prende forma e corpo e consistenza in sogni o forse incubi fatti di sensazioni, di violenze che esplodono e ti lasciano con il respiro rotto e la voce annodata in gola.

 

Prima c’era stato il silenzio; poi la pioggia. Infine il rumore del sole.

E un soffitto di legno grezzo e grigio. Non sapeva quando, ma quel soffitto aveva riempito i suoi occhi con una naturalezza quasi disarmante. Come se ci fosse sempre stato, come se il buio, il silenzio e ogni percezione non fossero stati altro che quello stesso soffitto. Non lo ricordava; non ricordava di averlo mai visto prima. Se ancora poteva parlare di prima. Quel soffitto era diventato un buco, un universo che si allargava e scendeva come catrame ad avvolgerla. Mentre le ore passavano; mentre i riflessi diventavano bianchi, poi gialli, rossi e neri e argento. La luce. Non esisteva nemmeno il pensiero della luce. C’era solo quel soffitto, in ogni istante, in ogni millesimo di respiro. Il soffitto e i suoi colori; inquietanti. Era stato inquietante. Perché c’era stato un passaggio, ne era cosciente. Prima era il silenzio; dopo il soffitto.

Ma non sapeva cosa fosse più confortante. Il corpo restava un ricordo lontano; e gli occhi, sempre che fossero concreti e reali, restavano fissi lì, in alto. Sarebbe bastato così poco; inclinare appena lo sguardo, oppure muovere la testa o qualsiasi cosa avesse al suo posto. Abbassare gli occhi. Ecco: la trave smussata e grezza si incunea sotto alla volta; c’è il muro lì in fondo. Un muro di paglia e fango essiccato; o forse è legno. Legno lucido come acqua, dalle nervature scure e oblunghe, con qualche nodo che ti guarda. Come un occhio. Un occhio grande e rugoso in una faccia senza contorni.

 

Sarebbe bastato così poco. Seguire il profilo irregolare della trave e scendere. Il muro; o forse una porta. Una porta nel muro. E fuori. Fuori. Scoprire dov’era; scoprire che il refolo che sente – o crede di sentire – è uno sbuffo d’aria; vedere il cielo; vedere la luce.

Sarebbe bastato così poco.

Ma la testa, gli occhi, restavano lì, a quel soffitto. Non voleva, non poteva muoverli. Aveva paura. Paura di girarsi e scoprire il nero, e il silenzio. Paura di muovere gli occhi e non vedere; o vedere troppo. Mani, bocche, gambe, seni. Paura di risentire quell’invasione, quella violenza scivolarle lungo quello che, forse, era il suo corpo. Paura di scoprire le pareti molli e umide di uno stomaco, anche se, ragionando, si dava della stupida. Se sei in uno stomaco sei morto; e un morto non vede. O forse sì? No. Meglio non pensarci; meglio restare alle venature della trave.

C’è una ragnatela, sulla trave. Un filo sottile e lucente. Non lo vedi sempre; ogni tanto, quando quella luce lo colpisce, manda come un barbaglio, e nella polvere sottile d’oro sembra una stella. Una stella bianca in un cielo giallo. Le faceva paura, quella ragnatela. Stava lassù, in alto, e sembrava ridere e ridere ad ogni luccichio. Sembrava sapesse tutto, e la guardasse e la compatisse e ci godesse nel vederla lì, dovunque fosse, dibattersi e annaspare senza nemmeno sapere più per cosa; per andare dove.

 

Il soffitto di legno era stata la normalità. Per tanto e tanto tempo.

Poi, con lentezza, il soffitto era diventato un tetto; e i colori avevano iniziato a rompersi. E il silenzio; nel silenzio c’era stato rumore. Lontano e confuso, ma rumore. Diverso dai rimbombi della sua mente, dagli echi dei suoi ricordi. Quei suoni non li poteva controllare; non dipendevano da lei. Se ne era accorta una mattina, aprendo gli occhi. O lasciando riemergere la trave dal buio. Si era accorta che era stanca. Pesante, e che qualcosa, in modo confuso ma continuo, le sussurrava di muoversi. Anche solo di poco, ma muoversi. E c’era quel formicolio e quella sensazione di gonfio, di grande e fastidioso e. E. Gonfio. Come quando immergi un panno in un secchio e lo chiudi: c’è aria e la stoffa si tende e tira e sotto vedi le sacche che galleggiano e premi e premi e ti accorgi che lì, l’aria e l’acqua, sono gonfie. E lei si sentiva come una bolla: gonfia. E stanca; e pesante.

Assieme al soffitto e alle luci, il gonfiore era diventato una compagnia. Non era stato più nemmeno fastidio, quasi piuttosto sicurezza. Se si sentiva gonfia, forse voleva dire qualcosa. Il corpo può essere gonfio, giusto? Il corpo. I corpi si gonfiano. Si gonfiano quando…quando. No. No. Non così; non doveva ragionare così. Da capo; ricomincia: trave. Ecco: la trave. La vede; o comunque vede qualcosa. Brava, prosegui. Vai avanti. Trave e dopo? Trave e poi…Poi il muro. Certo. Il muro. A destra e a sinistra. Un muro o un soffitto. E poi il gonfiore. C’era anche il gonfiore; e non è una sensazione mentale. Ne è sicura. È concreto. È vero.

Deve solo avere pazienza, ecco. Deve ricordarsi di cosa sia la pazienza. E il gonfiore se ne andrà; piano piano, ma se ne andrà. Certo. È naturale. E allora potrà. Potrà. Potrà qualcosa. Alzarsi? Forse. Guardare? Certo: guardare. E il muro scenderà e laggiù ci sarà una porta e fuori dalla porta. Fuori dalla porta. Cosa vorrebbe ci fosse, fuori dalla porta?

 

Leone.

Sì; vorrebbe ci fosse Leone. E la casa dei nonni, fra le montagne. Vorrebbe avere la febbre, la febbre alta. E fissare la finestra; la finestra della sua camera, quella che affaccia sul gruppo del Brenta. E aspettare. Perché il nonno ha chiamato Leone, e Leone arriverà presto. Leone è sempre venuto quando si ammalava. O le telefonava. Il cellulare squillava e squillava e quando lei diceva Pronto? Leone rispondeva: sarò lì presto.

Leone è sempre venuto, quando era ammalata. E le portava un regalo. Perché Milano è bella e lontana e piena di cose strane. Leone le portava sempre un regalo. Un gioco quando era piccola, una maglietta un po’ ricercata, un gioiello etnico. Poi, libri.

Leone.

Vorrebbe che ci fosse Leone, da qualche parte, fuori dalla porta. O sulla porta. Che ride e ride e le dice che è la solita, che sa combinare solo guai. Perché non è un guaio, forse, ammalarsi in estate, quando non c’è scuola e il caldo è fastidioso e lui ha prenotato per due settimane di mare e adesso deve disdire tutto e lavorare anche in vacanza? Leone avrebbe riso, ne era certa. Avrebbe riso e le avrebbe detto che, in fondo, era lo stesso. Che il mare non se ne va da nessuna parte e con un ombrello aperto e qualche asciugamano il mare potevano vederlo lo stesso.

Aveva…Sì, nove anni. Nove anni la prima volta che Leone era piombato in camera sua e aveva appeso al soffitto un lenzuolo blu con tanti pesci di carta e una grande lampada ricoperta di carta velina e due asciugamani e un boccaglio e…E il proiettore. Le aveva detto: ti insegno a fare le immersioni. E erano rimasti nella stanza semibuia, nel caldo, a fissare i riflessi strani di una lampadina contro la carta velina. Le era sembrato bello; bello e incredibile. E si era convinta che suo fratello fosse un mago: perché le aveva portato il mare e i delfini e i granchi in camera.

Aveva diciannove anni Leone, quella volta. E avrebbe potuto andarsene al mare da solo, con qualche amico o con la sua ragazza. E invece era rimasto con lei, era rimasto per lei.

Leone non viveva più con lei e i nonni da qualche anno, ma non se ne era mai accorta veramente. Perché quando serviva Leone veniva. E stava con lei.

Venivano anche mamma e papà, ed era contenta. Ma lei voleva Leone.

E lo avrebbe voluto ancora: fermo sulla porta, un bicchiere di aranciata e un libro. Si sarebbe seduto sul letto; e avrebbero riso e giocato e scherzato.

Avrebbe voluto Leone.

E non un soffitto con una ragnatela grande e cattiva e un corpo che non è nemmeno un corpo ma una cosa gonfia che tira e sembra pronta a esplodere. E fa male. Fa molto male. Soprattutto alla spalla e al petto. Mentre respira, quando la bocca si apre e l’aria scende. È come se raschiasse qualcosa; come se la gola non ce la facesse più. E c’era un sapore indefinito, un sapore fastidioso. Miele e qualcos’altro; qualcosa di amaro.

 

C’era voluto tempo.

Prima che le luci non fossero solo luci; prima che il soffitto diventasse un soffitto vero, e la trave diventasse una trave vera, di quelle che reggono qualcosa, un qualcosa che non sia solo una speranza di normalità. C’era voluto tempo, prima di trovare il coraggio di muoverla, la testa, e farla scivolare di lato, i capelli a offuscare gli occhi, e ritrovarsi a fissare un rettangolo male illuminato nel riverbero serale del sole e di un fuoco che sonnecchiava. C’era voluto tempo, prima che i frammenti si ricompattassero e da sprezzi ed emozioni e sensazioni riemergesse la percezione nel corpo. Lentamente. Prima la punta delle dita; i polpastrelli sorpresi di avvertire qualcosa di morbido oppure di liscio. Prima i polpastrelli; poi il gonfiore e la sensatezza si erano dilatati in gambe e mani e piedi e fianchi e collo e torace. Lentamente, le sensazioni si sommavano, e accanto all’abitudine emergeva il nuovo, il meglio definito. Aveva realizzato di essere sdraiata, sdraiata supina. In un futon probabilmente; un futon su un tatami. C’era odore di cenere e di pruno bianco. Era rilassante, come una nenia sussurrata.

La cenere, il pruno bianco e riflessi opalescenti.

 

C’era voluto tempo.

Prima che i riflessi non fossero solo riflessi. E Alessandra si era ritrovata a fissare un viso semitrasparente dai contorni sfumati. Un viso da donna, con un accenno più scuro di cavità oculari e i tratti che si delineavano senza volontà di definirsi nettamente.

Era rimasta a guardarla.

La guardava mentre si avvicinava, impalpabile ed eterea. Sapeva di pruno bianco e di acqua. Sapeva di tranquillità, ed era bella. Troppo bella. E Alessandra desiderò di trovare la forza di allontanarsi; desiderò poter controllare il suo corpo e scappare. Perché quella creatura era troppo bella, e faceva paura. Tanta paura.

Tremò mentre le sedeva accanto; tremò mentre quelle mani impalpabili e fatte come di luce le percorrevano i contorni del kimono e scivolavano sulla seta. Tremò; e anche se quel contatto era leggero, simile ad un soffio di vento, sentì altre mani afferrarla e stringerla e strappare e toccare e costringere e, e, e. E.

Alessandra chiuse gli occhi e tentò di ricacciare in gola il nodo e la saliva che se ne stavano lì, in fondo alla bocca, incastrati e fermi, in un gorgoglio fastidioso ad ogni respiro. Mentre le mani restavano lì, sul suo corpo. Sul suo corpo inerme.

Sul suo corpo inerme che veniva svestito senza chiederle permessi o altro. La seta che scivola sulla pelle e la sensazione di pensante e umido dell’aria calda; le mani che sfiorano e ascoltano e tastano e controllano.

E non c’era più una sola donna. C’era tante donne.

Tutte uguali. Tutte madreperlacee e senza volto, o con un volto che non riusciva a definire. E la toccavano. La toccavano e la spogliavano e la sollevavano.

 

Era stato un momento: un violento capogiro e lo spazio di scorgere una fusuma alle sue spalle e luce. Tanta luce. E poi un cuscino sotto la testa e negli occhi tutte le lacrime che avrebbe voluto piangere mentre era in quel silenzio assordante. Il cuscino e le mani fredde (erano davvero fredde?) a toccarla e la porta laggiù, lontana, con il suo intreccio di bambù immobile nel frinire assordante delle cicale. Era stato un momento, dilatatosi all’infinito. E assieme alle percezioni confuse, violento, era riemerso qualcosa di brutto, qualcosa che le aveva stretto la bocca dello stomaco e premuto e contratto fino a darle, inaspettata, la forza di sollevarsi a sedere annaspando e respirando a pieni polmoni, una mano sulla bocca e una stretta artigliata allo stomaco.

Era stato un momento; un ricordo indefinito che le aveva invaso la testa e i respiri profondi e la calma che si era imposta erano svaniti in un conato di vomito violento e prolungato. Un momento, e si era ritrovata con la bocca impastata e amara, e quel brivido che ti scivola nelle ossa, mentre senti la stomaco ribellarsi ancora e ancora e stringi gli occhi con la gola che si chiude e di dilata con un ritmo che non sopporti e non puoi controllare.

Non ricordava quanto.

Non ricordava quante volte mani estranee avessero dovuto sostenerla, tergerle sudore e saliva e riaccompagnarla mentre il suo corpo debilitato scivolava in basso. Velocemente; molto velocemente.

Non ricordava; ma sapeva. Sapeva che era successo. Due volte; tante volte. E sapeva che non c’era mai stata una parola. Un commento, un rimprovero, un incoraggiamento. C’erano solo mani; in ogni momento. In ogni dannato momento.

Anche negli incubi. E avevano occhi, quelle mani. E bocche e denti e lingue. La afferravano, la stringevano, la mordevano, la leccavano. Sul viso, sul petto, sul seno e giù, ancora più giù. Avrebbe voluto urlare; forse, di notte, urlava davvero. Ma quando riapriva gli occhi il soffitto era il soffitto e quelle donne eteree erano sempre lì, accanto a lei. Silenziose e inquietanti.

 

Una volta aveva avuto l’impulso di afferrarle.

Aveva teso spasmodica la mano verso un braccio, verso una luminescenza semitrasparente. Aveva paura, quella volta. Molta paura. Perché gli incubi erano sempre più chiari e definiti; perché nel sonno i ricordi e la realtà si sommavano alle paure e ai pensieri. Perché, per quanto ignorasse il tempo trascorso, lo avvertiva lento nel ritmo costante della natura. Non le era rimasta altro che la natura, in quel mondo diverso e sconosciuto. E nelle lunghe notti trascorse insonni nella sua stanza, a palazzo, quando nemmeno gli infusi e i decotti bastavano a cancellare gli orrori di corpi smembrati e l’odore di carne bruciata e sanguinante che si sentiva addosso, fin dentro le ossa; in quelle lunghe notti consumate da sola, alla luce tremula di una candela per non tremare, o convincersi a non farlo, delle ombre strane disegnate sulle nervature della carta di riso; in quelle ore, aveva iniziato ad ascoltare.

Il palazzo prima.

Con rumori così simili il giorno e la notte, come non esistesse soluzione di continuità. Come se un sussurro o una nenia continua serpeggiassero nei corridoi in ogni istante. Non era fastidio; e non era sicurezza. Quasi una presenza necessaria e ineluttabile, un velo impalpabile tessuto fra legni e lacche per tenerli uniti e impedire che qualcosa, qualcosa di non definito, di fumoso, andasse in pezzi.

Prima aveva ascoltato il palazzo.

E poi il fuori. I ringhi e i richiami di demoni diversi, riunitisi lì, in quel palazzo. Forse per paura; forse per fedeltà. Tanti demoni. Con aspetto diverso e voci diverse; mille voci. E a volte aveva sentito solo rumore e nessuna parola. A volte, nel padiglione dell’ospedale, nella cacofonia che rimbombava e ti penetrava nelle orecchie fino a stordirti; a volte, le era sembrato che non ci fossero rumori, ma rombi di temporali, eco del vento, il rimbombo di una grotta, il tintinnio delle foglie. Rumori; suoni. E natura. Non ci aveva mai pensato seriamente, ma anche durante le battaglie e gli scontri gli echi che si allargavano sul palazzo non erano suoni precisi. Sembrava piuttosto l’infuriare del vento su un mare in tempesta; o lo stormire frenetico e secco dei rami in mezzo ad un fortunale.

O forse era una stupidaggine che la sua testa aveva inventato per sopportare ogni cosa; una valvola di sfogo che le permettesse di ascoltare e al tempo stesso non sentire. Come con i ricordi. Come con i ricordi e le sensazioni di quel giorno. E allora la nausea rimontava e quelle donne eteree la dovevano sorreggere e stringere e premerle a forza in gola qualcosa di caldo e amaro. Premerle la scodella sulla bocca e tapparle il naso. E lei poteva solo inghiottire. Aveva potuto solo inghiottire; anche quella volta. E le mani erano rudi; e il corpo era nudo; e la gola bruciava e faceva male mentre le urla scendevano giù, con quello che le avevano fatto bere a forza.

Adesso le mani erano gentili; adesso la costrizione era attenta. Ma non era cambiato nulla. E quando perdeva il controllo; quando quelle mani tornavano, luride e lussuriose, a toccarla, nei sogni o negli incubi ad occhi aperti; quando si risentiva forzare e le sembrava di vederli ancora, chiari, violacei, i lividi che quelle mani, quegli artigli, le avevano lasciato sul corpo. Quando riusciva a trovare la forza e lo sfogo non si concentrava sullo stomaco che si annoda e si ribella, allora quelle donne riapparivano. Ed erano tante.

E le prendevano le mani che graffiavano e cercavano di togliere pelle e sensazioni sgradevoli che forse non se ne sarebbero mai andate. Le prendevano le mani e cercavano di fermarne i tremiti convulsi e le urla isteriche.

Era pietosa. Lo sapeva. Pietosa e isterica. E non le interessava.

Alessandra sapeva solo che se non avesse fatto qualcosa, anche solo qualcosa di insensato e umiliante, sarebbe impazzita. E sapeva che la pelle non la si può cambiare; sapeva che con il tempo i lividi si erano riassorbiti e i vestiti erano altri vestiti e quelle donne l’avevano lavata e lavata mille volte. Ma non importava.

E c’era male e c’era un sollievo insensato e doloroso mentre cercava di premere le unghie nella carne e graffiare e farsi sanguinare. Mentre cancellava sotto ad accanimento e rabbia lividi che solo lei vedeva; mentre scacciava mani e lingue e artigli che non c’erano più ed erano sempre lì. Nella sua testa; sul suo corpo.

 

C’era voluto tempo.

Prima che riuscisse di nuovo a fissare una parte del suo corpo senza che i conati di vomito o un brivido isterico l’attraversassero. C’era voluto tempo. E pazienza.

Sua; e di quelle figure evanescenti.

Non le avevano rivolto la parola per molto tempo. O forse, in realtà, era poco. Il tempo. Era diventato così insignificante; un avvicendarsi di momenti che volevano solo dire: presente e passato. E quello che era successo Alessandra voleva, doveva, diventare passato.

C’era voluto tempo. Prima che riuscisse di nuovo a emergere da un bozzolo in cui esisteva solo lei e il suo corpo umiliato. Tempo prima che la testa si muovesse con cautela e vedesse davvero la stanza dove si trovava. Diversa dalla sua stanza a palazzo; diversa dal palazzo. Il rumore era diverso. Un silenzio sussurrato e tranquillo che all’inizio le aveva fatto paura. Si era abituata al mormorio continuo e alla tensione sottile che la attraversava in ogni istante, in ogni gesto. Si era abituata a sentirsi addosso occhi e disgusto; a stringere e ingoiare parole e reazioni che, lo sapeva, sarebbero state solo controproducenti. Si era abituata a mentire; a tutti e soprattutto a se stessa. E se l’indifferenza e la maschera di freddezza che aveva indossato alla morte dei suoi genitori era stata un’accusa, una muta inquietante lunga accusa, solo in quel futon, nuda e senza più difese, stanca; solo in quel futon si era accorta della nuova maschera, così simili a quella vecchia e così maledettamente diversa. E la aveva indossata per. Per cosa? Per farsi accettare? Lo voleva davvero, essere accettata da quei demoni? Era davvero…importante?

 

Importante.

Importante per cosa? Per chi? Importante. Cos’era davvero importante? Per lei. Importante. Leone era importante; e lo aveva perso. E aveva perso tante altre cose; per sua scelta, per sua decisione. Ma le aveva perse. Ed erano importanti.

Cos’era importante? La stanza dove si trovava? No. Quella non era importante. Quella era solo una stanza che sussurra e respira. Come quella a palazzo; come mille altre stanze. Ma era così rassicurante. Con il tempo, era diventata conforto e protezione: aprire gli occhi e poter riconoscere la piccola crepa nell’intonaco, la nervatura che sembra una bocca sulla trave a destra, mezza nascosta dalle ombre. Non arriva mai il sole, lassù in alto, a destra; solo alla sera. Solo la sera, quando il sole entra obliquo dalla shoji alle sue spalle; solo la sera quella bocca di legno si allarga in un sorriso da bambino. E sembra dirti: ricordati di ridere. Ricordati che le cose possono andare bene.

 

Bambini.

C’erano anche bambini in quella noka. Li aveva intravisti una mattina, nella luce incerta del crepuscolo, mentre facevano capolino fra le canne di bambù. Li aveva osservati, senza pronunciare una parola o fare un gesto. Solo osservati. Li aveva visti una mattina; e poi erano spariti. Ed era comparso quel suono, come di nacchere d’osso o di pietra. C’era stato quel rumore ritmico e indefinito per giorni, e voci confuse e sottili. E i bambini.

Erano riapparsi un pomeriggio di pioggia, filtrando attraverso le pareti come piccoli fantasmi. Ma non erano fantasmi, di questo Alessandra era stata certa quando un bambino le aveva teso le braccia e si era ritratto ridendo quando aveva allungato la mano. L’avevano toccata e si era lasciata toccare. E quando arrivavano c’era profumo di resina.

Non erano fantasmi; e non erano pericolosi. Le donne che l’accudivano li ignoravano e li lasciavano avvicinare. No, non erano pericolosi. Erano solo bambini strani, di tre o quattro anni, con la pelle scura o verde e abiti di foglie e corteccia. Ma era bello vederli scrutare attenti il suo viso; era bello tendere la mani e osservarli mentre la esploravano.

Non parlavano. Non parlavano mai con lei. Ma ridevano e di domande ne facevano; suoni che sembravano lo stormio delle fronde. Le vedeva, le bocce piccole e sottili, aprirsi e chiudersi e modulare parole che non avevano suono. E lei scuoteva la testa e rispondeva no, non ho capito. E i bambini ridevano e battevano le mani e sembrava che avesse detto loro la cosa più gentile che potesse.

A volte c’erano solo i bambini; a volte c’erano delle piccole ombre indefinite. Un sasso grigio perlaceo con piccole cavità immobili che la fissavano scuotendo ritmicamente la testa. Erano loro le nacchere d’osso; erano loro il suono continuo che percepiva al tramonto. Ne aveva preso in mano uno, una volta; così piccolo da poter essere chiuso nel palmo e sembrava di stringere fumo e nebbia.

Kodama. Si chiamavano kodama: gli spiriti degli alberi.

Già. Kodama. E Kinoko.

E poi c’era lui.

 

Lui.

Dieci o forse mille anni. La leggerezza di un sorriso un po’ impertinente e la serietà di un’età non dimostrata. Era diverso; molto diverso. L’aveva studiata a lungo, le aveva detto. Da lontano. Studiata per curiosità e noia. E l’aveva interessata. Adesso, voleva sapere se le sarebbe piaciuta.

Era strano: un bambino in eleganti abiti di seta e raso, i capelli corti e l’odore dell’acqua. Già: l’acqua. Che sciocchezza! Alessandra se lo era ripetuta mille volte: l’acqua non ha odore; è solo acqua. Ma ogni volta che Ryoshi si sedeva accanto a lei; ogni volta che la sua mano la toccava, le sembrava di immergersi in un lago, di venire avvolta dall’acqua e galleggiare. Quando la toccava, avvertiva l’istinto di ripassare la mano sulla parte sfiorata, con la convinzione che l’avrebbe ritirata bagnata. Ryoshi sembrava acqua; acqua concentrata. E forse acqua lo era davvero, perché la pioggia gli scivolava addosso e non lo bagnava; perché disegnava nella scodella piccoli segni e pesci e cavalli e uccelli iniziavano a prendere forma e si muovevano per la stanza, in una piccola scia di goccioline rinfrescanti.

 

Era bello con Ryoshi.

Le aveva insegnato a riconoscere kinoko e kodama; le aveva insegnato cosa fossero kinoko e kodama. Parlava molto, Ryoshi; come un bambino costretto per molto, molto tempo, al rigore del silenzio. Parlava molto, ma era sempre attento; e se la vedeva stanca o persa nei suoi pensieri restava in silenzio.

Le aveva detto che si trovava al sicuro, in una noka. Le aveva detto di non pensare a nulla; le donne si sarebbero prese cura di lei per tutto il tempo necessario, e anche dopo se lo avesse voluto. Era al sicuro; non c’era nulla di cui preoccuparsi.

 

Al sicuro.

Alessandra lo aveva toccato per la prima volta dopo giorni. Quando finalmente era gattonato fino a lei e i riflessi che il sole strappava dalla sua figura erano spariti. Ryoshi era corpo e sostanza, ma contro il sole sembrava un cristallo. La luce si rifrangeva creando mille piccole ombre e linee azzurrine; o in giorni particolari o al tramonto, si spezzava in infiniti arcobaleni.

Ryoshi si era avvicinato e aveva lasciato che gli accarezzasse la testa, i corti capelli neri sempre un po’ umidi e lucenti. Era rimasto in silenzio a lungo, quella volta, Ryoshi. Mentre Alessandra piangeva per l’ennesimo incubo; mentre Alessandra piangeva e si mordeva a sangue un labbro nella paura, folle, grande, che di nuovo la sua bocca avrebbe urlato, che di nuovo quelle donne sarebbero accorse per fermarla e tenerla ferma. C’era solo Ryoshi, quel giorno. Gli altri, i kinoko e i kodama li aveva fatti scappare, con le sue grida che si strozzavano in un singhiozzo. C’era solo Ryoshi, e una benda sul suo polso, lì dove aveva morso forte per sentire male e sentire la pelle tremare e il sapore del sangue in bocca e trovare la forza, di nuovo, di vomitare. Per il disgusto che provava; per il sapore che le riempiva la bocca all’improvviso, senza un motivo. Lo riconosceva sempre, quel sapore: il gusto amaro di quell’intruglio che le avevano fatto bere.

Perché.

Perché. Già. Perché. Ricordava anche quello, adesso. Perché abortisse. Perché non ci fosse il pericolo che un bambino crescesse nel suo grembo. Perché lei era una ningen, e non aveva valore. Perché un hanyou sarebbe stato solo un disonore.

Perché sarebbe stato figlio suo.

 

“Devi smetterla di pensarci”

 

Ryoshi.

Ryoshi sapeva; in qualche modo, sapeva. Forse glielo leggeva nella mente; forse glielo avevano raccontato le donne. Forse. O forse non sapeva nulla; forse sapeva solo che stava male e qualunque cosa fosse la soluzione migliore era dimenticare. Accettare e cancellare. E andare avanti. Forse. Ma in fondo non le importava se Ryoshi sapesse o ignorasse. Perché era lì; e le bastava. Era lì e rideva, la bocca piena del riso degli onigiri e le gambe sempre in movimento, a scalciare in aria, quando si era sollevata a sedere da sola la prima volta. Era lì, mentre ricacciava le vertigini e la nausea e con lentezza ritrovava la forza per alzarsi in piedi e provare di nuovo a camminare, sorretta da quelle donne. Era stato come ricominciare; come se avesse dimenticato tutto e anche il semplice susseguirsi dei passi fosse una cosa da scoprire, da riapprendere. Non era stato facile; proprio no. Era caduta; aveva sentito le gambe tremare e abbandonarla. Aveva sentito la debolezza invaderla e la nausea assalirla. Era stato faticoso, e lungo. Ma quando, per la prima volta, era riuscita dal futon a raggiungere la cucina in muratura; quando si era voltata, la fronte madida di sudore, il respiro corto per l’eccitazione e lo sforzo, scarmigliata e bella nella sua piccola semplice conquista; quando si era girata, Ryoshi era lì, e la fissava con la bocca a metà fra un sorriso e un grido di gioia. La fissava e le braccia e il corpo fremevano come reprimesse l’istinto di correre da lei e abbracciarla. La fissava e poi, alla gioia del bambino, si era sostituito l’orgoglio di un adulto; e la testa aveva concesso un cenno più eloquente di molti discordi e parole.

 

Quella sera, mentre la pioggia cadeva ritmica, mentre Alessandra respirava e sorrideva, Ryoshi era andato a trovarla, e aveva l’aspetto di un ragazzo. Le si era seduto distante, composto e imbarazzato; e forse un po’ intimorito. Alessandra-sama era stata violentata, almeno psicologicamente. Alessandra-sama era abituata a vedere attorno a sé donne etere e youkai bambini; ed era abituata ad un altro aspetto della sua persona. Ma Ryoshi non amava mentire, e ad Alessandra-sama aveva deciso di dire la verità, di fargliela vedere. E le aveva raccontato.

 

Le aveva detto di essere un mizuchi, uno spirito dell’acqua. Uno youkai o forse un kami. Non sapeva nemmeno lui se esistesse davvero la differenza; se fosse importante, una differenza. E che non aveva un suo vero aspetto, ma mille forme, mutevoli e cangianti come lo è l’acqua. Perché il bambino? Se voleva ingannarla? No, non voleva ingannarla. Voleva conoscerla, glielo disse candidamente, accomodandosi contro lo stipite della shoji. Voleva conoscerla e parlare con lei. E aveva scelto la forma di un bambino. Perché kodama e kinoko sono come bambini; perché un bambino è rassicurante. Perché. Perché. In fondo, non c’era nemmeno un vero perché. Doveva scegliere una forma e l’aveva scelta con naturalezza, per istinto.

Ma di dirle bugie no, non voleva. Perché Alessandra-sama non le meritava, le bugie. Perché con Alessandra-sama era bello parlare e ridere e restare in silenzio ad ascoltare la pioggia o il sole o il canto dei kodama nel tramonto. Non le meritava le bugie, Alessandra-sama, Ryoshi ne era certo. E aveva deciso di farglielo vedere, davvero, che il suo aspetto di bambino era solo uno dei molti aspetti. Ma la sostanza. La sostanza non cambiava. Ryoshi era Ryoshi, come l’acqua è acqua che sia ghiaccio o nuvole.

 

Ryoshi è Ryoshi.

E voleva solo avere la sua compagnia; in qualunque forma lo volesse accanto. Aveva paura del ragazzo? Sarebbe tornato bambino. Non si fidava più del bambino, sarebbe diventato pesce, o anatra o ghiaccio o pioggia o nuvola. Sarebbe diventato qualsiasi cosa volesse, qualsiasi cosa la rassicurasse. E se ne sarebbe andato, se Alessandra-sama non lo volesse più vedere. Se ne sarebbe andato e basta, ma Alessandra-sama doveva promettergli che si sarebbe alzata ancora e che, la prossima volta, non si sarebbe fermata alla cucina in muratura. Doveva promettergli che la prossima volta sarebbe andata alla porta, e avrebbe sollevato la cortina di bambù. Doveva prometterli che sarebbe uscita; perché è bello, il posto dove si trova e non è solo una noka rassicurante. Perché i kodama e i kinoko gli avevano confidato che avrebbero voluto farle vedere il bosco; perché l’acqua è tiepida e c’è sole e non è giusto restarsene sempre chiusi nella noka.

 

Ryoshi aveva un tono di voce tranquillo e adulto, con un timbro un po’ più profondo della voce di quando era bambino. Una voce non ancora formata, ma che già lascia percepire la seduzione di cui sarà capace. Le aveva parlato a distanza, ma era come se fili d’acqua avessero serpeggiato attorno a loro per tutto il tempo, a costruire una cortina che, adesso, Alessandra poteva semplicemente infrangere e avrebbe visto sparire in uno scroscio di perle. Qualunque cosa decidesse, Ryoshi le aveva detto: non smetterò di guardarti.

E Alessandra aveva detto sì. Alessandra aveva detto sì, che restasse. E ritornasse il bambino che l’aveva salutata a testa in giù la prima volta. Un giorno, forse. Un giorno forse avrebbe detto: fammi vedere il ragazzo. Ma non ancora; non era ancora pronta per il ragazzo. Il bambino andava bene; e non avrebbe dovuto smettere di parlare. E avevano parlato tanto, quella notte. Sussurrando.

Avevano parlato tanto, quella notte. Finchè una delle donne che la accudivano non aveva detto a Ryoshi: vai. Continuerete domani.

 

“Vi state rimettendo. Ne sarà informato”

 

E nella piega delle labbra Alessandra aveva avvertito sgomento e dubbio; negli occhi che si abbandonavano al sonno, la donna aveva scorto un guizzo di paura, di sorpresa. Nel non riuscire ad afferrare il significato delle parole; nel naufragare alla ricerca di un senso preciso che sfuggiva. Informare. Informare chi? Ryoshi se ne era appena andato; e Leone non c’era più. Chi? Chi andava informato? Aveva sentito le labbra muoversi, ma non ricordava di aver pronunciato suono. O forse la sua testa ronzava troppo per distinguere un suono. Ma chi? Chi? Chi doveva sapere che stava meglio? Chi?

Forse lo aveva chiesto davvero; forse la yasha lo aveva letto sulle sue labbra mute o solo intuito dal suo disorientamento. E inclinando la testa di lato le aveva risposto, con un nome che Alessandra, con paura, si accorse di non aver mai pensato.

 

Sesshomaru-sama

 

 

 

*****

 

 

 

Sesshomaru.

Era strano; molto strano. Ma non ci aveva pensato. Mai. Da quando. Da quando. Forse semplicemente da quando aveva perso conoscenza dopo quel giorno. O lo aveva chiamato, pensato, invocato? Non lo ricordava.

Sesshomaru.

Il suo nome. Perché adesso le suonava così…distante. Era davvero distante? Da quando? Quando si era creata, quella distanza? O c’era sempre stata e lei, ingenua e sciocca, non l’aveva mai voluta vedere?

Sesshomaru.

Sesshomaru non c’era. E quella era la sola sicurezza che aveva. Non c’era quando stava male, nel delirio della febbre che la consumava; non c’era mentre quei demoni, i demoni del suo palazzo, della sua corte, contravvenivano agli ordini, ai suoi ordini, e la violavano. Non c’era quando il respiro diventava rantolo e la gola faceva male per le urla e il pianto; non c’era durante i giorni passati nell’incoscienza, a macerare sensazioni e paure. Non c’era quando aveva riaperto gli occhi e la prima cosa che aveva visto era stato un soffitto sconosciuto. Non c’era per calmarla, non c’era quando si era sollevata a sedere e, dopo mesi, era riuscita a mangiare di nuovo qualcosa di solido; da sola. Non era suo il braccio che l’aveva sostenuta mentre provava i primi passi: c’erano altre mani, effimere e distanti, che si tendevano dal doma. C’erano altre parole, un’altra voce che la incoraggiava e la spronava. E c’era stato un altro sorriso e un altro lampo d’orgoglio quando si era alzata in piedi e da sola era riuscita a raggiungere la porta, un passo incerto accanto all’altro. Per dire: ancora. Posso farcela ancora. Sto migliorando.

 

Sesshomaru.

Sesshomaru non c’era. E di lui, del suo viso, l’ultimo ricordo che aveva e andava sfumando in contorni cristallizzati ed eterei, era di un viso schizzato di sangue, sporco di polvere e sudore, in mezzo ad un campo di battaglia. La sua voce che diventava sempre più lontana e le sue mani che scomparivano. E poi. Ah sì! Il sapore del suo sangue. Lo aveva morso; gli aveva morso una spalla. O forse era stato il collo o il polso o. Non ricordava. Ma lo aveva morso, sì. Mentre. Mentre Inuyasha faceva forza contro la sua schiena e cercava di estrarle la naginata. Già: la naginata.

Il dolore e il respiro che sparisce d’un tratto dai polmoni. Le era rimasto solo quello: frammenti confusi di sensazioni. Troppo confusi per riarticolarli e dar loro una consequenzialità logica. Però la naginata era stato il prima, l’inizio. E poi c’era stata la terra, il corpo che non risponde e. E bianco. O forse era nero o rosso o. Non importa; non importa. Non ha senso pensarci. Non serve; a niente.

Il palazzo, dopo. Sì; il palazzo. Sesshomaru l’aveva riportata a palazzo. E l’aveva lasciata a palazzo.

Per giorni, settimane. Forse anche mesi. Non lo sapeva. Non aveva ancora avuto il coraggio di chiedere quanto tempo fosse realmente trascorso; quanto lunga fosse stata la sua incoscienza e poi la convalescenza.

 

Il palazzo.

E poi, ne era sicura, si era svegliata. Ed era a palazzo. E aveva visto gli altri: Inuyasha, Miroku, Koga. E Yaone e Homoe e Rin e Ayame. Sì: li aveva visti. E li aveva ignorati. Ma era stato dopo; dopo che il suo corpo era stato spogliato e toccato e violato. Dopo che mani e artigli avevano stretto i suoi seni e il suo ventre fino a farle male, fino a farla piangere e singhiozzare, confondendo parole e colpi di tosse con la frustrazione della debolezza. Era stato dopo; quando non sopportava che qualcuno la guardasse, che qualcuno la toccasse. E poi.

Poi.

Sesshomaru.

Sì: Sesshomaru. Come sul campo di battaglia: il viso schizzato di sangue e l’odore ferino della battaglia. Era stato davvero lui a prenderla in braccio? Era stato davvero suo il petto contro cui aveva reclinato la testa e si era lasciata andare? Ricordava voci; voci confuse e lontane e come una carezza un po’ rude e un po’ imbarazzata. Ricordava. Erano davvero ricordi? O forse erano illusioni. Stupide sicurezze che si era costruita per ignorare, di nuovo, qualcosa che non sopportava, che non voleva vedere. Forse lo erano davvero, delle illusioni. Forse la noka era solo un’altra stanza del palazzo; forse il silenzio che avvertiva era il silenzio dopo che accampamento e assedio erano stati tolti. Il silenzio del palazzo.

 

Non lo conosceva, si accorse. Conosceva il palazzo pieno di demoni; conosceva il serpeggiare continuo della tensione nelle membra in ogni istante, la perfezione di gesti ricercati e ripetuti all’infinito con la naturalezza dell’azione immediata. Conosceva il palazzo durante la guerra; ma non lo aveva mai visto in tempo di pace.

Pace. La pace.

Esiste la pace, per un demone? Esiste lo scorrere pigro dei giorni in piccoli sciocchi quotidiani rituali? O forse uno youkai ha altri rituali, altre quotidianità. E quella che ai suoi occhi è guerra per loro è normalità; e quella che ai suoi occhi è pace è morte.

Forse. Forse Sesshomaru l’aveva davvero portata via. Via dal palazzo; via dalla violenza. Via da tutto. Glielo aveva detto, alcune volte, prima che andasse. Glielo aveva detto anche quella notte, quella trascorsa nella stanza di sua madre: andare via. Di nuovo. Di nuovo lontani dal palazzo. Di nuovo lontani da maschere e cerimoniali. Andare via; senza pensarci. Andarsene e basta.

Sesshomaru glielo aveva promesso: ritornerò. Glielo aveva detto; e poi la voce si era affievolita ancora, meno del sussurro che le aveva concesso. E gli occhi, ancora ciechi, ancora opachi, erano scivolati oltre il rettangolo della finestra ed erano rimasti lì, senza parlare, senza definire cosa potesse significare, quel dopo nel ritorno.

 

Sesshomaru era tornato, certo.

Con lei fra le braccia; e se ne era andato di nuovo. Con lei. E adesso? Adesso dov’era? Forse di nuovo a palazzo? O forse, alla fine, aveva realizzato che quel qualcosa che era nato fra loro non valeva tutta la tensione e i rischi e l’aveva semplicemente lasciata andare. In fondo, non c’era nulla che le potesse dare la certezza che il ritorno dello youkai significasse davvero un qualcosa. Semplicemente, poteva significare una parola: fine.

Fine di tutto; fine di quel poco che si era creato piano piano; fine di quel precario equilibrio raggiunto con sforzo e sacrifici. E maschere reindossate.

Maschere, già. Perché aveva reindossato una maschera, a palazzo? Per proteggersi? O forse. Forse lo aveva fatto per lui, perché il dubbio dell’errore non lo sfiorasse. Alessandra sospirò, rigirando il tè. No: la maschera l’aveva indossata perché voleva, perché si sentiva protetta; e perché Sesshomaru doveva essere tranquillo e sicuro di lei. L’aveva indossata per sua scelta, per studiato calcolo. E aveva lasciato che si stratificasse sempre di più, cerone e trucco e di nuovo cerone. Senza mai toglierla per far respirare la pelle e aggiustare le piccole crepe. Troppa fatica; troppo pericolo. L’aveva indossata e l’aveva mantenuta. Correggendola senza modificarla; lasciandosela asciugare addosso ancora fresca di umiliazione e rabbia. Sì: aveva scelto lei di indossarla; e Sesshomaru non aveva fatto nulla per togliergliela.

 

Era strano.

Strano come solo dopo mesi, solo dopo tanta incoscienza, mentre riusciva a restare seduta sull’engawa e gustarsi il declinare del sole autunnale, realizzasse l’assenza. Con naturalezza. Come era diventato naturale sdraiarsi nel futon di Sesshomaru e aspettarlo; come era diventato naturale il gesto del suo collo quando si piegava per baciarla. Non si era mai accorta di piccoli gesti ripetuti sempre, e sfumati con la medesima naturalezza con cui si erano creati. Adesso naturale era svegliarsi da sola; adesso la quotidianità era la notte spiata dalle shoji socchiuse e le parole sussurrate nello stormire dei grilli. Adesso la costante era Ryoshi.

E Sesshomaru. Sesshomaru era rientrato nei suoi pensieri con l’eleganza che gli era propria. Quasi con sfacciata irriverenza. E restava lì, a ossessionarla, a costringerla ad analizzare ed analizzarsi. Sempre; sempre. Anche se la risposta era facile; dannatamente facile. Sarebbe bastato fare un cenno e subito l’avrebbe avuta, quella risposta. Le donne gliel’avrebbero data; o Ryoshi.

Ma il problema non era la risposta, Alessandra ne era consapevole. Il problema era la domanda.

 

La domanda.

Cosa chiedere? Dove fosse? Forse nemmeno loro lo sapevano. Se l’avesse abbandonata? Non glielo avrebbero mai detto, anche se lo avessero saputo. E Alessandra dubitava che qualcuno sapesse esattamente cosa Sesshomaru volesse o pensasse. Se sapessero quando tornava, ecco. Quella sarebbe stata una buona domanda; un’eccellente domanda. Ma farla. Farla era difficile. Perché ogni volta che apriva la bocca; ogni volta che prendeva un respiro e la formulava nella testa, immediata risuonava un diniego che non era certa di voler sentire davvero. Perché in fondo significava realizzare davvero che l’aveva lasciata; e che qualcosa era cambiato. Qualcosa che forse non avrebbe mai saputo, che non gli avrebbe mai sentito pronunciare. E che era così definito e facile da farla ridere; quasi.

 

Se ne era accorto.

Se ne era davvero accorto. E anche lei. A mente fredda, approfittando della pace della convalescenza, dei ritmi tranquilli che le erano stati imposti, Alessandra aveva potuto pensare. E la conclusione più lucida che aveva articolato era stata disarmante: ningen e youkai.

La differenza. Una differenza reale.

Aveva sempre pensato alla razza; aveva sempre pensato che essere ningen e youkai significasse un po’ essere europei e asiatici. Solo una differenza etnica; solo uno stupido pregiudizio che l’abitudine e il dialogo può appianare, può insegnare a equilibrare. Stupida. Era stata una stupida. E le bastava fissarsi le mani ancora pallide e smagrite per averne la prova tangibile: il suo corpo, la sua mente, la sua essenza. Tutto di lei gridava alla pazienza e alla tranquillità. Era stata colpita; era rimasta ferita e aveva passato giorni in stato d’incoscienza, divorata dalla febbre e incapace di mantenere a lungo la lucidità. Quando si era risvegliata, la mente debilitata non era stata capace di sorreggere l’ondata mnemonica ed emozionale che l’aveva invasa all’improvviso, violenta. E adesso c’era la convalescenza, lunga e difficile, un riapprendere tutto da zero, quasi fino nel ritmo del respiro.

Da quando aveva camminato la prima volta, da sola, sul dome e fino alla piccola cucina in pietra, doveva essere trascorso più di un mese. Un mese; probabilmente ormai era la metà di ottobre. E quindi facevano quattro mesi: quattro mesi da quando era stata ferita, ai primi di giugno, o forse era la fine di maggio. Presto cinque, probabilmente. E a fatica riusciva a percorrere piccoli tratti senza che il respiro divenisse affanno e il corpo tremasse. Ryoshi le aveva detto che la pazienza era necessaria; che sarebbe tornata a camminare e correre normalmente. Era stata ferita a un polmone; il sangue e l’aria si erano mescolati e il respiro era divento saliva rossa. Considerando l’epoca in cui si trovava, Alessandra realizzò con un brivido che poteva ritenersi fortunata ad essere sopravvissuta.

 

Quasi cinque mesi. Per riuscire a malapena a restare in piedi e camminare senza bisogno costante di un sostegno. Cinque mesi. Quando gli youkai che curava dopo le battaglie, nel volgere di due giorni, erano in grado di ritornare sul campo. I più gravi potevano impiegare al massimo una settimana. E avevano corpi mutilati che si riformavano; avevano volti cianotici e ustionati che ritornavano eterei e madreperlacei senza segni o intaccature. Lo sapeva: aveva visto il viso di Sesshomaru cancellare le ustioni di quell’acido o qualunque cosa Naraku gli avesse gettato addosso in pochissimo tempo; lo aveva visto abituarsi alla cecità con la facilità con cui ci si adatta ad un abito nuovo. Lo sapeva. Ma non lo aveva mai voluto considerare seriamente. Sottigliezze, si era detta. E aveva sbagliato. Adesso lo sapeva; adesso lo sapeva davvero.

Era una consapevolezza che non riusciva a spiegare. E forse non si poteva nemmeno chiamare consapevolezza. In definitiva, i tasselli li aveva sempre avuti davanti agli occhi, ma solo alla fine era riuscita a decidersi a comporre il mosaico. Perché. Perché significava realizzare davvero che, per quanto si legasse a lui, non sarebbe mai stata capace di comprendere davvero Sesshomaru. E, Alessandra lo sapeva, quella zona d’ombra che ci sarebbe sempre stata non era certa né di riuscire a definirla né di poterla accettare. Era stata la paura, in fondo, a frenarla; la paura l’aveva sempre frenata; su molte cose. Ma adesso aveva davvero senso, quel ragionamento? Sesshomaru non era con lei; e forse non ci sarebbe stato mai più. Forse, quando si fosse rimessa completamente, le yasha le avrebbero dato alcune provviste e indicato una direzione. Una a caso o già concordata con Sesshomaru. Non avrebbe avuto importanza; si sarebbe ritrovata di nuovo sola, in quel mondo diverso e, adesso ne era pienamente consapevole, pericoloso. Chissà. Forse avrebbe potuto stabilirsi lì; forse Sesshomaru voleva che si stabilisse lì. Con Ryoshi. Sì; con Ryoshi sarebbe stato possibile ritrovare un equilibrio. Ma non c’erano garanzie; non c’era nulla. Ryoshi era uno youkai o un kami; era comunque diverso da lei. E di nuovo avrebbe potuto svanire, evaporare come una goccia d’acqua.

 

Lo voleva davvero? Voleva davvero legare se stessa a qualcosa che non poteva capire e che non avrebbe mai capito? Forse sarebbe stato più semplice cercare di ritornare al villaggio di Kagome e Inuyasha; ritornare e cercare un modo per rientrare nel suo mondo, nella sua quotidianità. Nella peggiore delle ipotesi, avrebbe potuto ricrearsi una vita a Musashi. Fra ningen come lei; fra persone con cui aveva condiviso qualcosa di importante.

Sì. Era una possibilità.

Ma.

Già; c’era quel ma. Sesshomaru.

Sesshomaru e il loro rapporto indefinito. Davvero così fragile? Davvero per uno youkai i sentimenti non esistono? Davvero si era limitato a un diversivo, con lei? No. Alessandra non voleva crederlo; non accettava di crederlo. Però. Però non era lì. E anche questa era una realtà innegabile. Ma forse. Forse non era lì perché non poteva esserci. Forse la battaglia non era stata decisiva come tutti loro avevano sperato e attorno al palazzo si combatteva ancora. E Sesshomaru è necessario, sul campo di battaglia.

Informarlo, è vero. Le avevano detto che lo avrebbero informato. Forse. Forse stava solo aspettando il momento migliore per tornare. Per tornare a prenderla. O forse no.

Sospirò pesantemente.

Erano giorni che rimuginava e inseguiva teorie e ipotesi, senza risultato. In fondo, per quanto pensasse e immaginasse, l’unica soluzione per ottenere risposte sarebbe stato chiedere. Chiedere e rassegnarsi ad accettare qualsiasi cosa le fosse detta.

 

Sesshomaru.

Aveva voglia di parlargli. Aveva voglia di vederlo e. Forse voleva davvero solo vederlo. E cercare di capire se realmente qualcosa fosse cambiato, e soprattutto in che modo. Capire cosa esattamente fosse successo e perché, per cosa, tutto fosse semplicemente diventato passato, scivolato dalle dita come sabbia. Una ragione. Doveva esserci una ragione. Una sciocca stupida inutile insensata ragione. Ma sentirla. Avesse potuto sentirla: dalla sua bocca, dai suoi occhi. Forse avrebbe ribattuto; o forse avrebbe chinato la testa e accettato e basta. Forse. Non lo sapeva; non ci voleva pensare. Ma vederlo, quello sì. Scoprire con che occhi l’avrebbe guardata adesso. Scoprire se l’avrebbe ancora guardata. Senza sentire su di lei, sul suo corpo, l’odore di altri demoni, le mani e la lussuria di altri youkai.

 

Era per quello? Era stato per quello che l’aveva lasciata? Lasciata. Alessandra strinse le mani, forte. Che pensiero sciocco. Lasciarla. Sesshomaru non l’aveva lasciata. Non c’era nessun rapporto ufficiale fra di loro. Non c’era nulla di definito, fra di loro. Già: proprio una sciocca. Aveva rifiutato in ogni modo di essere una oiran e si era ritrovata a ricoprire un ruolo simile ad una yotaka. In fondo, qual era la differenza? Le notti clandestine, i baci strappati negli angoli bui dei corridoi, la rigidità compassata impostasi e i gesti spezzati. La distanza. La distanza che si era scavata fra loro giorno dopo giorno, mentre i loro corpi di avvicinavano, si toccavano, imparavano a riconoscersi. Se. Se avesse fatto l’amore con lui. Se quella notte, l’ultima trascorsa assieme, Sesshomaru non si fosse fermato, lei non gli avesse permesso di fermarsi sarebbe cambiato qualcosa?

Rise piano, quasi un singhiozzo. Stupida. Stupida ragazzina innamorata. Lo sei ancora, innamorata? O era dipendenza?

 

Cos’era?

Cos’era il rapporto che ti legava a lui? Sai descrivertelo, sai spiegartelo? No. Non sai farlo. Perché sei sempre stata più impegnata a cancellare e mascherare e ignorare piuttosto che assaporare e scoprire. Perché faceva paura, quel crampo che ti prendeva lo stomaco e scendeva caldo. Perché faceva paura stare bene; e ti sentivi in colpa, mentre youkai combattevano e morivano, alla sera sorridere nel suo abbraccio, riposare vicino al suo petto. È esistito davvero, quel rapporto? O sei stata solo tu a costruire pensieri e speranze false? Non glielo hai mai chiesto: mi ami? E non glielo hai mai detto. E adesso? Se lo avessi davanti, cosa faresti? Glielo diresti?

No; non glielo diresti. Perché non lo sai più, se lo ami. Non sai se saresti capace, di amarlo. O forse sì; forse glielo diresti perché, in fondo, sapere ed essere capaci sono due pensieri troppo razionali. E non si può dire ti amo con leggerezza. Non si può dire ti amo e basta, ma lo devi dimostrare, lo devi imparare. Passo dopo passo; errore dopo errore. No. Non glielo diresti. Non glielo diresti con le parole.

Lo guarderesti.

 

Lo guardi.

Perché Sesshomaru ti sta fissando, nel rosso del tramonto autunnale. E il tempo sembra dilatarsi, fluttuando assieme alle foglie di ginko, spezzandosi nelle ombre che si allungano placide e sornione. Ti sta guardando, e tu te ne resti seduta sull’engawa, senza forza per alzarti e senza la sicurezza che non sia solo un abbaglio della mente. Lo volevi così tanto. Guardarlo: il viso elegante, dal profilo definito, con al mandibola che va delineando sempre di più un viso maschile. È cambiato. Nella separazione, è cambiato. Come cresciuto. Alessandra lo vede; ed è come se fossero passati anni. Inghiotte a vuoto e si accorge di avere la bocca socchiusa e mille domande ferme in gola. Paura. Già; la sua solita sciocca inutile paura. Di farlo andar via, di allontanarlo. Sesshomaru le ricorda un lupo o una volpe argentata. Le ricorda la lince che ha visto una volta nei boschi, da bambina, con Leone. Aggraziata e fiera; bellissima e inquietante. L’aveva intravista quasi per scherzo, mentre sonnecchiava fra le felci e il muschio. L’aveva vista e aveva trattenuto il respiro e il grido di entusiasmo si era strozzato in gola e allargato in un sorriso muto. Leone l’aveva abbracciata e a quel movimento, per quanto minimo, Alessandra ricordava le orecchie della lince scattare attente e il corpo flessuoso scivolare nell’ombra.

Era la stessa sensazione. La stessa trepidazione e timore. Restare immobile, le labbra socchiuse e il respiro quasi dimenticato, perché non se ne andasse. Per non vedere il marrone e l’ocra della seta guizzare e la sua schiena allontanarsi.

 

Si lasciava guardare, e Alessandra riconobbe quasi con intimo sollievo la testa inclinarsi leggermente di lato. Un gesto abituale, rilassato. Aspettava. Cosa esattamente Alessandra non lo avrebbe saputo dire: forse che lo raggiungesse; forse che gli rivolgesse la parola. Forse, semplicemente, che il tempo scorresse.

Stava bene. Fiero, eretto, rilassato. Adulto, realizzò all’improvviso. Aveva ancora davanti agli occhi un ragazzo, e le sembrava di vedere un uomo. Qualcosa. Qualcosa stava cambiando, lì, sotto i suoi occhi. Qualcosa che non era sicura di voler vedere, di saper affrontare. Crescere. Cosa significa crescere, per uno youkai? Cosa comporta?

 

Strinse gli hakama. No. Non doveva pensarci; non aveva senso pensarci in quel momento. Sesshomaru era davanti a lei; e non era un’illusione. La mano. Le sarebbe bastato sollevare la mano e fare un cenno d’invito. O aprire la bocca e parlare; anche a raffica. Anche dicendo mille piccole sciocce cose che, lo sapeva, gli sarebbero scivolate addosso senza toccarlo. Qualcosa. Le sarebbe stato sufficiente anche un cenno leggero. E Sesshomaru si sarebbe avvicinato. Forse; o forse era lei a dover trovare la forza di alzarsi e raggiungerlo. Forse. Invece il corpo restava lì, abbandonato sull’engawa. La forza; trovare la forza di alzarsi in piedi e mantenere l’equilibrio; passo dopo passo, avvicinarsi. Avrebbe barcollato; forse sarebbe anche caduta. Sarebbe stata goffa; goffa e stupida nel suo ondeggiare da ubriaca; e non le sarebbe importato. In confronto a lui, sarebbe sempre stata goffa e impacciata. Ma andare. Andare e sentire di nuovo le sue braccia sorreggerla e stringerla.

Le sue braccia. L’avrebbe abbracciata ancora?

Avvicinarsi.

Alessandra si morse il labbro. Non le piaceva affatto il pensiero che la sua mente stava elaborando, contro la sua volontà. Avvicinarsi. Chi aveva fatto la prima mossa, qualcuno aveva fatto davvero un passo in più? Sesshomaru si era lasciato accostare con il sospetto e l’indulgenza sottile di un predatore curioso. Si era lasciato avvicinare e l’aveva studiata. La stava ancora studiando, nel vento colorato d’oro e polvere secca. Continuava a studiarla. E quegli occhi. Quegli occhi non erano cambiati dalla prima volta che si erano incontrati. E allora cosa? Cosa voleva dire, avvicinarsi?

 

Avrebbe potuto; sì, avrebbe potuto provare. Ma. Ma forse era vero che qualcosa era cambiato. Dopo che la naginata l’aveva precipitata nell’incoscienza; mentre il tempo e i mesi passavano. I mesi. Cinque mesi. Cosa sono, davvero, cinque mesi? Cos’era successo, in quei cinque mesi?

Cinque mesi. Sono solo due parole; a pronunciarle sono meno di un respiro. Cinque mesi. Ma sono tempo; tempo trascorso e modificato. Per lei; e forse anche per lui. Perché qualcosa. Qualcosa era davvero cambiato. O forse no. Forse era lei ad essere ancora troppo confusa e stanca per affrontare tutto e semplicemente si rifiutava di pensare. Pensare. Aveva pensato tanto, in quelle settimane. E adesso. Adesso che avrebbe potuto avere risposte, si accorse di non volerle. Si accorse della paura che restava lì, in gola, in un nodo che la soffocava. Paura. Aveva paura. O era solo consapevolezza? Di quello che avrebbe potuto ascoltare, di quello che sapeva avrebbe sentito. No. Semplicemente non le interessava; non le interessava più sapere qualcosa.

 

Sesshomaru era di fronte a lei.

Le sembrava quasi di poter distinguere il lieve pulsare della vena sotto il mento; quella piccola vena che affiora leggera quando piega la testa di lato. Le sembrava di distinguere il movimento impercettibile del petto che respira. Il petto. C’era del sangue, sul suo petto, l’ultima volta che lo aveva visto. Sangue di demoni e di umani. E c’era. C’era un taglio, forse un morso, profondo che lasciava intravvedere il bianco dell’osso e il suono fastidioso di uno sfrigolio assieme all’odore penetrante di sudore, adrenalina e marcio. Era. Era ferito, sì. Ferito e bello. Scosse la testa; o avrebbe voluto scuoterla, portarsi una mano alla tempia e massaggiare piano. Per ricacciare indietro quel pensiero…quel pensiero…Disdicevole, ecco. Quel pensiero assolutamente disdicevole e fuori luogo. Era; era solo curiosità. No: preoccupazione. Ecco: preoccupazione. Altrimenti; altrimenti non avrebbe avuto motivo di avvertire il desiderio di spogliarlo. No, nessun motivo. Solo sincerarsi che si fosse realmente rimesso. Curiosità, certo. Solo curiosità. Era una brutta ferita; forse gli era rimasta la cicatrice; forse. O forse la pelle era tornata perfetta. La pelle. No! Basta. Basta. Doveva smetterla. Non aveva senso; non aveva assolutamente senso.

 

Sesshomaru.

Sesshomaru era scomparso. Dalla sua mente, dai suoi pensieri. Nell’incoscienza, nel delirio, nella convalescenza. Ecco: quella era la certezza. Non lo aveva pensato; non lo aveva chiamato. O non aveva avuto il coraggio, di farlo? Perché avrebbe fatto male, urlare e invocare e aprire gli occhi e accorgersi che lui non c’era; che non c’era mai stato. Avrebbe fatto male; molto male. Allora. Allora meglio lasciar cadere anche la speranza; meglio aggrapparsi al rassicurante.

Sesshomaru.

Sesshomaru non era rassicurante? Era una presenza; una presenza cui si era abituata. L’aveva calmata; l’aveva sorretta. L’aveva rassicurata? Le aveva dato certezze? Non lo sapeva. Come non capiva cosa significasse quell’incontro, quel guardarsi senza accennare a nulla, come attraverso un velo invisibile.

 

Piangere. Aveva creduto che avrebbe pianto, quando lo avesse visto rientrare a palazzo. Piangere e ignorare le occhiate di compassione e malizia degli youkai. Piangere e abbracciarlo forte, nella sicurezza delle loro stanze. Piangere e sorridere sulla sua bocca, mentre lo baciava, mentre non cercava di capacitarsi che era tornato. Davvero tornato. Da lei.

Piangere.

Aveva pensato davvero che avrebbe pianto, quando lo avrebbe rivisto. E invece. Invece le lacrime non c’erano; e di sollievo e felicità non c’era che un vago sentore, aggrovigliato a mille altre emozioni contorte e confuse. No; non era paura. Non lo era. Era solo…Non lo sapeva. Non lo capiva. Ma Sesshomaru la guardava, e sembrava brillare, esser circondato da quella debole luminescenza che gli era propria in certi momento. Alessandra non lo aveva mai capito. Non aveva mai nemmeno voluto capire se quell’alone fluorescente che a volte lo circondava fosse reale o solo un’allucinazione di occhi stanchi o un gioco di luci con l’armatura e il kimono bianco. Però. Però in quel momento il kimono era scuro, e di armature e metallo non c’era nulla. Eppure. Eppure Sesshomaru sembrava irradiare qualcosa.

 

Il sole.

Certo, era il sole. Un gioco di luci. Eppure. Eppure il sole non si riflette sulla carne, non risplende sul corpo. Cos’era? Era davvero qualcosa? No. Non era importante. Non era assolutamente importante. Non ci doveva pensare. Sesshomaru. Esatto: doveva pensare a lui, a…A cosa? A come avvicinarlo? Ecco: forse era quello il problema. Forse in realtà non si erano mai realmente avvicinati. C’era una sensazione strana, un formicolio che vibrava; come se ci fosse un vetro, o un foglio sottilissimo di carta di riso. Lo vedeva, e le sembrava così distante. O era lei ad essere distante? Le mani si strinsero di riflesso. Distante. Era davvero distante? O era solo l’imbarazzo e la sorpresa del momento? Poteva. Poteva davvero allungare la mano e chiamarlo. E non lo faceva; la mano restava lì, in grembo, e per quanto la mente elaborasse ordini il corpo non rispondeva.

 

Sarebbe stato così facile, maledettamente facile. Ecco: respirare a fondo, per controllare il tremito un po’ roco della voce. Respirare a fondo e accennare un sorriso, un qualcosa che non fosse l’espressione indefinita che si sentiva addosso in quel momento. Un sorriso, un gesto e un invito. Facile; naturale. Come erano diventati naturali i gesti d’intesa, le intese a distanza. C’era; c’era come un codice fra loro. Una ritualità di sguardi, parole accennate e gesti fluidi che nascondevano sottintesi e discorsi. C’era. E adesso. Adesso non lo ricordava; non riusciva a ripeterlo. I gesti: così semplici, così immediati. Così distanti.

Perché? Perché non ci provava? Perché aveva il sentore che ci fosse qualcosa di strano, che in lei qualcosa si ribellasse al pensiero di avvicinarsi, di lasciarlo avvicinare? Non si sentiva ancora pronta, ecco. La cosa più semplice: il suo corpo non si era ancora ristabilito e anche se i lividi, i graffi e le contusioni, vecchie e nuove, erano ormai svaniti. Lo yogi cadeva largo e abbondante sulla sua persona smagrita; e le mani quasi scomparivano nelle maniche larghe, troppo larghe in troppo poco tempo. Lo sapeva, lo aveva visto: mentre faceva il bagno, avvolta dal vapore, tastava e tastava ogni osso, ripercorreva ogni centimetro della pelle, su contusioni e segni che non c’erano più e ancora vedeva e sentiva bruciare, tanto. Alla fine, le era sembrato anche naturale avere quell’aspetto debilito, era riuscita ad accettarlo con un respiro più profondo e la consapevolezza che solo il tempo avrebbe potuto aiutarla. Il tempo e la discrezione delle bijin-sama che si occupavano di lei.

 

Bijin-sama.

Adesso parlavano; adesso, la sera, trascorreva tranquilla con una tazza di tè e una conversazione pacata. Raccontavano; le raccontavano del loro paese, delle montagne verdi e fresche d’estate e bianche e mortali d’inverno. Le spiegavano: la mutevolezza della loro figura, e la trasparenza cristallina del loro corpo. Spiriti di montagna, le avevano detto. Spiriti di luce e del riflesso del sole sui ghiacci o nei piccoli corsi d’acqua; soffio del vento sull’erba rada e fra i rododendri. Ridevano; e sembrava una pioggia di sassolini sulla roccia. Nelle parole, il ronzio etero e soffuso di un’ape. Era piacevole conversare con loro; era curioso vederle rimpicciolire e smarrire la forma semiumana per ridursi a piccoli globi striati di rosso e blu, in una nube nera che sfavilla come fosse il riflesso del cielo più profondo. Erano così piccoli, quando non avevano forma umana: poco più grandi di una mano. E c’era quel sibilo ininterrotto, quel ronzio che era conforto e quotidianità. Era diventata la sua quotidianità. Rassicurante e calda.

 

Pazienza.

Glielo ripetevano sempre, nei gesti soffusi e delicati che le usavano; nella ciclicità delle giornate uguali a se stesse, scandite dal sole e dai lenti passi nella noka e nel giardino. Non le mettevano fretta; non la rimproveravano quando barcollava e la sostenevano mentre il corpo stanco si rilassava nel futon, nell’acqua della vasca che sapeva di muschio e resina calda. Pazienza. Il corpo si ristabilisce solo nel tempo: l’incarnato sarebbe tornato rosato, le occhiaie e la magrezza si sarebbero dileguati con indulgenza e naturalezza. Non era un male; non era una colpa. Era stata male; molto male. Era stata incosciente per giorni, a pochi passi dalla morte, a pochi passi dalla follia. Non importava; non importava se di sorridere non aveva sempre voglia; non importava se le lacrime fossero scese. Non c’era trucco da conservare; non c’erano maschere da indossare. Non con loro.

Non con lui.

 

Sesshomaru.

Con lui le maschere erano caduto; erano. E adesso. Adesso aveva la sgradevole sensazione che ne avesse reindossata un’altra. Ma più probabilmente era solo l’abitudine: la naturalezza di mostrarsi anche a lui capace di provvedere a se stessa, di sorreggersi. E poi. Poi semplicemente era vergogna e imbarazzo. Perché se ne sarebbe accorto del corpo smagrito, se l’avesse abbracciata. Si sarebbe accorto nei fianchi larghi e del seno un po’ cadente, si sarebbe accorto delle labbra più sottili e della tibia più sottile, rotta anni prima, in quella notte maledetta. Si sarebbe accorto di mille piccoli sciocchi umani particolari; e forse non dopo non avrebbe più voluto toccarla. Forse non lo voleva e basta.

 

Eppure.

Eppure non sarebbe stato necessario toccarsi. Si accorse, in un respiro spezzato, di non desiderarlo, un abbraccio o un bacio. Non in quel momento; non ancora. Sarebbe. Sarebbe anche solo stato sufficiente averlo accanto, seduto sull’engawa con lei. Quella vicinanza da cui era iniziato tutto, quando le mani erano vicine e non si erano ancora toccate, sfiorate. Sarebbe bastato. Ma Sesshomaru non parlava e non si muoveva; e lei. Lei. Alessandra non capiva; non capiva cosa volesse.

Parlare.

Ecco. Parlare.

Semplice. Immediato. Invitarlo e farlo sedere; aspettare le libellule rosse d’autunno e chiedere. Chiedere come si fosse conclusa la battaglia; chiedere cosa fosse successo dopo. Dopo che lei era rimasta ferita e svenuta fra le sue braccia; dopo che l’aveva riportata a palazzo, nel tempo della sua incoscienza. Sapere. Sapere se ci fosse mai stato, accanto al suo futon. Anche solo per un istante, anche solo guardandola da uno spiraglio della fusuma. Non. Non importava se non si fosse fermato a lungo. Lo sapeva: era impegnato. Molto impegnato. Era; Era naturale. Ma. Ma uno sguardo.

Ecco: uno sguardo.

Sapere come avesse fatto; come fosse possibile che adesso vedesse. Di nuovo. Se, si corresse, davvero vedeva di nuovo. Aveva un ricordo confuso dei suoi occhi che sfumavano fra le lacrime e il sangue; un ricordo liquido e tremolante. Eppure. Eppure c’era qualcosa di diverso, lo aveva…percepito? No. Forse solo sperato. Sperato, illuso: mentre l’eco delle grida si allargavano di nuovo nella sua mente; mentre lo rivedeva accasciarsi a terra, le mani correre a stringere la testa, a premere gli occhi. Sensazioni. Solo sensazioni; speranze che forse potevano di nuovo naufragare in un tremito leggero delle ciglia e rivelare di nuovo iridi spente. Come prima; come sempre. Come una nuova pesante normalità.

 

Chiedere.

Chiedere dove fosse, esattamente. E perché. Perché portarla via da palazzo in quelle condizioni. Perché mantenere un proposito detto quasi per scherzo, per costruire una progetto e non lasciar naufragare nell’incertezza il domani. Non ci avevano mai creduto veramente; nessuno di loro. Entrambi avevano detto: andiamo via. Ed entrambi, lo sapevano, lo avevano detto per convincersene, per rassicurarsi che quello che era sarebbe stato. Sia prima sia dopo; e che la guerra non avrebbe cambiato niente; assolutamente niente. Non fra loro. Lasciando quel vago sentore di non detto e di indefinito palpabile nell’aria aleggiare senza volontà di concretizzarlo. Che necessità c’era, di concretizzarlo? Si sarebbero fatti solo del male; troppo male. No; meglio lasciare tutto indefinito, con i contorni sfumati.

Così…così…Così.

E il risultato. Il risultato era svanito fra le lacrime, il sangue e le grida di una giornata su un campo di battaglia. Naufragato in quell’abbraccio, forse l’ultimo abbraccio, che Alessandra avrebbe ricevuto da lui.

 

Parlare.

E chiederli. Chiedergli cosa volesse fare, a quel punto. Chiedere cosa volesse fare di lei. Riportarla a palazzo? Forse. Forse sarebbe tornata a palazzo; e imparare a muoversi e mantenere la testa alta e l’equilibrio con l’obi legato davanti a impacciarle i movimento. Perché. Perché se fosse tornata, ormai, poteva solo sperare quello: un obi allacciato sul ventre e l’attesa di lui nelle sue stanze.

Era. Era quello che voleva?

O forse. Forse avrebbe ripreso a viaggiare senza meta, e le avrebbe detto di seguirla. Con Rin, per Rin. Seguirlo come un rurouni; e scoprire quella terra antica e il respiro innaturale di un mondo sospeso fra umano e divino; intrecciato fra umano e divino. Seguirlo. Forse lo avrebbe seguito di nuovo.

Oppure. Oppure. Cosa avrebbe risposto, se gli avesse detto: puoi scegliere. Se gli avesse detto: scegli. Come mesi prima; come quando aveva deciso di restare con lui. Per curarlo. Ma allora. Allora la scelta le era sembrata così ovvia e naturale: Sesshomaru era ferito; si era ferito per proteggere lei. Andarsene; andarsene non era possibile. E poi. Poi era rimasta con lui. Di sua volontà. O forse. Forse. Il sospetto si insinuò rapido: forse era rimasta con lui perché non aveva avuto altra soluzione, una volta a palazzo. Forse lo aveva seguito per provare, e alla fine si era trovata imprigionata. E lui. Lui era rimasto l’unico punto fermo di quel dilagare, di quel cambiamento radicale.

 

Respirò a fondo.

Stava boccheggiando. Stava. Stava rincorrendo aria; con l’affanno e un sudore freddo e sottile a coprirle la fronte. E Sesshomaru era davanti a lei, immobile. Sembrava trapassarla con lo sguardo, ignorare la mano che era corsa ai lembi della veste e che stringeva convulsamente la stoffa.

Non si sarebbe avvicinato: Alessandra lo capì in quell’istante. Sesshomaru non si sarebbe avvicinato. Né di sua volontà né se lo avesse invitato. Sarebbe rimasto a guardarla e basta; guardarla da lontano. Con la curiosa indifferenza che aveva sempre riservato a un ningen, a un qualcosa che gli si presentava davanti e non era necessario eliminare. Non ancora, almeno.

Lo realizzo, e il respiro si smorzo in un rantolo e in un grido che non voleva uscire. Lo realizzò; mentre guardava l’haori alzarsi in un’onda di stoffa; mentre guardava l’oro del ginko e l’argento dei capelli si Sesshomaru fondersi e allontanarsi.

 

Se ne stava andando.

Sesshomaru.

Le spalle sempre più lontane; la regalità della sua figura sempre più lontana. Andando. Se ne stava ancorando. Sarebbe tornato; forse. Sarebbe tornato. Ma non l’avrebbe più toccata; non l’avrebbe più stretta e baciata.

Non. Sarebbe. Tornato.

Non davvero. Perché qualcosa. Qualcosa era cambiato,e anche se lei non sapeva cosa fosse, il risultato adesso era chiaro, palese. E faceva male; un maledetto male: Sesshomaru. Da solo. Lontano da lei.

E forse. Forse era quello che sarebbe dovuto essere da sempre. Forse davvero Sesshomaru l’aveva sempre imprigionata. Legata con catene silenziose e impalpabili del supporto, di una sicurezza imposta e ricostruita con un sostegno che, appena lasciato, l’avrebbe fatta cadere di nuovo a terra, mentre a fatica avrebbe alzato la testa e lo avrebbe visto continuare a camminare.

Lontano da lei. Senza di lei.

 

“Tornerà presto”

 

Tornare. Alessandra annuì; per riflesso. Ma dentro. Dentro sentiva che no, non sarebbe tornato. Non sarebbe tornato mai più. Aveva perso qualcosa; e quel qualcosa non si poteva recuperare. E adesso le sembrava stupido e inutile chiedere cosa fosse successo; cosa fosse cambiato. Perché. Perché ormai era cambiato, e Sesshomaru aveva preso una sua decisione. E, lo sapeva, non gliel’avrebbe mai spiegata. Che senso avrebbe avuto, spiegargliela.

Sì; sarebbe tornato.

Ma solo con il corpo. Solo come presenza fisica, distante e irraggiungibile. Di nuovo irraggiungibile; o forse lo era sempre stato ed era lei la stupida che si era illusa di un qualcosa che non poteva restare. Perché. Perché non fosse mai esistito niente; perché tutto fosse solo un crudele gioco della sua mente no, non poteva crederlo. Non voleva. Non lo avrebbe sopportato.

Sarebbe tornato; e forse le avrebbe detto addio davvero.

E lei. Lei sarebbe rimasta seduta sull’engawa a guardare di nuovo la sua schiena allontanarsi nel vento e nell’oro e a chiedersi se ci sarebbe stata, una prossima volta. Se sarebbe rimasta sempre, su quell’engawa, ad aspettare il delinearsi del suo viso nei riflessi del giorno. O se semplicemente avrebbe chiuso gli occhi e si sarebbe incamminata a sua volta; dall’altra parte.

Sì; Sesshomaru sarebbe tornato.

Nella sua mente; nei suoi ricordi. Ma forse. Forse bijin-sama voleva solo regalarle un ultimo sprazzo di illusoria tranquillità. Forse era l’ennesima bugia. E allora ci avrebbe creduto: che lo avrebbe rivisto. Lì, mentre sedeva su quell’engawa. O nel riflesso del mare o nelle ombre lattiginose della nebbia.

Rivederlo. Da qualche parte.

Anche solo per restare di nuovo a guardarsi senza parole. Prima di allontanarsi.

Forse per l’ultima volta.

 

 

 

*****

 

 

 

“Non l’hai toccata. Perché?”

 

Fastidiosa.

Quella voce, con una punta di serietà e sorriso che non riesci a capire se scherza o se parla sul serio. È fastidiosa; e insinua. Insinua domande e dubbi di cui la sa già, la risposta. O di cui, in fondo, la risposta non gli interessa. Ha continuato a irritarlo, quella voce. Da quando è arrivato; da quando l’ha sentita per la prima volta. Ti resta intrappolata nelle orecchie, nella testa, in modo impalpabile. Come un’eco; come il ricordo di un suono ritmico e costante. Come la pioggia; o lo sciabordio del mare.

Fastidiosa. Molto fastidiosa. Perché non può metterla a tacere; perché si ripresenta sempre, per stuzzicare e provocare. Provocare. Come se bastasse una frase, una parola detta con leggerezza, a provocarlo. No; non è quello. Non è la domanda. O forse; forse sì.

Ma la voce; quel soffio irriverente e sottile accanto all’orecchio. Il sorriso che svanisce nel riflesso del sole, mentre le spalle si alzano annoiate al suo rifiuto. Al suo mutismo abituale. Perché non le deve a lui, delle spiegazioni. Non le deve a nessuno.

 

Sesshomaru respirò a fondo. C’era odore di terra; di terra, di resina e di pruno. Era presto, ancora. Dovevano passare alcuni cicli lunari, prima che i fiori bianchi del susino punteggiassero l’inverno. Forse. Forse sarebbe stato ancora in quel luogo, per la fioritura dell’albero. O forse no. Non aveva mai fatto un progetto simile; non si era mai soffermato a considerare dove si sarebbe trovato il giorno successivo, il mese, la stagione. Andava bene; andava bene trascorrere il tempo attimo dopo attimo, in quel fluire eterno e costante che si assottigliava fin quasi all’immobilità. Andava bene; senza supposizioni o progetti. Fino a quel momento. Adesso. Adesso invece qualcosa era cambiato. E si era ritrovato a considerare il tempo trascorso dopo la fine dell’assedio. Il tempo a palazzo; il tempo che aveva trascorso lontano da palazzo. Il tempo con Alessandra. Il tempo con lei in quel luogo: così vicino da poter sempre esser raggiunto e informato di progressi o cadute; così lontano da non essersi mai avvicinato a lei, al suo corpo. Nemmeno quando, ne era certo, non se ne sarebbe accorta, troppo stordita da farmaci e infusi, ancora abbandonata all’incoscienza.

Non se lo era permesso; in nessun momento.

 

E il tempo.

Il tempo era passato. L’aveva portata via da palazzo che la pioggia mitigava appena l’afa estiva che stava avanzando. L’aveva potata via dopo aver sterminato gli youkai che si erano ribellati alla sua autorità. E in quel momento, mentre si era chinato su di lei e l’aveva sollevata stringendosela al petto; il quel momento tutto si era fermato e aveva vorticato. Come se i giorni passati lontani si fossero annullati. E Alessandra era di nuovo coperta di sangue; di nuovo il respiro era pesante e affannoso, il volto sudato e pallido, troppo pallido per una ningen. Di nuovo il futon: e il corpo non era più da sollevare ma da adagiare; e le forme abbandonate si svelavano fra parole secche e ordini e indicazioni precise. La voce di Yaone. La voce di Yaone era sempre presente; e ripeteva e ripeteva parole che non voleva ascoltare: andarsene, restare, lasciarla, salvarla, ucciderla.

Si era confuso tutto. Mentre percorreva i corridoi nell’odore acre del fumo e nel serpeggiare del tanfo della carne bruciata; mentre montava Ah-Un e se ne andava senza voltarsi indietro; mentre avvertiva il sangue rattrappirsi e seccarsi sulle mani e sul volto, e come scricchiolare ad ogni piccolo movimento delle briglie; mentre il respiro sembrava profondo e calibrato per reggere come uno sforzo che non esisteva.

L’aveva portata via. Dal palazzo. Ed era stato come quando si era risollevato sul campo di battaglia e se ne era andato. Senza guardarsi indietro.

 

E poi.

Poi era stata la noka, fra i ginko e i melograni in fiore. Era stata l’estate consumata nel refolo caldo e al suono di uno shinobue. Era stata l’attesa: che Alessandra si risvegliasse, prima; che si risollevasse dopo. Il tempo aveva preso altri ritmi, che eran scivolati davanti ai suoi occhi, precisi e affilati come una lama. Era stata la noka silenziosa e l’estate; e sarebbe stato l’autunno fremente e la resina. E ci sarebbe ancora voluto tempo. Sì; lo aveva capito. Lo aveva visto: i ritmi dei ningen era diversi, profondamente diversi da quelli di uno youkai. E la ferita; la ferita che Alessandra aveva alla spalla ancora si apriva, ancora sanguinava in alcuni punti, anche se per la maggior parte si era ridotta ad una lunga e sottile cicatrice che le attraversava la spalla. E poi; poi c’era l’altra ferita. Quella che non si vedeva; quella che, ancora, a tradimento, la costringeva a tossire sangue quando lo sforzo si prolungava troppo. La ferita che avrebbe potuto ucciderla.

Aprì e chiuse la mano; gli artigli mandarono un tenue riverbero di youki e sole. I suoi artigli; i suoi artigli avrebbero potuto. Si accarezzò il palmo, attento; bastava così poco: appena un formicolio lieve e avrebbe avvertito la pelle lacerarsi in un taglio sottile. Il rivolo di sangue definirsi sempre più preciso contro la pelle diafana e scivolare lento lungo il palmo, fino al polso, confondendosi con le striature violacee. Bastava così poco; e anche i suoi artigli avrebbero potuto ferire Alessandra. E ucciderla.

Come la naginata.

 

La rivedeva: la lama ricurva stretta nelle mani di Inuyasha, con quel riflesso sinistro di metallo sporco. Un attimo, e il rumore sordo e lontano del ferro che cade a terra, prima che l’odore della carne bruciata lo colpisse e le mani, spasmodiche, stringessero il corpo che si era abbandonato contro di lui. Di quella naginata era rimasta solo la cicatrice sulla spalla di Alessandra. E la ferita al polmone. La ferita che aveva dato a Yaone la forza e il coraggio di rincorrerlo fin nelle sue stanze; prima che salisse nella camera da letto e si estraniasse dal mondo. Prima che mille pensieri e voci e rumori irrompessero con violenza nella sua mente, accavallandosi in modo frenetico e confuso. Era stata quasi brusca, Yaone. E, ripensandoci, Sesshomaru aveva rivisto in lei la sicurezza irriverente e sfacciata del Sensei; la determinazione provocante con cui le si era presentata davanti mesi prima, con la sufficienza nel viso e un ciuffo annoiato a velarle l’occhio nero. Era stata diretta, Yaone; e realistica: poteva morire. Alessandra poteva davvero morire. E anche se fosse sopravvissuta; anche se le ferite si fossero rimarginate e non fossero subentrate complicazioni, probabilmente qualcosa sarebbe rimasto. Qualcosa che l’avrebbe segnata per sempre.

 

Il polmone. Il polmone si sarebbe rimarginato; ma era debole. Troppo debole. E il sangue si sarebbe mescolato al respiro e alla saliva per molto tempo, ancora. Forse sempre; forse avrebbe smesso appena il corpo si fosse ristabilito completamente. Forse nel suo mondo; forse nel mondo da dove proveniva Kagome avrebbero potuto curarla completamente. Forse, quando fosse stata in forze…

Forse.

Già: forse. Non aveva più voluto ripensare a quel breve dialogo, alle poche parole scambiate ascoltate nella penombra della sua stanza, fissando le nervature del basso tavolino e i disegni molli della cera di una vecchia candela. Mentre Yaone parlava, il michiyuki ancora sporco di sangue e i capelli sfatti sul viso teso e contratto. L’aveva ascoltata; e non aveva prestato attenzione a quello che aveva detto. Troppi pensieri nella testa; troppe consapevolezze sbattute in faccia all’improvviso, emerse da un recondito angolino della sua mente; troppe cose ignorate e accantonate esplose all’improvviso.

 

E adesso? Come stava, adesso, Alessandra?

Bijin-sama avevano detto che la ferita alla spalla si era rimarginata; avevano detto che, con il riposo e la tranquillità, il polmone si era riformato senza incidenti. E il respiro adesso era calmo e regolare; solo ogni tanto qualche macchiolina di sangue poteva ancora comparire. Troppo poche e troppo piccole per allarmare; ma c’erano ancora. E volevano dire solo una cosa: tempo. Ci voleva ancora tempo. E Sesshomaru ormai era consapevole di non avere fretta.

Lo scorrere delle stagioni non aveva mai provocato in lui acuto interesse; si era sempre limitato a vederle sfilare davanti ai suoi occhi nel mutamento dell’aria e dei colori. Si era limitato a contemplarlo senza calcolarlo. Adesso: adesso era prima e dopo. E il dopo era Alessandra. Alessandra e quella nicchia fragile e sospesa che aveva ricercato.

 

Sesshomaru chiuse gli occhi. Era diventata un’abitudine: il flauto a confondersi con lo stormire dell’aria e l’eco del pensiero. Aveva reimparato la solitudine dei boschi, la libertà ferina e selvaggia cui i mesi costretto a palazzo lo avevano allontanato. Era stato strano: quel luogo, con l’incombere austero delle sue montagne e l’odore di zolfo che si spandeva nell’aria, non era cambiato, in nulla. Quasi il tempo passato fosse equivalso al semplice accenno di un respiro. Quel luogo. Erano trascorsi anni, da quando lo aveva visto per la prima volta, sul finire dell’inverno; o in tarda primavera.

Sesshomaru increspò appena le labbra: Ryoshi aveva la sgradevole abitudine di sedere in alto, su un ramo dell’albero cui soleva appoggiarsi. E suonava. Quando capiva che le domande e le parole non avevano effetto, suonava. Stava suonando anche la prima volta che lo aveva visto: un bambino di poco più grande di lui, il kinu e gli hakama verdi e bianchi e i lunghi capelli neri legati nel mizura. Suonava il flauto, lassù, sul ramo di una magnolia; e sua madre aveva sorriso e aspettato. Poi, la musica era finita e Ryoshi aveva concesso un sorriso impertinente e quasi indulgente. Lo ricordava come materializzarsi davanti a lui, in un soffio umido di pioggia; lo ricordava sollevargli divertito il viso e sorridere all’espressione seria e compita che si era imposto. Lo ricordava trasfigurare fino all’aspetto di un ragazzo, di un giovane uomo. E mentre il corpo di Ryoshi mutava e cresceva, Sesshomaru aveva avvertito la sua diversità e tutto il suo essere ancora piccolo e infantile. Si era lasciato prendere in braccio senza nemmeno averne coscienza, e quando aveva realizzato che la terra era sparita e le mani, i suoi piccoli artigli, stringevano forte il kinu, Ryoshi lo aveva trascinato con sé. Dove esattamente non lo avrebbe mai saputo dire: un mondo liquido e inconsistente, in cui fluttuavano gemme e squame e il viscido e l’umido ti entravano nella pelle con un disgusto che diventava abitudine nel tempo. Si era stretto a un corpo che non definiva, gli occhi socchiusi e i sensi tesi per captare quel furore che si mescolava ad una pace sicura. Come in un fortunale o nell’occhio di un tornato. E a un certo punto, quando Ryoshi aveva detto: apri gli occhi, Sesshomaru ricordava solo la sensazione di inconsistenza del suo corpo e la violenza di una natura che si scatenava intono a lui senza sfiorarlo. Era durato un istante; forse realmente non si era mai allontanato da sua madre e Ryoshi aveva sempre continuato a sorridergli in quel modo strano, a metà fra ironia e consapevolezza.

 

Non ricordava bene cosa avesse visto, ma ricordava il volto di Ryoshi divenire indefinito mentre lo riposava a terra e si sfilava una collana di acquamarine e zanne di drago. Gliela aveva messa al collo in un tintinnio come scroscio d’acqua; gliela aveva messa al collo e gli aveva detto: torna. Quando ne sentirai il bisogno, torna. Ed era tornato. Con Alessandra.

Mentre Ah-Un si levava in volo, mentre il palazzo diventava piccolo e sfumava oltre i sensi e il fumo che si levava dal padiglione centrale; mentre ancora cercava di realizzare esattamente il perché di quella scelta un po’ folle un po’ pericolosa e nel rimettere ordine coerente alle idee, nel lasciar svanire l’istinto e la ferinità che lo aveva attraversato sin da quando aveva rimesso piede nel palazzo, e poi durante tutto lo scontro, il Kano si era srotolato nella sua mente come un nastro lucido, assieme al rimbombo della sua cascata. Poi, era stato naturale risalirne il corso con la mente, immergendosi nel silenzio rarefatto della vallata fino alle pendici del Daruma; risalire il costone in un respiro, fino a dominare con uno sguardo assieme indifferente e assoluto il Fuji e il riverbero quasi accecante del mare di Suruga. E Ryoshi e i vapori caldi alle pendici del Katsuragi gli si erano materializzati nella mente con l’inconsistenza di un miraggio, assieme a quella parola, torna, che fluttuava indefinita. Tornare.

 

Non sapeva esattamente cosa lo avesse persuaso che sì, quello era il luogo ideale per Alessandra. Fra i colori e il silenzio delle montagne, al centro di una lingua di terra antica, forse più antica del suo stesso mondo, sotto la protezione di uno youkai nato dall’acqua e dalla terra stessa, uno youkai che, Sesshomaru ne era consapevole, era profondamente diverso da lui e dalla sua razza. In fondo, non era nemmeno corretto definire Ryoshi come uno youkai, o come un Kami: era l’essenza stessa dell’acqua che impregnava ogni particella di quel luogo. Eterno ed etereo come lui; non immortale, come lui, eppure destinato ad un altro tempo, ad un ciclo ancora diverso. Reclinò appena la testa; lo shinobue continuava nel suo fischio acuto e sottile, come il cadere continuo di una goccia in una caverna o su una pietra cava.

Quel luogo. Vi era arrivato con una naturalezza quasi illogica, considerando che vi si era recato solo una volta, da cucciolo. Ma da quando aveva scelto, da quando aveva deciso dove andare, la strada da percorrere si era definita chiara nella sua mente, facendogli guidare le briglie senza la minima esitazione. Era come se la terra stessa, l’acqua, lo avessero guidato; come se il suono del flauto gli avesse riempito la testa con discrezione, in un crescendo sempre più acuto e penetrante, fino a confondersi con lo scrosciare dell’acqua stessa che circondava tutto. Aveva scelto, e Ryoshi lo aveva aspettato su una grande pietra, il viso in una mano e la leggerezza di un bambino; nella stessa posa in cui lo aveva visto l’ultima volta, quando si era concesso di sbirciare alle sue spalle mentre seguiva sua madre. Eppure. Eppure sembrava che lo avesse sempre saputo; sembrava che non si fosse mosso per tutto quel tempo, quasi cristallizzatosi.

 

Sesshomaru-kun.

Non mi hai risposto: perché non l’hai toccata?

 

A volte preferiva lo shinobue.

Non chiedeva; non faceva domande fastidiose, e non si aspettava risposte che conosceva bene. A volte, lo shinobue era quasi piacevole, quasi rassicurante; quasi. Perché c’era sempre una punta si risata, quando Ryoshi suonava ed era vicino a lui. La musica si modulava in piccolissime variazioni, quasi impercettibili, ma c’erano: e la melodia che Ryoshi suonava quando era con lui era così diversa da quella per Alessandra. C’era sempre quella punta di provocazione, di insinuazione che, per quanto cercasse di ignorare, gli penetrava nella testa fino a irritarlo. Sembrava quasi che Ryoshi volesse irritarlo; e costringerlo a parlare. Costringerlo a dire apertamente e chiaramente i perché, le motivazioni di ogni sua azione.

Soltanto una volta si era limitato al silenzio: Sesshomaru aveva consegnato Alessandra a bijin-sama e aveva ordinato loro di assumere un aspetto umano vagamente femminile; e Ryoshi aveva annuito e gli aveva fatto un gesto ampio con la testa piccola e infantile. E Sesshomaru aveva seguito il bambino con una calma quasi innaturale. Lo aveva seguito fino ad una delle piccole polle d’acqua termale e lo aveva visto entrarvi camminando sul pelo dell’acqua, leggero come una libellula. Lo aveva seguito, mentre la stoffa si gonfiava e appesantiva e il sangue secco e rappreso diventava nero; mentre sul kimono macchie e schizzi si stemperavano in arabeschi imprecisi. Lo aveva seguito e, con disappunto, era stato costretto a reclinare la testa per continuare a guardarlo negli occhi, mentre il corpo di Ryoshi mutava e diventava adulto.

 

Si erano solo guardati, a lungo. Nel vapore lieve che saliva dall’acqua, mentre un sottile strato di bagnato ricopriva lo youkai, rilucendo a contatto col barbaglio della sua youki. Si erano guardati, mentre la sgradevole sensazione di un discorso muto si allargava fra loro, penetrava dentro Sesshomaru e rimbombava forte, troppo forte. Assieme al fastidio per parole non comprese; per suoni che restavano cacofonia indistinta e imprecisa. Eppure. Eppure era la sua stessa lingua, la lingua atavica della sua gente, della sua essenza. Eppure. Eppure era come se Ryoshi gli parlasse in un’altra lingua, forse ancora più antica, forse completamente dimenticata anche da loro: la lingua stessa di quella terra com’era alle sue origini, com’era nell’istante stesso in cui dall’acqua del mare e dal ferro nacque la terra. Già: la terra. Nihon è terra generata dall’acqua; e l’acqua, Ryoshi, è Nihon nella sua completezza.

 

Si erano guardati, fino a quando la mano di Ryoshi si era sollevata e Sesshomaru l’aveva sentita su di sé, sul suo viso, come un filo d’acqua impertinente. E non si era mosso; non era riuscito a muoversi, in quell’acqua calda improvvisamente pesante; in quell’acqua calda che stringeva e afferrava e risaliva il suo corpo con mille mani umide e dal suono metallico, come scaglie di drago. Non aveva potuto muoversi, e Ryoshi gli aveva stretto il mento e costretto a fissarlo, forse con ancora più intensità di quanto non avessero fatto fino a quel momento. Sesshomaru aveva avvertito, forte, la voglia di liberarsi e colpire; gli artigli affilarsi in un riflesso istintivo e l’odore pungente del veleno iniziare a serpeggiare, mentre un ringhio sordo e basso nasceva in gola. Non gli piaceva sentirsi impotente, non gli piaceva esser costretto in quel modo, essere obbligato a dire qualcosa che non ammetteva nemmeno a se stesso, nel pensiero. E Ryoshi. Ryoshi voleva qualcosa a parole; voleva il perché avesse portato proprio lì quella donna; una donna umana. Una donna di quella razza che, Ryoshi lo sapeva, Sesshomaru-kun disprezzava e trattava con mera sufficienza. Eppure. Eppure l’aveva portata da lui. E quando era sceso dalla sua cavalcatura, con lei esanime fra le braccia, gli aveva solo detto: sono tornato senza usare parole.

 

Già: Sesshomaru-kun non usa mai parole.

Ma sembrava un ordine, nel modo che aveva di tenere ferma e ritta la testa, nella posa autoritaria e inappellabile del suo corpo. E lui? Ryoshi si schiarì la gola e riaccostò lo shinobue alle labbra: nuova melodia.

Lui aveva annuito e lo aveva condotto alla noka; lo aveva aspettato sulla porta e lo aveva portato alla sorgente. E lo aveva provocato, in modo diverso da quando era bambino, e assieme così simile. Lo aveva provocato come si gioca con un uomo troppo sicuro di sé. Ma Sesshomaru-kun non è un ningen, e la sua provocazione si era risolta nel fremito di membra abituate al combattimento e nello scatto ferino ed esasperato della mano quando la presa d’acqua si era dissolta. Sesshomaru non ricordava di aver mai provato una sensazione simile: nella sicurezza di dilaniare carne e consistenza, aveva avvertito gli artigli penetrare in qualcosa di bagnato, senza la minima resistenza. Aveva sentito il corpo di Ryoshi assecondare il movimento fluido e violento dell’artigliata ed esplodere in una pioggia infinita d’acqua e vapore. Si era semplicemente frammentato, scivolando nell’acqua con uno scroscio. E lui si era ritrovato con la bocca socchiusa e un disdicevole senso di fastidio, mentre avvertiva Ryoshi riprendere consistenza corporea dietro di sé. Ed era stato umiliante accorgersi che, per quanto fosse veloce, per quanto precisi e affilati potessero essere i suoi colpi, non sarebbe mai riuscito a ferirlo e tantomeno a ucciderlo. Poteva solo voltarsi e rassegnarsi a quegli occhi impertinenti che ripetevano domande sempre più fastidiose.

 

Domande; già.

Come quella che stava evitando in quel momento; e che si ripeteva come una nenia assieme al suono del flauto. Perché Ryoshi è così: sonnecchia tranquillo nel suo elemento, placido come l’acqua stagnante; ma se anche la superficie è tranquilla, sotto è agitazione e furore e trepidazione, e quando qualcuno cade nelle sue spire, quando qualcuno entra nella sua acqua, nel suo elemento, Ryoshi non lo lascia andare, per quanto si dibatta e si dimeni. Non lo lascia prima di essere pienamente soddisfatto, prima di aver ottenuto qualsiasi cosa voglia. E da lui, Sesshomaru lo sapeva bene, voleva una risposta: perché non avesse toccato Alessandra.

Anche se. Anche se era così facile, da capire; maledettamente facile. Ma Ryoshi no. A Ryoshi non era sufficiente ciò che è facile; Ryoshi non vuole l’evidente, non vuole quello che è sotto gli occhi di tutti. No; Ryoshi vuole quello che è nella sua mente; vuole le sue parole e le sue motivazioni, per quanto possano essere naturali e razionali, anche.

 

Non ha toccato Alessandra. E forse non la toccherà ancora per molto tempo; forse non la toccherà più, nonostante tutto il suo corpo frema nel desiderio di farlo. Vorrebbe. Vorrebbe, e non riesce ancora a capacitarsene pur accettandolo, quel corpo nudo davanti agli occhi: accertarsi che non è rimasto né segno né livido; percorrere la cicatrice che le resterà per sempre sulla spalla; ricoprire e ripetere i gesti di quelli youkai che hanno violato i suoi ordini per cancellarli e sostituire ricordo a ricordo, piacere a terrore.

Vorrebbe. Ma non lo farà. Non lo farà finchè non avrà la certezza che sia quello che realmente è giusto fare; e forse non lo saprà mai, esattamente, cosa sarebbe giusto fare. Però. Però l’ha vista, la paura, nello sguardo di Alessandra. L’ha visto, il suo corpo che lentamente ritrova equilibrio e armonia, tremare e sussultare. E non era sorpresa, no.

All’inizio. Quando le si era presentato fra i ginko poteva essere sorpresa; poteva essere lo stupore della sua apparizione silenziosa. Ma dopo. Dopo le mani si erano strette in grembo e Alessandra aveva continuato a guardarlo, senza pronunciare parola, senza un cenno. Mentre il corpo. Il corpo tremava e sembrava cercare di raccogliere le forze per mettersi al sicuro, per scappare se il pericolo che, d’istinto, avvertiva serpeggiare si fosse concretizzato in minaccia reale e tangibile.

 

Due consapevolezze: Sesshomaru ne era stato investito con una lucidità quasi disarmante. Alessandra aveva paura di lui, per prima cosa. Paura di quello che era, che rappresentava. Paura del suo essere maschio prima ancora che youkai, e della forza superiore, schiacciante, che possedeva e che avrebbe potuto costringerla semplicemente come fosse stata una volontà, un capriccio. E poi. Poi probabilmente c’era il fatto che Alessandra stessa non realizzasse appieno quella paura, quel rifiuto che le avrebbe stretto lo stomaco e fatta irrigidire prima di provare a divincolarsi, ad allontanarsi. No, ne era certo: non ne era consapevole. Non a livello mentale. Ma il suo corpo; il suo corpo parlava e Sesshomaru aveva imparato negli anni, da predatore, a riconoscere la differenza di un brivido.

E il tremore di Alessandra era paura. Paura della propria naturale debolezza; paura di sensazioni e ricordi ed emozioni che avrebbero potuto riemergere improvvise e soffocare.

Paura. Semplice paura. Forse la stessa che l’aveva attraversata mesi prima, la prima volta che si erano incontrati. Ma allora la mano di Sesshomaru le premeva la gola; allora i loro corpi si respingevano e Alessandra gli offriva sfacciata e disinteressata la carne tenera da recidere. Anche quella volta il corpo di Alessandra aveva tremato, mentre gli artigli premevano sulla pelle e l’eco del sangue rimbombava e si ripeteva all’infinito. Anche quella volta Alessandra aveva tremato, nel suo corpo. Solo nel corpo. Come se la sua mente rifiutasse di cedere, rifiutasse la paura; rifiutasse e basta. Quella volta rifiutava lui.

 

E adesso?

Cosa sarebbe successo, se si fosse avvicinato? Cosa sarebbe successo se, invece di fermarsi fra i ginko, avesse assecondato un impulso che, prepotente, aveva sentito farsi strada dentro di lui assieme al tempo che scorreva, mentre si costringeva all’immobilità. Cosa sarebbe successo se semplicemente non avesse pensato, e le fosse comparso alle spalle, nel silenzio dei movimenti che gli è proprio. Sorprenderla e vederla trasalire, forse arretrare. Sorprenderla e fermare il suo corpo che si sarebbe ritratto, costringere la testa, la bocca, a sé; afferrare braccia e gambe che avrebbero scalciato, senza nemmeno capire esattamente perché, per quale paura. Afferrarla e basta; e scoprirla a forza, ricercando nella mente i lividi e gli ematomi intravisti in una stanza affollata, su un corpo pallido coperto di sangue e sudore. Richiamare dalla memoria il corpo di Alessandra che si mostrava a lui, fra la stoffa sgualcita e sporca. Rivedere la sua nudità e sapere che, questa volta, ne avrebbe avuto coscienza, che sarebbe stato qualcosa di diverso. Ricordare; e percorrere con la mano la pelle ad assicurarsi della sua integrità. E dopo. Dopo.

 

Cosa sarebbe successo, dopo? Si sarebbe fermato? Davvero gli sarebbe bastata la sicurezza del corpo in via di guarigione, con le sue forme che tornavano normali e la magrezza e il pallore che sparivano? Davvero si sarebbe fermato, adagiandole l’haori sulle spalle nude prima di voltarle le spalle e andarsene. Lasciandola come? Insoddisfatta, disperata, sollevata?

Era strano. Il desiderio e l’appagamento fisico erano sempre state sensazioni vacue e remote. Si era concesso un’amante per curiosità e necessità. Si era concesso di condividere il letto con yasha per calcolo; e si era ritratto con una smorfia insoddisfatta prima di finire. Calcolo; solo calcolo. Perchè se avesse dimostrato alla corte che, benché in tempi lunghi, era interessato a procreare un erede, il giogo che a quel tempo sentiva sempre troppo stretto e pesante si sarebbe allentato. E il giogo era sparito: consumato con una yasha senza volto; avvolto da coperte e corpi che lo provocavano e lasciava insoddisfatti. Il giogo era sparito, ma Sesshomaru sapeva che, presto o tardi, si sarebbe ripresentato. E questa volta non avrebbe potuto sottrarsi facilmente: la corte mormorava, ma presto le voci soffuse e i borbottii sarebbero divenute grida e polemiche. Ben presto, lo sapeva, nuove yasha sarebbero venute a riscaldare il suo letto, e lo avrebbero seguito anche durante i suoi spostamenti: ansiose di mostrargli corpi perfetti modellati dalla battaglia, vogliose di raccogliere la sua discendenza e generargli quell’erede che doveva continuare la stirpe e il suo ruolo.

 

Eppure.

Eppure non provava interesse. Forse nemmeno per Alessandra. E il desiderio che gli stringeva lo stomaco e si allargava caldo e maligno nel ventre era altro. Era un desiderio diverso, e che non aveva mai provato. Ma che gli dava la sicurezza, fastidiosa, ma era pur sempre una certezza, che no, non l’avrebbe lasciata andare, se l’avesse avuta fra le braccia. No, non sarebbe stato capace di frenarsi, se prima non fosse riuscito a strapparle ben più di un bacio. E l’irritazione cresceva assieme alla consapevolezza che quell’incapacità di dominarsi non cozzava con il suo autocontrollo, con il calibrarsi degli istinti

Sapeva di desiderare il corpo di Alessandra, lo aveva realizzato e con il tempo anche accettato. E lo voleva non per capriccio o curiosità. Lo voleva per istinto; per quell’istinto assoluto e pieno che loro youkai provavano nei sentimenti. Sì: voleva Alessandra. E la voleva come forse avrebbe dovuto desiderare la sua compagna, la yasha che avrebbe dovuto dargli un figlio. E forse era quello lo sbaglio: la volontà di avere lei con la stessa intensità che avrebbe dovuto essere riservata alla compagna, alla madre di suo figlio. Eppure. Eppure, per quanto ci ragionasse, Sesshomaru era risoluto nella sua volontà: Alessandra. Per se stessa.

 

Toccarla.

Sarebbe stato così piacevole, toccarla. Come quando erano sdraiati nel futon, a palazzo. Toccarla lentamente, attraverso la seta e giocare lungo i lembi dei kimono, sfiorando la pelle quasi per sbaglio, per scherzo. Ritrarsi e ritornare, con calma e curiosità, scoprendo poco a poco un calore diverso, un modo diverso di rispondere a carezze e sollecitazioni. Un gioco strano, iniziato con naturalezza nelle notti del palazzo, quando il Alessandra si stringeva a lui dopo una battaglia. Forse per paura che scomparisse da un momento all’altro; forse per ricercare calore e protezione nel dormiveglia; forse davvero per imparare il suo corpo. Con il tempo gli aveva permesso sempre un po’ di più: una lembo di pelle sulla spalla, una gamba che si definisce maggiormente e si offre nuda alla sua mano. C’era voluto tempo. Per entrambi. Tempo per superare pudore e ritrosia; tempo per vincere convinzioni e orgoglio. Anche se le mani tradivano, e si muovevano prima della testa, prima delle convenzioni, rincorrendo quelle sensazioni che risvegliavano calore e ansia e trepidazione nel corpo, scendendo giù, nello stomaco e nel ventre.

 

Toccarla.

Sarebbe stato così semplice, toccarla. E così sbagliato; maledettamente sbagliato. Perché la paura, adesso, era un muro eretto e massiccio; perché il corpo di Alessandra lo avrebbe rifiutato. Anche se lei avesse detto sì, anche se si fosse offerta nuda e remissiva, sarebbe stata solo la sua voce a parlare; mentre il suo corpo. Il suo corpo.

Il suo corpo avrebbe urlato e scalciato e graffiato. Il suo corpo si sarebbe rifiutato; e Sesshomaru sapeva che non avrebbe potuto far altro che immobilizzarla perché non si facesse male. Stringere i polsi forte, troppo forte, e restare a guardare lacrime e terrore e grida che lo volevano allontanare, che lo respingevano con la stessa trepidazione con cui Alessandra lo aveva cercato. E ancora l’avrebbe tenuta stretta, aspettando. Che la voce diventasse sibilo rassegnato; che il respiro fosse singhiozzo e della violenza e della rabbia rimanesse solo un tremito delle membra. Allora. Allora l’avrebbe lasciata; per voltarle la schiena e andarsene. L’avrebbe lasciata distesa sul futon o forse sull’engawa, le vesti scomposte e la pelle a tentare e offrirsi inerme e debole. Troppo debole.

 

Perché non l’aveva toccata?

Perché Alessandra non voleva essere toccata. E ogni fibra del suo essere aveva urlato isterica e impaurita quando lo aveva visto. Nel timore che si avvicinasse; nel folle terrore che pretendesse qualcosa, qualcosa che non avrebbe potuto rifiutare, cui non avrebbe potuto opporsi. Non l’aveva toccata, e aveva sentito come un crampo mentre la sua testa valutava ogni azione, ogni più piccolo respiro. Un crampo stringergli lo stomaco e scendere nel ventre; giù lungo le gambe e scomparire nella terra, fermandolo lì, sotto quegli alberi, in quella pioggia d’oro. Incapace di andarsene; incapace di lasciarla ancora. Esitazione? No. Non aveva esitato. Era stato istinto: la sicurezza che, se solo avesse compiuto un gesto, qualcosa sarebbe cambiato, forse spezzato. No; ne era sicuro: non aveva esitato e nessun dubbio gli aveva attraversato la mente. Sapeva esattamente cosa Alessandra provasse, cosa il corpo gli rivelasse.

 

Paura?

Sesshomaru strinse gli occhi, e Ryoshi scrollò le spalle con noncuranza. A volte parlare con Sesshomaru-kun è difficile. Perché prende ogni parola come una sfida; perché vede solo il lato violento e bellico delle parole. Ma la paura ha tante forme; tante e troppo diverse per poterle conoscere tutte. Anche un demone. Anche uno youkai come Sesshomaru-kun può avere paura. E non è il tremito che ti scorre nelle membra sul campo di battaglia, quando ti accorgi che la vittoria ti ha sedotto e ti sta per abbandonare. Non è il formicolio di rabbia e disperazione che provi nell’avvertire qualcosa di più grande, di più potente, sovrastarti e ricordarti, improvviso, che devi ancora crescere, che essere forte non è abbastanza, non è mai abbastanza.

 

Ha tante forme, la paura.

Come quel crampo. Lo ricordi, Sesshomaru? Quando hai sollevato la ningen fra le braccia, sporca di sangue e sudore. Quando l’hai sollevata e ti sei accorto del sangue che scivolava dalle labbra, assieme al respiro. Il crampo che si allargava in ogni muscolo e faceva male, più del veleno che ti stava corrodendo le carni. Lo ricordi? Sì; sì, lo ricordi. E sai cosa vuol dire, vero? Sai cos’è quella paura che ti ha tenuto lontano da lei; che ti ha fatto scappare per la prima volta in vita tua da una battaglia così semplice e così pericolosa. E sai anche che non era paura: solo consapevolezza. Di dover pensare; di aver bisogno di tempo per capire e, soprattutto, per riuscire a riequilibrare sensazioni, impressioni e ovvietà ignorate.

 

Sesshomaru-kun

 

Il flauto si dileguò, con un residuo di musica e uno sbuffo di vapore. Mentre Ryoshi si lasciava scivolare dall’albero e le sembianze infantili mutavano in quelle dell’uomo. Mentre quel…Cos’era Sesshomaru, per lui? Il labbro mordicchiato e una parola che sfugge quasi per ironia: cucciolo. In fondo, non era cambiato molto da quando lo aveva preso in braccio, molti anni prima. Non era cambiato affatto, anche se il corpo era cresciuto; anche se, adesso, lo fissava con uno sguardo più esperto e maturo; anche se gli artigli avevano conosciuto sangue e morte, non era cambiato affatto. Uno youkai non può cambiare; non come intendono il cambiamento i ningen, almeno. O come lo intende lui stesso. Sospirò. Sesshomaru era ancora un cucciolo; e in confronto a lui lo sarebbe stato sempre. Un cucciolo che ti guarda, e mescola timori, orgoglio e risolutezza, e ti sfida a fare qualcosa, a trovare qualcosa che possa attirare la sua attenzione, che possa interessarlo. Non è mai stato facile interessare veramente Sesshomaru, avere la sua completa attenzione e sapere che aspetta, che aspetterà finchè non troverai le parole e le azioni giuste per farti comprendere. Cucciolo impaziente.

 

Ryoshi stuzzicò il mizura: Sesshomaru-kun. Sarebbe stato così semplice; e così pericoloso. Sarebbe bastato semplicemente aprire la mano e lasciare che l’acqua fluttuasse, si condensasse e lisciasse fino a formare uno specchio di cristallo. E poi. Ryoshi lo immagina: il viso di Sesshomaru riflesso tremolare in profondità e sfumare nei contorni, in un vapore che sale che avvolge tutto; il tempo fluttuare e quella sgradevole sensazione di sottrazione, mentre la sua essenza scivola in una debole luminescenza che riflette e scorre. Già: sarebbe stato così facile, e avrebbero potuto vedere: Sesshomaru-kun il suo futuro; Ryoshi la sua eternità. Avrebbe potuto mostrarglielo, perché il tempo è come l’acqua che scorre: dalla sorgente alla foce e trascina con ogni frammento di passato, presente e futuro. Il tempo dei ningen, il tempo degli youkai, il tempo dei kami: non c’è differenza, per l’acqua. Scorre e basta, e Ryoshi sa leggerla, sa plasmare da se stesso quello specchio che è squarcio e finestra, e sa che basterebbe una sua distrazione, una decisione mal ponderata, e il futuro si dissolverebbe in uno sbuffo per riassumere una nuova forma, un nuovo corso, uguale nella sua essenza, ma diverso nella sua manifestazione.

 

Sarebbe facile, e Sesshomaru-kun vedrebbe. Vedrebbe e si rassegnerebbe, senza accettare che il destino è il tempo e acqua, e non c’è nulla di definito ed immutabile, nemmeno nella vita di uno youkai. Ryoshi ridacchiò: Inutaisho lo aveva capito, lo aveva intuito; Saiyuri no. Inutaisho aveva imparato ad accettare il mutamento determinato dalle azioni, in bene e in male; Saiyuri no. Sayuri accettava solo la vittoria, Saiyuri permetteva che si realizzasse solo ciò che aveva previsto, senza intoppi e deviazioni. E Sesshomaru-kun. Sesshomaru-kun si trovava in bilico: diviso fra l’accettazione e la ribellione. Aveva realizzato una ningen, ma non riusciva a rassegnarsi a qualcosa di indefinito e impreciso, ancora. Anche se, Ryoshi se ne era accorto, stava mutando, stava crescendo. Perché il centro, il pensiero, si era allargato, e da se stesso e dalla sua essenza Sesshomaru aveva iniziato a deviare, ad allargare, includendo qualcosa che esulava dalla sua completa comprensione e che stava…Sì: avrebbe potuto dire studiando. Con la circospezione del cacciatore, prima di decidere l’attacco. Perché anche Alessandra era una preda, per Sesshomaru. Una preda diversa da quelle cacciate fino a quel momento, ma pur sempre una preda.

 

Come la paura.

Anche la paura era una preda, da accerchiare e addentare al momento opportuno, nell’attimo di distrazione. E per Sesshomaru-kun non c’era differenza, fra paura e Alessandra. Ryoshi lo aveva capito quel pomeriggio, nascosto nei riflessi del laghetto: lo aveva visto studiare la ragazza, annusare la sua paura e classificare ogni suo più piccolo fremito. Lo aveva visto stringere la mascella per rabbia, esasperazione o forse solo impotenza. E restare fermo, come per dilatare il tempo e fermarlo. Come per dare ad Alessandra la possibilità di riabituarsi al suo viso, alla sua presenza. Alla sua reale essenza. Non era stato facile in passato, e quello che era accaduto non avrebbe giovato: una certezza di cui erano coscienti sia lui che Sesshomaru-kun. E lo youkai aveva scelto la via più difficile, quella che richiedeva maggior pazienza e, forse, una consapevolezza di sé e degli altri che in quel momento Sesshomaru non possedeva, non ancora pienamente, non ancora maturata e definita. Sua padre. Suo padre ci aveva messo anni a raggiungerla; meglio: a sfiorarla. E aveva compreso brandelli di quell’equilibrio e del rapporto che può intercorrere fra ningen e youkai. Solo brandelli.

 

Chissà.

Chissà se Sesshomaru-kun e Alessandra sarebbero stati capaci. Capaci di accettare le differenze fra loro senza farsi schiacciare e soffocare; capace di rimanere nella propria natura senza rifiutare totalmente l’altra. Si erano scelti la via più difficile, e l’unica possibile: scelta nella spasmodica ricerca di un equilibrio inseguito senza consapevolezza. Chiuse gli occhi: era la via più difficile, e l’unica effettivamente percorribile. Alessandra non sarebbe mai divenuta una yasha; e Sesshomaru non avrebbe mai accettato una realtà da ningen. Non era sospesi fra due realtà, nella loro essenza, ma coscienti della loro diversità.

 

No: non avrebbe creato lo specchio, per guardare il futuro (possibile). Non ne aveva bisogno, non lo voleva credere. Sesshomaru-kun e Alessandra-chan stavano tentando: sapere se sarebbero riusciti o se si sarebbero distrutti non aveva importanza. C’era solo una cosa ad aver valore: il tentativo. Anche fatto di inciampi, risate e sofferenze. E forse. Forse davvero avevano trovato l’equilibrio corretto, cercando pur in un processo inconscio di accettarsi senza mutarsi. Già: mutarsi. Ne aveva incontrati, in passato, youkai che volevano fare propri compagni dei ningen e ningen che bramavano youkai per la loro potenza e per il trofeo che avrebbero mostrato. Era un desiderio, un’attrazione che spesso sfociava nell’ossessione, nella ricerca spasmodica e autodistruttiva. Erano morti: youaki o ningen. Erano morti, uccisi dal compagno, uccisi dal loro desiderio. Gli aveva visti, nelle pieghe dell’acqua: gli artigli gocciolanti e le zanne affondate in carne tenera e pulsante; le katana strette in corpi mutilati e assieme perfetti. Era stato male. Era stato fastidio e impotenza e rabbia e rassegnazione e ironia. Immagini che si era avvicendate fin dalle origini, da quando Susanoo aveva desiderato Kushinada-hime. E i confini si erano infranti senza ritrovare un unico equilibrio: kami, youkai e ningen erano entrati in contatto e l’effetto. L’effetto di quella prima unione era stata la discendenza dei mikado.

 

I confini.

È male infrangere i confini; ma forse. Forse imparare a vivere sul limitare era possibile. Forse. Mosse le dita, e una piccola sfera d’acqua si cristallizzò nell’aria, fluttuando davanti al suo viso prima di scivolare verso Sesshomaru. Va bene: gli avrebbe fatto decidere. Avrebbe potuto vedere un futuro, un futuro possibile, dettato dalle sue emozioni, dalle sue speranze e dalle sue paure. Non era né la certezza né la realtà innegabile e immutabile, ma questo avrebbe dovuto capirlo da solo. Se avesse compreso davvero che l’acqua può generare infinite increspature dal semplice tremolio di un soffio, allora avrebbe compreso anche che le possibilità si possono creare e si devono costruire: ningen, youkai o kami che siamo a cercarle. E Sesshomaru-kun aveva le capacità di crearle e mantenerle, se avesse ragionato senza lasciarsi guidare da precetti e orgoglio atavico e fossile. No: sbagliato. Se avesse risvegliato l’orgoglio proprio di un demone che lo porta a un passo dai kami; che lo porta a essere chiamato kami pur non essendolo completamente.

 

Rysohi socchiuse gli occhi e la sfera d’acqua e cristallo iniziò a emettere una debole luminescenza. No: non gli avrebbe più chiesto perché; sarebbe stato sciocco e controproducente continuare quel gioco che aveva per risultato solo il mutismo ostinato e orgoglioso di Sesshomaru-kun. Doveva trattarlo come uno youkai, e non come un cucciolo. E uno youkai non lo stuzzichi; uno youkai lo poni davanti ad una scelta. E lo lasci libero di decidere.

Perché la risposta, Ryoshi lo avvertiva, era conosciuta da entrambi, e dirla o lasciarla intendere da uno sguardo, da un’inclinazione della tesa, non avrebbe modificato nulla, assolutamente nulla. Ma quell’altra domanda; quella che, adesso, gli solleticava la mente e la lingua. Quella era una domanda che necessitava di una risposta. E andava presa con consapevolezza e risoluzione.

 

Gli avrebbe lasciato tempo, certo.

Il tempo di valutare le possibilità e se stesso; il tempo di soppesare ogni cosa. Ma non gli avrebbe permesso di scappare; non avrebbe accettato, in risposta, una scrollata di spalle e la seta che si gonfia nel gesto elegante. Non avrebbe accettato l’indefinito che Sesshomaru lasciava dietro di quando la decisione era un pericolo troppo grande. Non glielo avrebbe permesso; non questa volta. E sì, fa paura. Lo vedeva: Sesshomaru-kun annuiva appena, impercettibile, ma Ryoshi sapeva che si sentiva braccato, in trappola. Sapeva di averlo costretto ad una decisione che avrebbe potuto mutarsi in sollievo o rimpianto. Ma era necessario. Era necessario che l’orgoglio e l’indifferenza ostentati di frantumassero per farlo crescere. Allora. Allora ci sarebbe stato un’altra indifferenza; e un altro orgoglio. Ma doveva scegliere. E imparare il peso dell’azione ignota.

 

Si inginocchiò, la sfera che trasudava essenza e un sottile strato d’acqua a inumidirla. Si inginocchiò e Sesshomaru gli permise di toccargli il viso, ripercorrere le striature rosate e salire lungo il profilo elegante fino allo spicchio di luna in fronte. Gli lascio insinuare la mano nei suoi capelli, senza la minima repulsione o disgusto. E si chiese se fosse realmente quello che voleva o se ci fosse una malia, un potere più antico a controllare e sopire i suoi istinti. Una youki che lo aveva circondato e avvolto, e che incatenava gli artigli scattati per istinto, il ringhio che gli premeva in gola e il desiderio e il disgusto che lo assalivano mentre Ryoshi gli sollevava la frangia e riportava indietro i capelli, mettendogli completamente a nudo il viso e la gola. Lo avvertì con un singulto soffocato soffiare sulla pelle scoperta del collo, all’incrocio del date-eri. Lo sentì risalire in una scia liquida e insinuarsi fra le pieghe della seta fino ad avvolgere completamente il suo corpo, la sua pelle. Ryoshi lo stava possedendo, stava entrando in lui per costringerlo ad ascoltarlo, a capirlo. A decidere. E lo lasciava libero di cacciarlo, ma gli rubava la capacità di reazione. E scivolava sul suo corpo stuzzicandolo e costringendolo senza realmente decidersi a prenderlo completamente.

 

E mentre il respiro diventava affanno, mentre sudore, acqua e nausea si mescolavano; mentre Sesshomaru avvertiva le energie e la youki venir racchiuse in una bolla senza tempo e il suo corpo rifiutare di rispondere al più semplice dei comandi; mentre realizzava la sua incapacità e la sconfitta più irritante, in una lotta in cui la posta in gioco sembrava essere il controllo del suo corpo; mentre quella sensazione di liquido era in ogni cellula del suo essere, dentro e fuori, Sesshomaru avvertì di nuovo la mano di Ryoshi costringere la testa all’immobilità e il viso del mizuchi materializzarsi davanti al suo in una maschera senza età d’acqua e vapore. L’acqua a offuscargli la vista, scendere sulle labbra e ancora più giù, lungo il collo, fino a confondersi con il corpo e con quell’umido che ormai sembrava far parte di lui. Perché Ryoshi, in quel momento, lo possedeva completamente e poteva fare qualsiasi cosa con lui: costringerlo, manovralo, e anche ucciderlo. Lo possedeva, come Sesshomaru non aveva mai permesso a nessuno di averlo, di tenerlo. E con terrore avverti la rabbia e l’indignazione scivolare oltre nella mente, trascinate da quella stessa acqua; avverti i ringhi mutare in gemiti e un languore assieme confortante e irritante farsi strada lungo le membra. E nell’ultimo barlume di coscienza, sulla sua fronte un’altra fronte, o una bocca, un braccio, qualcosa. Qualcosa che premeva e sussurrava con la leggerezza ironica e fastidiosa di Ryoshi.

 

“Puoi scegliere, Sesshomaru-kun

 

 

 

*****

 

 

 

Blu. E poi azzurro e ancora blu.

E bianco. In quella striscia sottile che si insinua fra le scaglie, discende sotto il ventre e risale. Come un arabesco; o un nastro sinuoso, e sembra basti il fremito dell’aria a farlo alzare, allargare e poi ridiscendere. Come un aquilone. Un aquilone che cambia colore senza preavviso, inseguendo un capriccio dettato dal vento o forse da se stesso. E adesso il ventre è giallo e le scaglie diventano macchie rosse in campo bianco. Schizzi di un sangue che non c’è; schizzi di occhi che si allargano e ti fissano, attraverso il velo iridescente e umido. Oppure c’è il nero. Una lucida veste come di un’armatura, che avvolge completamente il corpo e si confonde fra i riflessi più scuri. Come in un gioco, come in un pigro mutamento che non ha ragione di essere se non nel diletto, nell’autocompiacimento.

 

E poi. Poi c’è la roccia, e l’acqua che trasuda e quella luminescenza viva che pulsa e pulsa e ti entra nella mente e ti freme sotto le mani e ti prende. Ti prende e basta. E non riesci ad allontanarti, a distrarti, mentre le mani toccano e toccano e sfregano e scrutano. E l’impressione, forte, ti fa male e vorresti allungare la mano ed entrare: dentro l’acqua, dentro la roccia. Dentro. Dentro qualsiasi cosa sia quella pietra che palpita e riluccica fra i vapori. Dentro. Forse per semplice curiosità; forse perché, in fondo, quel dentro non lo potrai mai comprendere, anche se lo tocchi, anche se ci consumassi i giorni, i mesi e gli anni. Lo potrai sempre avere fra le mani, nelle mani; e se ne resterà lì, davanti a te e lontano da te. Perché è come il nishikigoi che nuota nella pietra: si lascia intravvedere, ma non lo puoi catturare. Non lo puoi nemmeno toccare.

 

Ti parla, il nishikigoi. Parla in una lingua che non ha voce e si condensa in piccole bollicine che scompaiono contro la pietra. Ma parla. E segue il fremito del tempo e di emozioni che si fatica a rincorrere e a distinguere. Parla nei colori mutevoli delle scaglie, nell’arabesco dell’oro e del calico, tessendo discorsi fuggevoli come lo scorrere dell’acqua sulla pietra che lo racchiude. Ti parla, e ti guarda. O credi che possa vederti, mentre resta immobile, i baffetti che fluttuano e quell’ipnotico movimento delle pinne che non porta da nessuna parte e sembra non poter smettere mai.

 

Una clessidra.

La prima volta che Ryoshi le aveva mostrato il nishikigoi Alessandra aveva pensato ad una clessidra, senza un vero perché. Ma quel pesce; quel pesce chiuso in una roccia che trasuda acqua all’infinito; quel pesce che fluttua senza tempo e senza cambiamento, mentre attorno tutto trascolora e diviene; quel pesce che muta colore con la velocità di un pensiero che non si riesce a decifrare, quasi facendosi beffa di chi lo osserva e vorrebbe raggiungere anche un briciolo di comprensione, un frammento di quelle parole che sono acqua nell’acqua. Quel pesce per Alessandra era stata una clessidra che continua a girare su se stessa: una clessidra d’acqua. E con il nishikigoi era riaffiorato il tempo, nel peso e nel significato più strano e inconsueto. Il tempo trascorso, prima di tutto. Il tempo trascorso da quando era arrivata in quel mondo, in quel passato così irreale e devastante. Da quando era arrivata: erano gli inizi di novembre quando aveva accettato di prendere parte all’escursione alle pendici del Fuji e al lago Shojin, e c’era vento e aria calda e umida. Aria da neve, aveva pensato, senza darci troppa importanza. In fondo, erano pochi mesi che era in Giappone e non poteva nutrire l’insensata pretesa di comprendere e conoscere anche le bizzarie del tempo quando aveva difficoltà con il rapporto interpersonale. Ma quell’escursione era stata una proposta allettante: una camminata nella natura, un pomeriggio sui pattini, se il lago fosse stato ghiacciato come si sperava, e la tranquillità del ryokan e delle terme. Sì: un metodo rilassato e indolore per provare a rompere un po’ il ghiaccio e far progredire, seppur di poco, lo scambio culturale che aveva intrapreso.

 

Erano gli inizi di Novembre, allora. E doveva essere la fine di Ottobre in quei giorni, almeno a giudicare dalla natura e dal vento che si faceva più freddo sera dopo sera. Un Ottobre caldo e non rassegnato a cedere all’inverno. Inverno: un anno. Era da circa un anno che viveva in quel mondo. E gli ultimi mesi li aveva trascorsi fra delirio, incoscienza, futon e lenta convalescenza. Li aveva trascorsi da sola, se escludeva la presenza delle bijin-sama, di kodama e kinoko.

E Ryoshi.

Ryoshi che la sveglia al mattino; Ryoshi che conversa con lei nelle lunghe ore di riposo, che le offre il braccio, il braccio di un uomo e non di un bambino, durante le passeggiate per ristabilirsi. Passo dopo passo, sempre un po’ più lontano, sempre un po’ oltre il limite del giorno precedente, fra le montagne che da verdi si facevano d’oro e rosso. I silenzi, le parole o il suono dello shinobue. Il tempo aveva preso a scorrere in quel modo da quando aveva riaperto gli occhi in quella noka. E forse. Forse sarebbe continuano allo stesso modo se.

Già. Se.

 

Se Sesshomaru non le fosse riapparso davanti una sera d’autunno, fra il ginko e il tramonto. Se non l’avesse guardata e fosse rimasto lì, fermo e lontano da lei. E se il suo corpo; il suo corpo, stanco e un po’ traditore, non si fosse rifiutato. Rifiutato di qualcosa che Alessandra non riusciva (o non voleva) realizzare in piena consapevolezza. Perché era facile dare la colpa alle gambe un po’ malferme un po’ disabituate al movimento; perché era facile convincersi che toccava a lui avvicinarsi, toccava a lui concederle un cenno. Perché è giusto così; perché non c’era, quando lei si era svegliata e non c’era stato nei momenti in cui la debolezza e lo sconforto le stringevano lo stomaco e mettere un piede davanti all’altro, restare ferma senza appigli e aiuti ricacciando indietro capogiri e nausea erano torture che la lasciavano esausta e madida di sudore su un futon in una stanza vuota e silenziosa. Troppo silenziosa.

Avrebbe. Sì: lo avrebbe voluto accanto. Fosse stato anche semplicemente una presenza silenziosa. Ma. Ma poter socchiudere gli occhi e intuirne il profilo nella semioscurità o sentirne il respiro calmo nella notte. Poter allungare la mano sul legno freddo e un po’ ruvido, nelle notti a metà fra sonno, stanchezza e paure profonde che non avevano nome o volto ma salivano come mareggiate e rendevano affanno il respiro e lacrime le parole. Poter allungare la mano e toccarlo.

 

La sua mano.

Alessandra ricordava la vaga sensazione di un qualcosa di elegante e sottile che avvolge. E ricordava gli artigli che le sfioravano il palmo ogni volta che Sesshomaru racchiudeva le dita attorno alle sue e stringeva con impaccio e forza controllata. Il tepore appena percettibile che avvertiva quando Sesshomaru cercava la sua mano e la ricopriva con la propria. Era più grande della sua di pochissimo, forse più affilata e quasi diafana. Eppure. Le mani di Leone erano sempre state grandi: grandi quando, da piccola, la stringeva e la teneva ferma sulle sue spalle. Grandi quando le aveva insegnato l’equilibrio dei pattini, mentre le rimboccava le coperte o le tirava una palla di neve. Leone, per Alessandra, aveva sempre avuto mani grandi pronte a sostenerla e proteggerla; pronte a coprire quello che non avrebbe voluto vedere. Amava le mani di suo fratello, e amava quando le accarezzavano la testa, quando si insinuavano nei suoi capelli e le massaggiavano le tempie, dopo le ore di studio. Amava giocarci, con le mani di suo fratello: rincorrere le ombre e studiarne i segni. Erano mani che erano cambiate negli anni: la fossetta all’indice, per la pressione continua sul grilletto; l’anulare e il mignolo che non riuscivano mai a distendersi del tutto; il segno quasi normale del calcio della pistola nel palmo sinistro. La pelle dura del palmo destro per l’utilizzo della spada. E assieme la leggerezza che aveva saputo conservare, come quando catturava una farfalla e gliela mostrava, prima di liberarla senza averla davvero toccata.

Eppure. Eppure le mani di Sesshomaru erano così diverse. Sottili, quasi femminili; con le dita lunghe e gli artigli affilati. Ma c’erano quei particolari; quelle piccole cose che Alessandra aveva imparato a sentire con il tempo: il tendine del polso duro e pronto a scattare alla minima necessità; la fermezza con cui frustava l’aria e raccoglieva la sua mano o il suo viso. C’era voluto tempo, prima di avvicinarlo. Tempo prima che le mani scivolassero l’una nell’altra e anche quando era diventato un gesto naturale, Sesshomaru vi ricorreva raramente e solo nelle sue stanze o con la sicurezza di non esser visti. Ogni gesto, per la precisione, era da Sesshomaru ridotto al minimo, anche nelle sue stanze private. Un filtro che Alessandra aveva dovuto accettare quasi con rassegnazione e obbligo: un po’ per la natura stessa dello youkai un po’ per quello che sembrava essere un innato pudore orientale per qualsivoglia contatto fisico esplicito, di certo in pubblico; e Sesshomaru sembrava centellinarlo anche nel privato.

 

Eppure.

Eppure Alessandra non si era sentita trascurata prima dello scontro e della naginata. Sesshomaru aveva imparato altre movenze, altri modi per mostrarle la sua attenzione. Alcuni fisici, alcuni semplicemente basati sulla sua presenza o su poche parole. Ma quella distanza; la distanza di quella sera era stato qualcosa di nuovo e non decifrabile. O almeno Alessandra non era riuscita a spiegarsi il senso di quella che, in definitiva, poteva considerare solo come un’apparizione quasi onirica. Perché mostrarsi, se non aveva avuto l’intenzione non solo di avvicinarsi, ma nemmeno di parlarle? E, cosa che la sconcertava maggiormente, cos’era stato quel senso di sollievo, quel respiro rilasciato senza essersi nemmeno accorta di averlo trattenuto quando lo aveva visto darle le spalle e scomparire. Perché, inutile continuare a negarlo, aveva avvertito la tensione scemare assieme ad una innaturale spossatezza che l’aveva pervasa, quando era stata certa che non si sarebbe avvicinato, che non l’avrebbe toccata, che non…Già: baciata. Aveva realizzato con sorpresa e perplessità di non desiderare di baciarlo, con l’istinto di ritrarsi e proteggere la bocca, il viso. Tutto. Tutto quello che avrebbe potuto di nuovo farla…Farla cosa? Perché le erano tornate in mente le minuscole e sottili cicatrici al polso? Le cicatrici: gliele aveva fatte lui, con i suoi artigli, una sera o una notte di mesi prima. Per fermarla; per impedirle di scappare da qualcosa. O forse solo per rabbia, per il rispetto che si ostinava a non mostrargli, per quella irrazionale e viscerale necessità che avvertiva di provocarlo. Non era odio o antipatia; e nemmeno attrazione. Cos’era, quel sentimento che si era formato quando lo aveva visto, quando era stata costretta a seguirlo?

 

Non era amore. E non era rabbia. Nemmeno curiosità. Forse. Forse necessità. Necessità e desiderio. Di lui; dei suoi artigli. Degli artigli e delle zanne nella pelle, dentro; nella carne. Aveva immaginato: il sibilo dell’aria e l’eco di uno strappo. Sarebbe stato come strappare qualcosa di un po’ duro e resistente. E si sarebbe accasciata a terra e …. Forse l’avrebbe azzannata alla gola; forse le avrebbe staccato la testa. Non importava: voleva solo che lo facesse. Che attaccasse. Voleva. Voleva davvero morire? O desiderava invece dimostrare a se stessa che…Che cosa? Che avrebbe potuto battere uno youkai? Era ridicolo! Una ridicola assurda arroganza che non aveva mai avuto senso di esistere. Però. Però la gola gliela offriva lo stesso, assieme a sfacciataggine e provocazione.

 

La gola.

Già: gliela aveva sempre offerta, la gola. Prima da azzannare; poi da baciare. E le zanne c’erano state, sulla sua gola. Leggere; ed erano un brivido sottile fra proibito e pericoloso. Ed erano orrore e divertimento: perché erano le stesse zanne che la sfioravano quelle che aveva scoperto, più di una volta, rosse di sangue rappreso. Dopo gli scontri; dopo le sortite. Anche durante quell’ultimo scontro le zanne di Sesshomaru erano rosse; e Alessandra aveva avvertito, nella confusione del dolore e della spossatezza, il disgusto montare assieme a qualcos’altro. Qualcosa che non aveva avuto né forza né volontà di definire. Ma che c’era ed era ancora lì, nascosto da qualche parte. E forse. Forse era solo tornato a galla e Sesshomaru l’aveva visto.

Oppure. Oppure poteva esserci un’altra spiegazione. Una stupida semplice elementare spiegazione che lei non era ancora riuscita a trovare.

 

Respirò piano e si ravvivò i capelli con la mano. Il sentiero si snodava fra felci e muschio, con il grigiore delle pietre che faceva capolino a tratti fra il fogliame marcio, reso lucido dalla poca luce che riusciva a filtrare. La sera e la frescura le scivolavano sulla pelle, assieme alla sensazione di vertigine che la coglieva ogni volta che attraversava la barriera.

La prima volta. La prima volta era stato quasi per scherzo, una passeggiata e qualche esercizio con un traguardo un po’ più lontano, la curiosità stuzzicata di scoprire cosa ci fosse, oltre la macchia di bambù, il lucore che filtrava fra i ginko. E le allusioni sospese di Ryoshi che raccontava lasciando nebbia sulle parole, lasciando i contorni indefiniti come durante un temporale.

E no, non aveva mai percepito nulla, attorno alla noka: suoni, odori, sensazioni. Tutto filtrava attraverso quella cortina molle e invisibile che, da quando era stata portata lì, l’aveva protetta e nascosta all’esterno. Era come trovarsi in una bolla opaca: un kekkai, le avevano detto. Fatto per occultare, per racchiudere e assieme permettere libertà. Perché è dall’esterno che la noka non è visibile; perché è come un ingresso: la porta verso un qualcosa che…Non glielo avevano saputo spiegare: né le bijin-samaRyoshi. O forse era stata lei a non essere in grado capire esattamente cosa significasse entrare in un qualcosa di diverso. Capiva solo una cosa: dentro e fuori. E passare la barriera significava fuori.

 

La prima volta era stato destabilizzante: un’immersione inaspettata e soffocante. E la mano di Ryoshi che diviene adulta nella sua, braccia robuste a sorreggere il suo corpo disorientato e una frescura umida e inconsueta scenderle sul viso pallido e freddo. Mentre la nausea montava, contraeva lo stomaco e si riversava in un conato che l’aveva fatta cadere all’improvviso, una mano a reggere lo stomaco e l’altra forse a proteggersi. Non ricordava bene cosa fosse successo esattamente: forse era stata solo un’impressione forse aveva realmente vomitato, mentre il sapore di caldo e sabbia secca scivolava lontano assieme alla sensazione di mille tentacoli invisibili che si staccavano con schiocchi sordi.

 

La prima volta era stata traumatica, e per del tempo non aveva più voluto superare il perimetro del giardino della noka. Engawa, albero di magnolia, engawa: lì si concentrava, ostinato, il suo mondo. Anche se la vegetazione attorno era invitante; anche se il mormorio di piccoli corsi d’acqua le arrivava a sprazzi nel vento. Dovevano esserci delle cascatelle, non molto lontano; e dei piccoli specchi d’acqua. E Ryoshi parlava e parlava e cercava di convincerla: è normale, aveva detto. Le prime volte la barriera disorienta sempre; ma non è cattiva. È protezione; è normalità. Bastava farci l’abitudine, e avrebbe imparato ad avvertire il passaggio in modo diverso: sarebbe stato come immergersi nella sabbia arroventata dal sole. E al fastidio si sarebbe sostituita una sensazione come di piacere, di ovvietà.

La prima volta era stato brutto; e anche la seconda. E la terza. E anche se, con la reiterazione dei gesti e il respiro sempre più regolare, i conati e le vertigini si erano diradati, le restava l’impressione di una violenza, di uno strappo che si veniva a creare, forse nel kekkai stesso forse in lei. E quando si voltava, nell’aria uguale e fredda rispetto al calore soffocante del passaggio, aveva a volte l’impressione di vedere labbra o bocche che sanguinavano e si contorcevano prima di richiudersi fino a creare una cortina impalpabile, che nascondeva la noka.

 

Alessandra sorrise, mentre la mano correva a cercare sostegno nel tronco più vicino. Aveva riacquistato il suo equilibrio, e ormai anche camminare le risultava di nuovo naturale e semplice. Come se il tempo trascorso fra barcollii e incertezze non fosse mai esistito. Eppure; eppure la consapevolezza scivolava nell’automatismo della mano che si tende alla ricerca di un sostegno, del braccio di Ryoshi o delle bijin-sama quando i geta incespicavano o il sentiero è di poco sconnesso.

 

Si fisso la mano: le leggere escoriazioni che la segnavano, ricordo dell’ultimo tentativo che aveva fatto di allontanarsi da sola. Non le era impedito, come aveva supposto al principio; paradossalmente, le bijin-sama avevano incoraggiato quel suo desiderio di allontanarsi dalla noka, anche senza la presenza di Ryoshi. A volte c’erano i kodama, ma più spesso ne avvertiva solo la presenza nel respiro degli alberi attorno a sé. Non avrebbe saputo spiegarlo; era diventata naturale la sensazione sulla pelle: i gesti seguiti da mille piccoli occhi cavi senza espressione che sembravano ridere nel loro suono di nacchere d’osso ad ogni passo che aveva imparato (ricordato). Nessuno aveva mai tentato di fermarla né di dissuaderla. E con il tempo aveva preso l’abitudine, alla sera, nella luce morente, di superare la barriera e aggirarsi lungo i sentieri. Senza meta e preoccupazione di strada e tempo: un piede avanti all’altro, fino ad una pietra o ad una delle cascatelle che si insinuavano fra le rocce e il muschio. A volte erano davvero pochi passi, e il tempo scorreva nel gioco di luci del crepuscolo, finchè lo shinobue echeggiava e Ryoshi le compariva accanto e con lui rientrava alla noka.

 

La sensazione di umido sulla pelle nuda le provocò assieme repulsione e piacere. Raccolse i geta e riprese a seguire la curva del sentiero che saliva appena lungo il pendio, nella boscaglia di betulle e aceri. Era una piccola follia, si ripeteva. Uno sciocco capriccio che poteva concedersi, anche senza Ryoshi. Non c’era nulla di male, in definitiva: voleva solo vedere di nuovo il pesce nella pietra. Avvertire l’acqua tiepida scivolarle fra le mani e la sensazione di tranquillità e protezione che aveva avvertito la prima volta, quando Ryoshi le aveva bendato gli occhi e guidata. Ricordava. Ricordava la sensazione di scivoloso fra le mani, assieme all’acqua che scorre: toccare Ryoshi era sempre difficile. Aveva paura che evaporasse o si frantumasse in mille piccole goccioline. Eppure. Eppure le sue mani incontravano carne, consistenza; avvertivano un pulsare irreale eppure rassicurante. All’inizio non aveva capito esattamente: non aveva compreso cosa intendesse Ryoshi quando le aveva detto sono un mizuchi; e nemmeno il mostrarle le mille possibilità della sua essenza aveva contribuito. Ma quel giorno, mentre lo seguiva senza vedere, con nell’aria odore di umido acqua e musica intuì qualcosa che non avrebbe mai potuto spiegare a parole. E Ryoshi non era più Ryoshi ma ogni atomo che la circondava, ogni goccia che avvertiva bagnarle il kimono, scorrerle sulla pelle, dentro la pelle. Avvolgerla e prenderla come l’onda del mare; stringere e circondare per poi lasciar andare quasi all’improvviso, assieme a un rombo che sembra un urlo o una risata troppo alta.

 

E Ryoshi l’aveva lasciata andare; e la pietra squadrata e piatta si distendeva sotto il pelo sottile dell’acqua, fra il fumo che sapeva di minerali. Una normale pietra, liscia per il lungo scorrere dell’acqua sulla sua superficie, ma c’era quel debole chiarore che si confondeva con i riflessi del sole e il vapore. E la mano aveva tremato mentre Ryoshi la guidava prima a sfiorare la superficie dell’acqua in una carezza timida che diventava via via più intensa, seguendo le increspature e le minuscole imperfezioni che si avvertivano. Mentre Ryoshi la osservava disteso sulla superficie dell’acqua come su un tatami nero e fumoso; mentre allungava un dito e penetrava la roccia come non fosse esistita e la luminescenza indefinita diveniva luce e i riflessi rivelavano le squame iridescenti di una carpa che si avvolgeva attorno alla mano forse conosciuta, di certo non nemica. Alessandra ricordava il dispiacere e la frustrazione per poter solo guardare, la pietra sotto le mani che rimbomba sorda e resiste alla pressione; la carpa guizzare e mutare i propri colori dall’oro al rosso al blu e poi al nero, prima di discendere verso il fondo e risalire. Sembrava potesse fuggire da un momento all’altro, tanto la pietra si faceva trasparente e cristallina, come uno specchio in fondo ad un pozzo.

Ryoshi le aveva detto che era un kosokosoiwa, uno spirito dell’acqua come lui. E che era un dono per lei, per quello che in quei mesi era riuscita a conquistare: qualcosa che sarebbe stato suo per sempre senza poterlo possedere mai veramente. Ma suo. Suo.

L’aveva riaccompagnata a casa molto tardi, quel giorno. E prima di andarsene le aveva detto: ricorda: è tuo, anche se non lo puoi toccare.

 

E adesso la pietra riaffiorava dal vapore, con l’eco lontano di un colpo ritmico a confondersi con il fruscio della cascatella fra le felci. Sarebbe stato così semplice: stendersi sull’erba umida e allungare la mano nel vapore, ricercando un po’ con la memoria un po’ con l’istinto il punto da cui partire. Ecco: la piccola fossetta, a lato del bordo. Un poco più in alto, adesso; il centro. E adesso sfiorare l’acqua tiepida e ridiscendere in una carezza lungo i bordi arrotondati e lisci. Prima con l’indice, così: lentamente. Aprire il palmo, un dito alla volta, ascoltando la sensazione di formicolio della corrente leggera sulla pelle. Aspettare: bisogna aspettare. Il palmo aperto e sospeso; ancora. Ci vuole ancora un po’, o è già trascorso troppo tempo? No: Ryoshi le ha detto pazienza. Non può esser veloce, o la carpa si spaventa e non si mostra. No. Con calma. Va bene: prova. Piega un po’ il polso, così; ancora un po’. E adesso; adesso devi seguire cerchi come increspature; piccoli centri concentrici che si fanno via via più grandi. Così, con calma. Non bisogna avere fretta; mai fretta. Anche se la terra è pesante e fastidiosa, contro lo stomaco; anche se i vapori ti investono il viso in una cortina umida che si appiccica alla pelle e rende lucidi e scomposti i capelli.

 

Potrebbe. Sì: potrebbe sollevare il kimono e legarlo all’obi. Appena sopra il ginocchio e poi lasciarsi scivolare in acqua: c’è un base rocciosa poco profonda, vicino alla pietra, l’ha vista; e poi la polla discende velocemente. Ma quel bordo c’è, e basta fare un po’ di attenzione per non scivolare. Ecco: i lembi raccolti e annodati in vita, fermati dal sageo. E il calore intenso risalire sulla pelle con uno sbuffo di vapore, mentre scende in acqua e allunga le mani sulla superficie del kosokosoiwa. E i movimenti si rilassano, si adeguano allo scroscio dell’acqua e all’eco di quel tonfo: toc toc toc. Ecco: la luminescenza si intensifica, avvolge il polso e risale assieme all’umidità e all’acqua. È un fremito caldo, come una garza bagnata d’acqua calda. E la pietra: la pietra sta scolorando: al centro, sotto le mani che continuano a carezzare, come un foro che si va allargando, centimetro per centimetro, mentre il corpo flessuoso della carpa assume spessore e consistenza, si riesce a definire in modo sempre più preciso. É…è bianca. Bianca screziata di azzurro. E vuol dire…vuol dire…Alessandra sorrise, le spalle in un sussulto divertito: non lo ricorda. Forse Ryoshi non gliel’ha detto; o forse non lo ascoltava e basta. Troppo interessata ai riflessi e ai guizzi che alle parole.

 

Pluch.

Guizzi. L’altra volta c’era stato l’eco di un guizzo, prima. E la carpa si era mostrata arrotolata su se stessa, in movimento. Ma adesso. Adesso la carpa non sta nuotando. Resta così: ferma sotto le sue mani. E la guarda. Guarda attraverso la pietra lucida come cristallo; mentre l’acqua. L’acqua si è come alzata e abbassata in un onda. Un onda o un movimento. Pluch. L’acqua non fa pluch L’acqua fa…Fa…Qualsiasi cosa faccia, non fa pluch. Non in una pozza d’acqua; non a ridosso di uno zampillo e nel mormorio sottile di piccole onde. Onde. Non ci sono onde, in una pozza. Non ci sono onde in una piccola pozza immobile, avvolta nel vapore.

Non. Ci. Sono. Onde.

 

Eppure. Eppure l’acqua sta tremando, e c’è quel rumore. Lo scroscio dell’acqua che si tuffa; dall’alto, da molto in alto e senza pietra o roccia ad accompagnarla. Come quando rovesci una bacinella nel secchio: e l’eco è un gorgoglio cupo e uno scroscio sordo. Molto sordo.

Forse. Forse è una scimmia. Sì: una scimmia. Ryoshi dovrebbe avergliene accennato, se non ricorda male. Ci sono alcune scimmie, su quelle montagne. E quando l’aria si fa più fredda e l’autunno inizia a declinare, alla sera, non è inusitato scorgere il loro muso rosso acceso far capolino fra i vapori di una sorgente termale. Non fanno niente, le aveva detto; basta non stuzzicarle o cercare di scacciarle. Si può condividere la stessa sorgente senza preoccupazioni.

Ecco: certo. Si tratta di una scimmia, forse due. E l’acqua che cade. L’acqua che cade è solo acqua sollevata e gettata. È solo impressione. Va bene. Va tutto bene.

Adesso. Adesso basta voltarsi, e vedrà due occhi curioso che la fissano fra il fumo. Potrebbe. Potrebbe prendere un bel respiro; e non deve urlare. Perché, in fondo? Sono solo scimmie. Non c’è nulla di strano; nulla di preoccupante. La koi non si sarebbe mostrata, altrimenti, giusto? La koi non si mostra, se ha paura. Ma è lì, sotto la sua mano. Ferma.

Ferma. No: assurdo. È ferma perché la vuole guardare. Perché è curiosa. O forse ha sbagliato qualcosa, nei suoi gesti. E la koi ha percepito il diverso, il movimento preoccupato del suo corpo; è abituata a Ryoshi, la koi, non al suo richiamo. È abituata alla mano che scende a carezzarla.

Va bene. Non c’è nulla: anche l’acqua è ferma adesso. Non era niente. Assolutamente niente.

Basta voltarsi e c’è solo vapore. Solo vapore. Vapore.

Bianco.

 

Bianco.

C’è solo bianco. E poi. Poi. Quell’ombra; quell’ombra più scura che si condensa nel vapore, mentre l’acqua ha ripreso a sciabordare e Alessandra la sente risalire fino al ginocchio e ritrarsi. E la pietra. La pietra è all’improvviso scivolosa, troppo scivolosa, e i geta lontani, mentre la mano scorre sulla stoffa in un gesto automatico e si nasconde nel nodo dell’obi. Il tanto. Deve allentare la chiusura di sicurezza e stringere l’impugnatura; si estrae facilmente: una piccola torsione del polso ed è fatta. Ecco: dovrebbe…Dovrebbe essere nel terzo risvolto; lo mette sempre nel terzo risvolto. Abbastanza imbottito da non essere notato; abbastanza agevole da non essere frenato nell’estrazione. Lo ha sempre messo lì, prima di uscire. Il palazzo non è sicuro; il palazzo è pericolo, per lei. Il palazzo.

 

Già: il palazzo. Il palazzo è altrove. E lo è anche lei.

Da quando non si preoccupa più di infilare il tanto nell’obi? Da quando la sensazione di guardia si è affievolita fino a scomparire del tutto? Da quando avverte solo protezione? Alessandra prese un respiro a metà fra un singhiozzo e un colpo di tosse: pericolo. C’era qualcosa, in quell’ombra che si condensava sempre più che le faceva ripetere, urlare, nella testa: pericolo.

E quella sensazione sgradevole divenne crampo e vertigine e desiderio. Desiderio di scappare, di allontanare, di fuggire; desiderio di restare, di capire, di ritornare indietro mescolati all’adrenalina e a un senso di colpa e di repulsione. Illogico. Perché non aveva motivo di esistere; perché non aveva nulla di cui….vergognarsi? Giusto? Mentre sentiva i muscoli tendersi fino a far male; mentre l’eco dell’acqua e di colpi invisibili si rincorrevano e diventavano gong giganteschi che la frastornavano, assieme al calore che saliva in volute di vapore, attorno a lei, dentro di lei. Mentre Sesshomaru le sfiorava la pelle umida con la bocca e scendeva lungo la gola, fino alla base del collo per poi risalire, la lingua che seguiva la scia di minuscole goccioline. Ancora più su, al lobo dell’orecchio stretto fra i denti, morso e rilasciato.

 

L’acqua tiepida era quasi un’offesa attraverso la stoffa, attorno alla testa. E Alessandra avvertì i suoni attenuarsi come attraverso un filtro, mentre l’acqua le lambiva le tempie e le scorreva sotto la schiena, nella schiena, nelle pieghe del kimono che si gonfiava d’aria e d’acqua, allargandosi più di quanto avrebbe dovuto. Realizzò in un gemito di aver perso l’appiglio e che adesso i suoi piedi, le sue gambe, galleggiavano oltre il bordo del kosokosoiwa; e che era sdraiata. Sdraiata su una pietra liscia e calda, mentre un uomo, uno youkai…Mentre Sesshomaru.

Sesshomaru.

 

La mano che risaliva lungo la coscia, dentro l’acqua, dentro la stoffa. Risaliva e le premeva il fianco nella pietra, come se potesse immergervelo, mentre la seta awase iniziava a pesare e bloccare i movimenti, le contrazioni dei muscoli e del respiro. E poi. Poi c’era la bocca; da qualche parte, lungo il suo corpo. Lungo il suo corpo nudo fra il vapore, la parte alta del kimono aperta e lasciata galleggiare pigra, intrecciata ai capelli, avvolta fra braccia imprigionate e libere. La bocca di Sesshomaru. Sul corpo. Sul suo corpo. Sul suo corpo nudo. La lingua; e le mani e poi di nuovo le labbra. La fronte premuta sull’addome, mentre le mani risalivano di nuovo i fianchi, li stringevano, li abbracciavano. E il corpo la chiudeva, scendeva su di lei e si allontanava per concentrarsi su altro, per stuzzicare, esplorare, sfiorare altro. I seni nudi; e un male simile ad un pizzicorio continuo che va intensificandosi, fino a diventare una piccola morsa. Per l’aria, certo. Per l’aria fredda sulla sua pelle calda, sulla pelle bagnata di vapore e sudore. O forse era…Era…La pressione delle zanne appena sotto la clavicola, la pelle che freme stretta e morsicchiata. E poi di nuovo. Di nuovo la vertigine che l’avvolge, assieme alla nausea e alla voglia di scappare, di andarsene. E Sesshomaru stringe i polsi, li solleva e li accarezza. Stringe, bacia, morde. Ed è nudo sopra di lei; e la stoffa è un ricordo che si apre attorno ai loro corpi. E il vapore è respiro e affanno e labbra gonfie e lucide e acqua che si condensa sul corpo, in pizzicorii che si confondono con gesti, che invitano ai gesti, a continuare, a scoprire. Ad andare oltre.

 

Sesshomaru si costrinse a restare immobile, la fronte contro i seni di Alessandra e le braccia strette ai suoi fianchi. Si costrinse ad accettare il fremito che avvertiva nel corpo sotto di sé, i brividi e gli spasimi che si succedevano sempre più intensi, mentre il respiro diventava singhiozzo. Non reagiva realmente; non lo allontanava, non urlava, non si dibatteva. Restava semplicemente inerme. Era rimasta inerme mentre la toccava, mentre la spogliava; non si era difesa, ma lo aveva guardato. E Sesshomaru si era accorto che Alessandra andava oltre il suo viso, oltre il suo corpo; si era accorto che fissava lui come avrebbe fissato il vuoto e i riccioli di vapore. Lo aveva guardato mentre arretrava fino a restare imprigionata fra il kosokosoiwa e il suo corpo; lo aveva guardato quando l’aveva costretta a sedersi e le aveva fatto inarcare la schiena fino a farla sdraiare. E poi. Poi aveva continuato a tenere gli occhi aperti, senza un’espressione soddisfacente.

 

Sesshomaru aveva imparato con il tempo che i ningen mostrano la loro emozionalità nel volto, nel corpo, nella voce. Aveva intuito la contraddizione di certi atteggiamenti, la pericolosità dell’ira che esplode senza preavviso, l’egoismo che si nasconde sotto atteggiamenti ambigui e troppo complessi da discernere velocemente. Aveva conosciuto l’odore della preda prima che morisse; l’eccitazione di un guerriero alla prospettiva di uno scontro; la lascivia e l’orgoglio che traspariva dalle yasha che lo volevano. E sapeva che le sue stesse emozioni, per quanto abituato a dominarle, potevano sfuggire al suo controllo e concretizzarsi in un fremito anche appena percettibile, nel movimento involontario degli occhi che si stringono, nella flessione inconscia degli artigli o nel ringhio che sentiva premere in gola. Ma le espressioni dei ningen gli erano sempre risultate arcane e insignificanti, patetiche, in balia di contorti processi che non si era mai preoccupato di considerare.

 

Eppure.

Eppure quello che Alessandra provasse lo aveva capito fin da quando l’aveva vista fra l’oro dei ginko, fin da quando aveva deciso che un passo nella sua direzione, quella sera, era pericolo. Di qualcosa che non aveva nome, ma pericolo. E l’aveva riavvertito violento invaderlo di nuovo quando le si era avvicinato, l’acqua che sciabordava al suo passaggio e al vapore mescolarsi un odore che aveva imparato a distinguere da subito: paura. L’aveva percepito chiaro, mentre gli scendeva nei polmoni, e aveva deciso di ignorarlo. Aveva deciso di continuare a camminare, di abbracciare il corpo che emergeva dal vapore, che scivolava e si concretizzava in pelle e tentazione fra la stoffa pesante del kimono.

 

Era stato diverso.

Diverso da quella volta che si era concesso a quella yasha; diverso il fremito che aveva percepito e che continuava. E aveva deciso: andare avanti. Per poter zittire una sensazione, un istinto che aveva iniziato a prendere forma nella sua mente quando aveva colto lo sgomento negli occhi di Alessandra al suo emergere dal vapore. Non lo aveva mai guardato così, nemmeno mentre le stringeva la gola fra gli artigli. Non lo aveva mai guardato in quel modo, con la pupilla dilatata simile alla follia e un luccichio che, testardo, aveva attribuito solo all’umidità della polla. Non lo aveva mai guardato in quel modo, e Sesshomaru realizzò in un singulto che non lo stava realmente guardando, che aveva smesso di guardare lui, di sentire il suo respiro e il suo corpo nel momento stesso in cui l’aveva toccata. E le mani che l’avevano accarezzata erano state altre mani, e altre bocche e lingue e respiri. Anche se gli accarezzava il viso, anche se gli aveva stretto il viso fra le mani e lo stava ripercorrendo nei suoi contorni. Come se toccarlo potesse cambiare qualcosa, ormai.

 

Le labbra che si muovevano rincorrendo un nome che diventava un singhiozzo muto; e quel tremore continuo che non si placava, che veniva da dentro e faceva male e nausea e disgusto. Alessandra ripercorse il profilo di Sesshomaru, infilò le dita nei capelli lucidi e bagnati, e si chiese perché. Perché, benché lo avesse lì, benché si fosse lasciata spogliare e no, non ne fosse pentita, non provasse vergogna, l’unica parola che le risuonava nella mente era: scappa. Perché il volto di Sesshomaru le fosse così estraneo, così distante. Perché tremasse e desiderasse che se ne andasse, come aveva desiderato che la smettesse di toccarla, di spogliarla, di amarla, e assieme avvertiva l’orrore al pensiero di quel corpo che si allontanava, il disorientamento di esser lasciata su quel sasso, nuda e sola come un oggetto senza valore, come il kimono che si allargava nell’acqua.

 

Si accorse delle lacrime e dei singhiozzi, del respiro irregolare e della bocca impastata di pianto solo quando avvertì artigli sfiorarle il viso e Sesshomaru fissarla con un misto di consapevolezza e…cos’era? Dolore? Sorpresa? O forse era accettazione. Di un qualcosa che non riusciva a capire e che, sentiva, poteva solo spaventarla. Il corpo di Sesshomaru scivolare sul suo, riprendendo posizione eretta; assecondarlo mentre la riportava seduta, l’acqua a lambirle la vita e il petto offerto all’aria e al vapore. E al suo sguardo. E Sesshomaru la guardò, percorse la linea del collo, scese fra i seni stringendo le mani, nel buio dell’acqua, per frenare il desiderio di toccarla ancora, di ignorare quello che, chiaro, palese, vedeva nelle membra frementi e negli occhi dilatati, nella scia silenziosa di lacrime che Alessandra non riusciva ancora a realizzare di star versando.

Si soffermò sul ventre e sui fianchi ancora un po’ magri, sbirciò i polsi sottili e ricordò per distrazione com’erano prima, flessuosi ma con i nervi e le ossa che scomparivano nella carne. Intuì a memoria le cicatrici che le segnavano un polso e si soffermò sulle labbra socchiuse. Quando la baciava, era solito trattenere fra i denti il labbro inferiore, quasi compiacendosi del sorriso che percepiva. Stringere e mordere prima di rilasciare, per sfiorarlo subito con un dito e scoprirlo tumido e caldo.

La guardò.

E realizzò di volerla vedere ancora così, scarmigliata, con i capelli che gocciolavano sul corpo e la pelle completamente offerta. Realizzò di volerla, e che sarebbe bastato un gesto, un movimento irrisorio per lui, e l’avrebbe avuto di nuovo sotto di sé, l’avrebbe avuto davvero. E Alessandra. Alessandra non si sarebbe opposta. Lo realizzò con un moto che potè associare solo al terrore pur nella calma totale che lo stava pervadendo, pur nell’insensatezza di quella sensazione. Ma il terrore di uno youkai è così diverso da quello che ha scorto infinite volte negli occhi dei ningen al semplice sentore della sua presenza. Il terrore di uno youkai è molto più profondo, e si allarga a tutto il suo essere; è la sensazione di qualcosa di cambiato, di un elemento stabile che rovina e trascina con sé. Non getta del panico, il terrore di uno youkai. Ma fa male.

 

Sesshomaru era terrorizzato.

E Alessandra davanti a lui non smetteva quel pianto silenzioso che sembrava una preghiera, mentre le labbra mormoravano senza voce forse un nome forse una nenia o una preghiera. Era come nel delirio: cosciente di quello che stava succedendo, e assieme incapace di realizzarlo. E Sesshomaru era Sesshomaru ed era altri youkai; e le sue mani erano state mani estranee e bramose e la bocca e le labbra, la lingua il corpo. Tutto. Tutto era Sesshomaru ed era altro. Erano quei demoni. E non capiva perché; si ripeteva che non c’era un perché.

Sesshomaru era lì, e non la costringeva. Sesshomaru era lì, e Alessandra sentiva il suo desiderio e la volontà che lottava per frenarlo, il controllo che imponeva a se stesso. Non si chiese il perché; l’unica cosa che sapeva era che non aveva senso. Perché Sesshomaru era Sesshomaru; e gli youkai erano altri youkai.

Eppure.

Eppure il suo corpo tremava e urlava e piangeva e rifiutava. Rifiutava lui.

 

“Hai paura.

Di me.”

 

Non gli fece male.

Non lo spaventò come si era immaginato fino a pochi istanti prima, con quel groviglio di tensione e desiderio che gli premeva nel ventre. Non gli fece niente: come una qualsiasi altra frase gettata per caso nel silenzio; come se fosse stato solo silenzio. Sesshomaru si riscoprì calmo e cosciente di se stesso, e accettò con indifferenza il disorientamento che vide chiaro in Alessandra: il labbro tremare lucido, incrinarsi e sparire in bocca, stretto fra i denti in un tentativo infantile e sciocco di controllarsi, di non piangere; mani sollevate a tremare convulsamente, scivolare lungo il corpo e stringersi al petto, nascondendo una nudità di cui, adesso, Alessandra provava solo vergogna e disgusto. Contrasse la mascella e gli sembrò di sentirlo, il lacerarsi della carne del braccio, del seno, lì dove Alessandra premeva le unghie per farsi male, deliberatamente male, e non sentire quelle parole echeggiare e ripetersi nella sua testa.

 

Paura.

Paura; paura; paura. Di lui. Di lui. Paura. Di. Lui.

No. Non era vero. Non poteva essere vero; non doveva essere vero. Lui; Sesshomaru. Lei. Lei non aveva paura. Perché avrebbe dovuto aver paura? Non le aveva mai fatto nulla; nulla. Aveva cercato di proteggerla; aveva cercato di aiutarla. Aveva. Aveva davvero? O erano state le circostanze, gli eventi costruitisi in un modo quasi ironico a creare tutto? Va bene; poteva. Poteva essere tutto. Ma la paura. La paura no.

Perché? Perché aver paura di lui? Di lui che la desidera, anche in quel momento, e si limita a guardarla. Perché doveva aver paura di Sesshomaru, della sua mano che scivolava lenta sulla superficie dell’acqua e si stringeva sulla stoffa del kimono. Alessandra seguì ipnotizzata la stoffa che veniva risollevata, l’invito silenzioso a lasciarsi rivestire, senza mai sfiorarla. Il date-eri risistemato e il kimono stretto nei lembi a celare nuovamente, a conservare. Avrebbe. Avrebbe potuto strappare il kimono; avrebbe potuto godere di lei quando avesse desiderato; avrebbe potuto averla solo pochi attimi prima.

 

Prima.

Già: prima. Prima la stava amando. Prima Sesshomaru era sopra di lei, e la stava amando. E l’unica cosa che riusciva a ricordare nitidamente era il desiderio di andarsene, di scappare. Inghiottì a vuoto. Paura. Era davvero paura? Non poteva essere sorpresa? Trepidazione? Sarebbe stata…Sarebbe stata la prima volta. Sarebbe stato normale, in fondo. E invece. Invece no. Lo sapeva; lo sapeva senza capire come o perché: non era di quella paura che Sesshomaru parlava. Non era quella l’ansia e la trepidazione che sarebbero stati naturali. Era qualcos’altro; qualcosa di diverso. Qualcosa di semplice e devastante. E Sesshomaru l’aveva capito e lo conosceva. Avrebbe potuto chiedergli perché? Avrebbe potuto pretendere che le spiegasse il ragionamento della sua mente? Perché aver paura di lui? Perché?

 

“Perché?”

 

Sesshomaru socchiuse le labbra, sfiorò con le zanne con la lingua, in un gesto distratto, e richiuse la bocca. Alessandra lo guardava fra i capelli spettinati e la mano aperta sul viso. Sì: aveva paura. Paura di lui; di sentirsi dire esattamente cosa temesse; paura di ricordare cosa avesse scatenato tutto. Paura di rivedere quella violenza senza filtri, nella sua disarmante brutalità. E scoprire che davvero non c’era molta differenza fra gli youkai e lui stesso. Sesshomaru si lisciò le labbra; il vapore gli sembrava una sensazione sgradevole di appiccicoso sulla pelle e desiderò un lago freddo e le sue acque profonde. Desiderò non aver mai preso l’abitudine di lavarsi ogni sera in quella polla; desiderò di non essersi lasciato trascinare dalla parte più atavica del suo istinto quando si era accorto della presenza di Alessandra a pochi metri da lui. Desiderò.

Desiderò averla di nuovo fra le braccia; baciarla e amarla davvero, appieno. Guardarla in viso e vedere che era a lui che pensava, era lui che guardava. Guardarla e sapere che vedeva lui e non altri demoni, altro desiderio, altra violenza.

 

Perché.

Che domanda sciocca. Così sciocca che, in un'altra situazione, se ne sarebbe sentito offeso. Perché: perché era uno youkai. Solo per quello. E lo erano anche i demoni che le avevano usato violenza. Era solo per quello: per un parallelismo che Alessandra doveva aver realizzato solo in quel drammatico frangente. C’era stato qualcosa. Qualcosa che le aveva fatto intuire più di quanto avesse capito fino a quel momento. Sesshomaru era consapevole di non poter discernere cosa fosse; ed era altrettanto certo che nemmeno Alessandra avrebbe mai potuto metterlo a fuoco.

Forse era semplicemente la differenza naturale fra loro;oppure un qualche modo di percepire, di vivere. La razionalità, o le reazioni. Socchiuse gli occhi: era inutile cercare di capirlo. Era successo, e non si poteva cambiare. Alessandra, a prescindere dalla causa scatenante, aveva imparato ad aver paura di lui. E adesso l’avrebbe avuta sempre.

Però. Però poteva dirglielo? Poteva recidere di netto i mesi trascorsi assieme, fra incomprensioni e complicità? Poteva lasciarla da sola, dopo quelle parole? Non la capiva; non avrebbe mai potuto capire quello che provava, il modo che aveva di ragionare, di reagire. Per quanto si sforzasse, l’intuizione che aveva della sfera connessa ai ningen era limitata dalla sua stessa natura di youkai. E per quanto potessero essere simili le reazioni, la presa stessa che esercitavano sul singolo era diverse; come era diverso il modo di reagire.

No. Non l’avrebbe mai capita; e forse era stata presunzione da parte sua il pensiero di poterla in qualche modo aiutare, se mai il tenerla con lui fosse stato mosso da quell’intento. Però. Però c’era una cosa, che come youkai non sapeva fare: mentire.

 

“Perché sono uno youkai.

E lo erano anche quelli

 

Quelli.

Sesshomaru li chiamò solo quelli. E Alessandra sentì il respiro premere in gola per diventare pianto isterico, mentre volti che erano ghigni riaffioravano dalla mente assieme a lingue, mani, bocche, parole, sensazioni. Gli incubi; l’agitazione; il rifiuto. Tutto. Tutto dovuto a quelli. A quegli youkai che l’avevano…l’avevano…Strinse gli occhi; e il diniego di Sesshomaru al suo pigolio non fu né sollievo né soddisfazione. Perché in fondo. In fondo non cambiava nulla. E adesso. Adesso Sesshomaru era youkai. Senza un motivo logico; senza che capisse il perché. Ma era accaduto. E quelli e lui erano diventati la stessa cosa. Erano…erano davvero la stessa cosa?

 

Alessandra scosse la testa, i singhiozzi forti fra il vapore. Era ridicola, patetica, infantile. Ma non le importava. Non voleva nulla che non fosse piangere e ripetere: no. Perché non poteva essere; perché li rivedeva, i volti lascivi di quei demoni. Li ricordava uno ad uno, abbruttiti dal desiderio e da un qualcosa che non aveva nome per lei. Li vedeva; li riconosceva. E Sesshomaru non c’era. Non c’era nulla di Sesshomaru in quelle ombre, in quelle zanne, in quegli artigli. C’era solo quella parola: youkai. Ma cosa vuol dire, in fondo, youkai? Non importava. Non aveva nessuna importanza. Sesshomaru era Sesshomaru. E basta.

Basta.

Non poteva aver paura di lui; non c’era motivo che avesse paura di lui.

 

Il grido che avvertì le fece male, assieme alla rassegnata consapevolezza sul viso di Sesshomaru. E con orrore realizzò la sua bocca ancora aperta nel rilasciare aria; realizzò la lontananza che aveva creato fra loro, il corpo raccolto a proteggersi e le braccia raccolte sul viso. E riavvertì il corpo di Sesshomaru accostarsi al suo che dondolava e ripeteva come una nenia quel no. Le mani avvicinarsi per sfiorarla e il senso di terrore invaderla e farla gridare, dandole la forza, nella confusione, di allontanarsi, di scappare. Come si scappa da…Alessandra cercò di inghiottire: come si scappa da un pericolo.

 

Sesshomaru rilassò le braccia lungo i fianchi.

Forse ci aveva sperato. Aveva sperato che si sarebbe rifugiata contro di lui; che avrebbe pianto stretta a lui. Sarebbe andata bene anche se fosse rimasta rigida e immobile nelle sue braccia; sarebbe andato bene lo stesso. E invece era scappata, senza nemmeno dargli il tempo di toccarla realmente, senza nemmeno farlo di nuovo avvicinare. Prima. Prima era stata la sorpresa; prima era stata la disattenzione e il rilassamento. Altrimenti. Altrimenti non sarebbe mai riuscito a farla stendere docile su quella pietra. E forse. Forse sarebbe stato meglio. Forse sarebbe stato meglio che se ne fosse andato; e le avesse lasciato il tempo di realizzare. Sospirò: no. Quella era una certezza: anche se faceva male, quella situazione era l’unica possibile. L’unica che potesse spezzare quella sospensione che aveva imprigionato entrambi, da quando Sesshomaru si era rimostrato a lei fra i ginko. L’aveva creata lui quella situazione, e lui aveva dovuto infrangerla. Ed era pronto a sostenerne il peso. Mentre Alessandra.

Alessandra avrebbe avuto Ryoshi, lo realizzò in quel momento. E realizzò anche perché avesse scelto proprio quel luogo, per la convalescenza. Quel qualcosa che gli era balenato nella mente e non era riuscito ad afferrare, una consapevolezza esplosa all’improvviso, in quel momento: per quello. Aveva scelto quel luogo solo perché c’era Ryoshi. E Alessandra aveva bisogno di Ryoshi. Le avrebbe dato quell’aiuto che, Sesshomaru lo accettò con rabbia e frustrazione, lui non avrebbe mai potuto darle.

 

“Hai paura. Di me.

Devi accettarlo”

 

E anch’io.

 

 

 

*****

 

 

 

“È sbagliato…?”

 

La mano si fermò sulle labbra, e Alessandra avvertì il respiro freddo sulla pelle del collo, in un soffio un po’ sorriso un po’ sospiro. La ragnatela era ancora lassù, all’incrocio delle travi del soffitto; la vedeva chiaramente, anche se tutto era notte e luce soffusa e bianca. Poteva vederla lo stesso, con i fili sottili che si tendevano e mandavano quel riverbero iridescente quando il sole li colpiva quasi per sbaglio. Non l’aveva tolta; e si era scoperta a cercarla ogni mattina, come si cerca una presenza certa e rassicurante. Quella ragnatela; la seta che la componeva. Non c’entrava nulla; in quel momento non significava nulla. Ma la cercava; come la cercava in un gesto automatico quando si alzava e quando si coricava. Forse era solo per distrarsi; per non pesare alla risposta che, in fondo, aspettava.

 

Non era nemmeno riuscita a concludere la frase. Il respiro si era assottigliato in uno sbuffo e le parole erano scivolate senza suono, in un’apnea che si fondeva con un piacere strano e pericoloso. Maledettamente pericoloso, mentre sentiva la testa invitava a reclinarsi e mostrare la gola, scoprire la zona sensibile della nuca. Concludere la frase. Per dire cosa? Paura? È davvero sbagliato provare paura? Di lui? No. Forse non è questione di giusto o sbagliato. Forse semplicemente ha paura che quella distanza che c’è sempre stata e adesso avverte incombere, densa e pesante come nebbia, come inchiostro che cola; quella distanza diventi qualcos’altro; diventi lontananza, solitudine, impossibilità. Diventi addio. E la paura di lui sia paura di perdere lui. Paura di dover accettare qualcosa che non si può capire, che non si può realmente comprendere e assorbire. C’erano i compromessi, prima; c’erano le illusioni, le stupide fantasie di quella ragazzina, disarmata e alle prime armi con qualcosa che non conosceva bene e vagheggiava in considerazioni e favole. Era iniziato come un gioco all’amore, ed era diventato qualcosa di più. E in quel più i compromessi facili e l’ottimismo illusorio della semplificazione, dell’appaiamento senza ferite e senza rinunce si era sgretolato irrimediabilmente.

Non esistevano più i compromessi; non esisteva più il dialogo, la possibilità, sciocca stupida e infantile di cambiare se stessa, di cambiare soprattutto lui. C’era altro, adesso. C’era la consapevolezza. E la distanza era diventata abisso e il legame era un filo di seta, sottile come una ragnatela. E se chiudeva gli occhi Alessandra vedeva se stessa, su quel filo, le braccia distese nell’aria alla ricerca di un equilibrio di poco più saldo; la mani distese e il tremito e la fatica che sentiva nei muscoli, nei nervi, a mantenere la posizione, a resistere a un’oscillare forse dovuto al vento, forse solo all’altalena delle sue emozioni. Se chiudeva gli occhi; vedeva se stessa, il filo e due sponde di un abisso. E Sesshomaru.

 

Sesshomaru davanti a lei. Sesshomaru che cammina su quel confine con la naturalezza dell’abitudine; e invidiava le sue braccia rilassate contro i fianchi, invidiava la sicurezza dei suoi passi e l’indifferenza con cui si lasciava sferzare da un vento di fuliggine e ansie. E odiava il modo in cui i suoi occhi la guardavano, fra il nero delle nuvole e l’argento dei capelli. C’era. C’era scherno, nei suoi occhi? O forse era compassione? E sentiva la bocca farsi secca e pesante; sentiva il desiderio di fare un passo oltre il filo e giù. Lasciarsi andare e smetterla, con quella snervante sospensione, con quel dondolio che ti preme e ti preme e ti lascia con quella nausea e quel fastidio alla bocca dello stomaco e la sicurezza, dilaniante, che puoi solo respirare per un istante, prima che tutto ricominci, si ripeta uguale a se stesso. Cosa c’era, negli occhi di Sesshomaru, nella sue mente, nelle sue aspettative? Cosa voleva davvero?

Socchiuse gli occhi, mente l’artiglio le premeva leggermente sul labbro, lì, al centro. Spingeva lentamente verso il basso e poi di nuovo verso l’interno, verso i denti che sfiorava appena per ritrarsi subito. L’artiglio; e il respiro sulla nuca. Non c’era altro; non avvertiva altro. Le mani. Dov’erano le mani di Sesshomaru? E le sue? E...Era ancora seduta? O era sdraiata? Non lo capiva; non le interessava capirlo. Voleva. Voleva ...Cosa voleva? La risposta? La voleva davvero, quella maledetta risposta? E dopo. Cosa sarebbe successo, dopo? Se avesse detto . Se avesse detto sì, che era sbagliato: sbagliato aver paura di lui, sbagliato averlo allontanato, sbagliato averlo amato, aver costruito quel rapporto. Se avesse detto sì, cosa sarebbe successo? Lo avrebbe fermato? O forse. Forse. In fondo, non importava cosa pensasse lui, giusto? In fondo, l’unica cosa importante era cosa decidesse lei. E per lei...Alessandra inghiottì un grumo di saliva ed eccitazione. C’era qualcosa di eccitante e sbagliato (forse) in quell’attesa, nel lento movimento della bocca di Sesshomaru sul suo collo, nella carezza ipnotica sulle labbra. C’era qualcosa che non doveva esserci; e serpeggiava sulla sua pelle, maledetto e tentatore. Inadatto; inappropriato. Desiderato.

 

Lei. Cosa pensava veramente? Cosa significava, veramente, aver paura di lui? Cosa comportava? Ci aveva pensato così tanto, in quei giorni. Dopo che Sesshomaru se ne era andato e l’aveva lasciata sola, fra il vapore e la notte che saliva, il kimono fradicio e la sensazione di uno squarcio sulla pelle, di una mancanza. E la paura e la rabbia e le lacrime mescolarsi nelle membra che tremavano e tremavano e diventavano sempre più rosse e poi bianche e livide per l’aria fredda che aveva iniziato a soffiare, cancellando il vapore e mettendo a nudo l’acqua. Solo acqua. Era rimasta...Non ricordava esattamente quanto tempo fosse rimasta lì, le gambe immerse nella pozza e il kimono offerto al vento freddo di Novembre. Non ricordava cosa esattamente avesse provato, pensato, desiderato, mentre il suo respiro diventava rantolo e singhiozzo basso e isterico. Mentre una debole luminescenza l’avvolgeva e la riportava alla noka. L’acqua bollente sulla pelle e la morbidezza del futon erano arrivati a sprazzi, come se emergessero da ricordi lontani e confusi. E quando una mano era scesa su di lei, le urla e il pianto e i gesti frenetici e inarticolati solo per andarsene, solo per sottrarsi. E la presa sgarbata sulle spalle, il corpo imprigionato sul futon da un altro corpo e la bocca. La bocca chiusa da qualcosa; qualcosa che era sbagliato, che non voleva. L’istinto reagire prima del pensiero, i denti stringere e mordere e non lasciare, non cedere fin ad avere in bocca un sapore strano, come di acqua, sale, erba e fango mescolati assieme.

 

“Calmati”

 

Il viso di Ryoshi.

Il viso adulto di Ryoshi sul suo; e il corpo di un uomo e non di un bambino a imprigionarla, a cercare di contenere quella reazione che era solo paura. Paura. Paura. Paura. Di mani lontane nella memoria; di artigli, bocche, violenza. Il viso di Ryoshi nella penombra della candela; le sbavature azzurre sulla bocca, scendere scolorite sul mento e sulla manica del kinu premuto sull’angolo del labbro. E la consapevolezza esplodere come una mareggiata, assieme a sconcerto, paura e rabbia. Assieme a un miscuglio emozionale che faceva male. E il sussurro. La voce di Ryoshi nella testa, in una cantilena sommessa e continua. Ancora e ancora. Calmati; calmati; calmati. C’era voluto tempo, prima che il respiro ritornasse regolare, prima che Ryoshi la liberasse senza paura di un gesto, di uno scatto nervoso e istintivo. C’era voluto tempo, e la testa sul petto del ragazzo, nei singhiozzi profondi e senza un vero perchè, nella confusione che non faceva che aumentare e aumentare nella testa. Nella paura. Forse. Forse la pazzia; forse l’isterismo. In quei momenti, con le braccia di Ryoshi strette strette, con la sua bocca nei capelli in una cantilena senza parole, Alessandra si era chiesta perchè non si può tornare indietro. Perchè non avesse mai avuto la sensazione di qualcosa che sta per precipitare; non per cambiarlo, solo per poter accettare il colpo, per non doverci pensare e rassegnarsi. Rassegnarsi e basta. Tornare indietro: e dire ai suoi genitori che voleva loro bene, che andava bene lo stesso se non potevano trascorrere molto tempo assieme; dire a Leone che sì, in fondo, è gelosa della sua fidanzata e che di farle da damigella al matrimonio non ne ha voglia. Dirgli che, va bene, sarà infantile, ma lo vorrebbe ancora per , vorrebbe che non cambiasse nulla; e fargli sapere che va bene lo stesso, che si lamenterà e sbufferà ma andrà bene lo stesso. Perchè lo sa che Leone le vuole bene e di lei non si dimenticherà; e che Miriam, in fondo, non è così antipatica. É solo un po’ gelosa; solo un po’.

 

Tornare indietro.

E. E cosa? Cosa cambierebbe? Perderebbe di nuovo Leone e i suoi genitori; e quei demoni ci sarebbero ancora, nella sua testa, sul suo corpo. Loro ci sarebbero, e Sesshomaru no. No. Non cambierebbe niente; non può cambiare niente. E ripeterlo e ripeterlo e volerlo e desiderarlo non serve a niente. A niente. Ma gli incubi, e la paura, e quel cancro che le sembra crescere dentro di lei, un morso alla volta nella sua carne, in un qualcosa che è dentro e le fa male e sa che non ha corpo; ma fa male lo stesso. Quel cancro. Quel male: mandarlo via. Si può mandarlo via? O forse. Forse è quello che deve essere; quello che sarà la normalità: negli incubi, nei ricordi, nella paura. Paura. Ha davvero paura? Di Sesshomaru? Era stato difficile; difficile e lungo. Ricordare e sforzarsi di piangere senza scappare. Aspettare di cogliere le similitudini, le differenze: ricordare le mani di quella notte; ricordare le mani di Sesshomaru. Le parole lascive degli youkai e i sussurri di Sesshomaru. Ricordare; confrontare; accettare. Accettare che ci sono cose che non può cambiare; realizzare artigli che sono artigli; zanne che sono zanne; e pelle e mani e gesti che sono uguali. Dannatamente uguali.

 

La paura.

Una sorpresa sottile che si irradia nel cervello, come nel realizzare che Ryoshi l’aveva baciata. Nel risentire il sapore di acqua e fango e terra del suo sangue e ricordare di avere risposto e poi morso. Ricordare. L’indifferenza di Sesshomaru attraverso le lacrime, il modo in cui la fissava, dall’engawa, mentre piangeva e si nascondeva contro Ryoshi. D’istinto. La sensazione di sbagliato, di diverso che le era passata sulla pelle quando lo aveva visto semplicemente andarsene, senza una parola, senza un gesto di gelosia, rabbia o delusione. L’aveva guardata: ed era fra le braccia di un altro demone; aveva appena baciata un altro demone e lo cercava, si aggrappava a lui come un bambino spaventato. E nei singhiozzi piano piano più bassi il fremito della consapevolezza: cercava Ryoshi e non Sesshomaru. Mentre nella sua mente lo youkai sfumava in contorni indefiniti e pericolosi, e gli occhi si tingevano di rosso e gli artigli erano ombre lunghe che si allungavano e tagliavano e facevano male e. E. E.

 

La paura.

Già: aveva paura. Paura di vederlo cambiare; paura che diventasse, che fosse, come gli youkai dei suoi incubi. Come quelli. E con la paura, si era accorta, era arrivata la tranquillità. Non la sicurezza, non la rassegnazione: solo la tranquillità. Come se tutto, adesso, potesse ritrovare un suo equilibrio, come se ogni tassello potesse riprendere il suo posto e quella sospensione che l’aveva circondata si fosse infranta. Puff! Andare avanti. Un avanti qualsiasi, ma avanti. Con la paura, con una punta di preoccupazione nel fondo della testa che era...Era strana. Poteva...era davvero possibile che avesse paura di Sesshomaru e...e non volesse scappare? Era giusto, aver paura di lui? Lo era? O sarebbe stato un altro muro, un altra barriera fra loro e la loro diversità, fra quella differenza che non è solo di razze ma, con il tempo Alessandra ne stava prendendo sempre maggior coscienza, era più complessa e profonda. Impossibile da abbattere, piegare o modificare. Forse. Forse era davvero solo accettazione. E riequilibrare tutto; giorno dopo giorno.

 

É sbagliato aver paura di Sesshomaru? No. Poteva pensare di no. Ma il pensiero non bastava; non bastava più. Aveva pensato che fosse un ragazzo; e non lo era. Aveva pensato di poterlo capire; e non poteva. Aveva pensato che ci fosse orgoglio ed istruzione dietro ad ogni suo comportamento, e non c’era, non solo. Aveva pensato. E aveva cercato di capirlo, di segmentarlo con un metro troppo lontano, un metro umano che classificava fra bene e male, giusto e sbagliato. E la paura è male e la fiducia è bene. Eppure. Eppure Alessandra aveva paura di Sesshomaru e si fidava di lui: cos’era, allora? Bene o male? Ed era davvero importante deciderlo? Era davvero essenziale?

É sbagliato aver paura di Sesshomaru?

 

“Va bene.

Sei hai paura, va bene”

 

Va bene.

Era così strano poterlo dire, poterlo sentire. Era così strano sapere che non cambiava nulla, che sarebbe rimasto uguale. Va. Bene. Aver paura va bene; è normale; è...è giusto. Sì; giusto. E Sesshomaru. Sesshomaru non si era ritratto; Sesshomaru era ancora lì, la bocca sulla nuca e le braccia strette strette alla vita. C’era. C’era. Questa volta, c’era. Qualsiasi cosa volesse dire; qualsiasi cosa significassero per lui le mani che si rincorrono, lo sfiorarsi lo stringersi forte delle dita. Avrebbe voluto vederlo; vedere il suo viso mentre sussurrava, vedere la sua espressione compassata. Che effetto gli aveva fatto, dirglielo? Aveva fatto effetto o semplicemente era stata una constatazione, una conferma che sembrava quasi una liberazione. Avrebbe voluto vederlo; senza una vera ragione. Ma la notte era nera e la luna d’autunno troppo pallida e lontana. C’erano le ombre; e il corpo di Sesshomaru. Il suo corpo, contro la schiena; le mani scivolare sullo yogi, e la bocca. Mentre. Mentre...Alessandra ansimò, fra sorpresa, piacere e vergogna.

 

Sesshomaru leccò la base della nuca. Era strano. Era tutto così strano. Non lo aveva pensato; non lo aveva pianificato. Era successo; stava succedendo e basta. E questa volta non era sicuro di volersi fermare; non era sicuro che ci fosse un giusto o sbagliato in quello che faceva. Era successo; e basta. Quando l’aveva vista fra le braccia di Ryoshi; quando aveva visto il mizuchi baciarla; quando era stato sulla sua pelle, fra i vapori dell’acqua: da quel momento qualcosa gli aveva fatto pensare che la volesse e non avrebbe mai potuto averla; averla davvero. Non l’avrebbe mai capita; non l’avrebbe mai amata come Alessandra voleva essere amata, come vuole essere amata una ningen. Non sapeva cosa volesse dire, amarla come una ningen. C’era stato qualcosa, negli occhi di Alessandra quando era nelle braccia di Ryoshi; qualcosa che lui non aveva capito: delusione o paura o forse...forse dispiacere. Per qualcosa che non aveva fatto; per qualcosa che non faceva o non mostrava. Ma cosa c’era di sbagliato, nel corpo di Ryoshi che avvolgeva Alessandra? Cosa c’era di sbagliato? Lo aveva voluto lui; era stato lui a spingerlo, a creare quella situazione. Lo sapeva: lui no; ma Ryoshi. Ryoshi avrebbe saputo calmarla, aiutarla; avrebbe saputo capirla. Mizushi e youkai sono diversi; sono molto diversi. E Alessandra aveva bisogno di...di vicinanza. Sì: vicinanza.

 

Eppure.

Eppure era tornato. Era tornato alla noka; e adesso la stringeva fra le braccia. Adesso le baciava il collo e le sfiorava le labbra, la bocca. Era stato istinto, misurato e calmo, ma istinto. Scorgerla dalle shoji lasciate aperte nel riverbero della luna che calava a occidente; scorgerla senza colori, mentre gli dava le spalle nel futon, forse appena sveglia forse ancora incapace di dormire. Scivolare sui tatami e sedersi dietro di lei; sentire il respiro trattenuto e la mano, la sua mano, risalire a sfiorare le ciocche corte e ribelli sulla nuca. Dai capelli passare al collo, sfiorare la pelle con l’attenzione che usa quando saggia il filo della katana. Taglia, aveva pensato. Può tagliare; cosa, non gli interessava. Taglia. E basta. Anche se Alessandra non è una katana; anche se Alessandra è più simile al fodero che alla katana. Eppure. Eppure era stato naturale: la bocca muoversi fra i capelli e lo scollo dello yogi, lasciandole il tempo di abituarsi, di rilassarsi. Forse aveva pensato che l’avrebbe respinto; forse si era aspettato di avvertire l’aria sulla bocca e di vederla stringere forte la stoffa e piangere. O solo fissarlo: fissarlo con gli occhi grandi ancora più aperti, mentre il respiro prima si ferma e poi accelera, sale dal petto e diventa ansimo.

 

Lo aveva immaginato. E non aveva voluto prevedere la sua risposta; non sapeva cosa avrebbe risposto. Forse si sarebbe alzato e l’avrebbe lasciata di nuovo sola, come alla fonte termale; o forse avrebbe ignorato tutto e l’avrebbe amata, anche se avesse pianto e urlato e scalciato. Forse. O forse l’avrebbe solo guardata, prima di. Prima di qualsiasi altra cosa. Non lo aveva voluto pensare. Perchè ogni pensiero poteva, era, suo; era da demone. E ogni cosa che avesse fatto non l’avrebbe comunque capita; non sarebbe riuscito a capire cosa esattamente lei volesse; cosa si aspettasse; cosa cercasse. Toccarla era stato un capriccio; era stato un gioco. Bisogno. Bisogno di farle capire qualcosa che lui per primo si era rassegnato ad accettare per il semplice fatto che esisteva. Senza cercare nomi, motivazioni, ragioni. C’era. Ed ignorarla, ormai, era inutile, completamente inutile.

 

Toccarla.

E nel corpo che si rilassa e si adegua; nel respiro che si fa basso e un po’ affrettato, sentire le parole sussurrate e sospese; sentire Alessandra cercare qualcosa che le permetta di andare avanti, di ritornare accanto a lui, qualunque cosa possa significare, qualunque cosa significhi quello che deve realizzare. É giusto avere paura di lui? Sì. Sì; è giusto. É normale. La paura è percezione: della differenza; della diversità che intercorre fra loro. Forse era quello lo sbaglio: l’assenza di paura. Come l’aveva visto, fino a quel momento? Come un ningen? Anche se lo sapeva che era youkai, non lo aveva mai realizzato davvero. Come lui non aveva mai pensato davvero alla sua natura umana. Avevano sbagliato; tutti e due. E tutto si era infranto troppo in fretta; tutto era precipitato senza che fossero preparati, senza che fossero pronti. Caduto e basta. E avevano dovuto imparare ad alzarsi. Avevano dovuto imparare che per loro non c’era un insieme, ma solo accanto. Accettare la distanza e la diversità; razionalizzare che pur nell’incomprensione potevo restare assieme, non erano costretti a rifiutarsi.

Sì; va bene.

Se Alessandra aveva paura di lui, andava bene. Perchè significava che sapeva cos’era; che sapeva chi era. Andava bene.

 

Sesshomaru strinse gli occhi. Bianca; vedere la nuca di Alessandra nel rettangolo di carne fra la cipria bianca sarebbe stato bello. Molto bello. Sarebbe stato...Lisciò le labbra. Non importava. Andava bene lo stesso. Andava bene il brivido sulla pelle, fra eccitazione e freddo, mentre faceva scivolare lo yogi sulla spalla, giù fino a scoprire la cicatrice che le deturpava la pelle. Si era rimarginata del tutto, ormai. Una striscia rosa, lunga e un po’ sporgente, con ancora l’accenno della seta che ne aveva stretto le labbra. Premette l’indice all’inizio della ferita, ripercorrendola con attenzione, concentrato. Non sarebbe andata via; una ferita del genere non sarebbe andata più via. E ancora si chiedeva perchè. Perchè Hakudoshi avesse mirato a lei; se davvero avesse mirato a lei o fosse stato solo un incidente, un ostacolo inaspettato sulla traiettoria della naginata. Perchè. Non aveva importanza chiederselo, ormai. La cicatrice sarebbe rimasta. E Alessandra avrebbe continuato a vivere.

 

Alessandra sussultò quando avvertì il ruvido della lingua di Sesshomaru ripassare sulla ferita; sentì l’aria chiudersi in gola e una sensazione di calore e vergogna e piacere invaderle il corpo, risalire fino al viso. E l’istinto di mordere e succhiare fu istante, appena le dita di Sesshomaru le sfiorarono le labbra e le scivolarono in bocca. Gli artigli. Poteva sentire gli artigli scorrere sull’interno delle guance; solleticarle la lingua e pungerla con discrezione. Ed era...era piacevole, sì. Era una sensazione bella, anche con il respiro che singhiozzava e il pensiero vago, lontano, di quello che significava davvero. Stinse le labbra e gli impedì di allontanare le dita, seguendo l’istinto, inclinando appena la testa, con la sicurezza che la bocca di Sesshomaru avesse accennato un sorriso sulla sua pelle.

 

Un sorriso. Già: non se l’era aspettato. Aveva pensato che avrebbe solo assecondato il suo movimento, e invece. Invece aveva iniziato a sedurlo anche lei, con piccole proteste, con piccoli accorgimenti senza pudore o vergogna. C’era qualcosa, in Alessandra. Qualcosa che gliela faceva percepire sicura nonostante fosse inesperta. Respirò piano, risalendo lungo il collo. Vergine. Lo sentiva chiaro: l’odore di acqua che aveva percepito fin dalla prima volta. Quell’odore che aveva creduto come un profumo ed era solo l’odore della pelle di Alessandra. Il suo odore. Aveva imparato a riconoscerlo anche mischiata al sangue, al sudore, alle lacrime. Aveva imparato a riconoscerlo e adesso lo sentiva crescere, farsi più intenso più la cercava, più la coinvolgeva. Vergine. Chissà come sarebbe cambiato dopo l’odore di Alessandra. Chissà se avrebbe avuto ancora quella sfumatura che ricorda l’acqua.

 

Sesshomaru inclinò la testa e soffiò sulla pelle leggermente accaldata. Bianca. Quasi fastidioso, adesso, quel bianco. Morse il collo all’altezza della spalla, e lasciò scivolare una mano fino ai lembi dello yogi, gustandosi il corpo che si ritraeva d’istinto prima di rilassarsi. Lo yogi; le pieghe fra la seta; la pelle. Il seno. Lasciar scivolare la manica e metterle a nudo un seno, gustandosi il singulto e una protesta debole di un corpo che preme contro il suo in una ribellione che è gioco, che è ricerca di abitudine, di...Alessandra strinse le gambe e scrollò le spalle. Era...era così strano. Vergogna, piacere, eccitazione. Era. Non lo sapeva. E non voleva pensare a cosa significasse. Sesshomaru; la sua mano; un seno. Era diverso, ecco. Diverso. Non era come quelli. Loro. Loro facevano male; loro stringevano e sentivi gli artigli nella carne e umido e disgusto e...No. Basta. Basta pensarci. Alessandra strinse gli occhi, forte. Era stupido. Assolutamente stupido mettersi a piangere. Perchè? Perchè altri l’avevano toccata? Perchè altri l’avevano vista nuda senza che lei potesse difendersi? Era passato. Era il passato. Non doveva pensarci; superare. Solo superare. Anche se...Sesshomaru. La mano di Sesshomaru. Concentrarsi. Ecco: stringe appena, gli artigli sono quasi delicati, raccolti. Ha come un suo ritmo, un sondare continuo e moderato. Dalla base del seno alla punta; fermarsi, insistere fino quasi a far male, a strappare un singulto, e poi rilasciare, tornare a una carezza più discreta.

 

Diverso.

Il seno di Alessandra è diverso. Non è piccolo e alto come quello della yasha che lo ha amato; non è liscio e freddo come quello delle demoni che gli si sono offerte. É caldo; trema e si contrare sotto gli artigli. Duro. Prima era morbido, quasi abbandonato. Adesso è duro. Carne. É carne piena; soda. É diverso. Non se ne era mai accorto; non ci aveva mai pensato. Il seno di Alessandra. Quando dormiva accanto a lui; quando la stringeva; quando l’aveva visto, sporco di sangue e sudore fra la stoffa e la frenesia del ritorno dal campo di battaglia. Quando lo aveva sentito umido di vapore alla pozza. Non ci aveva pensato. Non aveva mai veramente voluto pensarci. Il seno di Alessandra; il suo corpo. Il suo corpo umano; il suo corpo diverso. Lo stava scoprendo; lo stava percependo; lo intravvedeva nella debole luminescenza della notte, al bagliore morente delle braci. Il. Corpo. Di. Alessandra.

 

Così. Così diverso.

I seni caldi, molto caldi; assieme al tremito soffuso, forse di piacere forse per l’aria fredda della notte che entrava dall’engawa. Gli piaceva. Gli piaceva quella sensazione nuova. Afferrare carne e... e assaporarla. La mano ricercare i gangli nervosi, premere e rilassarsi mentre il respiro di Alessandra diventava ansimo, basso e roco; mentre sentiva la seta frusciare in piccoli scatti scomposti e il collo pulsare sotto le labbra. Risalì al mento, definendolo con calma, la lingua che scivolava sul contorno ovale del viso. E la mano che era passata a massaggiargli la nuca, inaspettata e piacevole come il corpo che premeva contro il suo, come la testa di Alessandra che si inclinava sempre un po’ di più, soffiandogli sotto il mento, respirando sulla sua gola. Era diverso. Con la yasha era stato diverso. Diversa la pelle sotto gli artigli; diversi il respiro e i movimenti; diverso il calore e l’eccitazione che sentiva crescere nel ventre.

 

Alessandra ripassò la lingua sulle labbra. Sete. Era stupido, ma aveva sete. Disidratata; come se non bevesse da giorni. E le labbra le sentiva screpolate e gonfie e calde. Le labbra. Avrebbe voluto baciarlo. Sì: voltare la testa e baciarlo. Non le erano bastate le dita; non le erano bastate le carezze e il solletico sulle labbra, sulla lingua, nella bocca. Avevano solo risvegliato la voglia di baciarlo, cominciando dall’angolo della bocca; scendere sul labbro inferiore e stringerlo fra i denti. Aveva imparato come Sesshomaru volesse essere baciato: con lentezza, con una calma che a tratti era esasperazione, che ti lasciava con l’impazienza e il fiato ridotto a un sibilo, mentre stringi la carne sottile e tiepida. Tumide. Avrebbe voluto vederle, sentire le labbra di Sesshomaru gonfiarsi e arrossarsi sotto le sue, nelle sue. Avrebbe voluto vederlo socchiudere la bocca e...La mano risalire sul collo, giocando con alcune ciocche sfuggite sul petto. Risalire al viso e stringergli appena il mento, deliziandosi del piccolo disorientamento che, forse, gli aveva provocato. Mentre il corpo si inclina appena di lato e la seta del kariginu sfiora i seni nudi; mentre i capelli ricadono scomposti sul viso e sulla schiena nuda e lui resta fermo, aspettando che il dito decida se risalire alle labbra o scivolare di nuovo verso la gola. Aspettare. E il pensiero diventare impudenza, mentre gli fa socchiudere le labbra e sfiora i canini, in un brivido proibito e nuovo, il respiro freddo e più profondo, quasi il tentativo disperato di un ansimo represso.

 

Sesshomaru socchiuse gli occhi. Mentre la lingua scivolava attorno al dito di Alessandra e le labbra e i denti si stringevano appena per impedirle di ritrarsi. Poteva sentire la carne; poteva sentire le ossa contro le zanne e il sangue che pulsava nei capillari. Poteva sentire i denti affondare istante per istante e sapere benissimo quando fermarsi, come modulare la forza per trattenerla e non per ferirla. Calmare il respiro che vorrebbe correre troppo; imporsi lentezza e piacere. C’era tempo. C’era tutto il tempo che volesse: dilatare. Dilatare quegli istanti, ancora e ancora. Liberarle le dita e stringerle la mano, piegandosi fino a soffiarle il respiro sul viso, sulla bocca. Sfiorare, provocare e scendere sul collo senza toccarla, senza appagarla. Nascondere il sorriso al sospiro di disappunto e piacere; e premere corpo contro corpo, trascinandola indietro, facendole perdere l’equilibrio e costringendola sdraiata, la schiena nuda sotto le labbra e i seni sulla seta.

 

Alessandra si concesse un respiro che sembrava un gemito, mentre la coperta del futon le avvolgeva la testa e le attutiva i sensi; mentre la seta del lenzuolo era freddo sulla pelle calda ed eccitata, sui seni turgidi e stuzzicati. E ritrovarsi prona, la schiena nuda e la bocca di Sesshomaru a scendere lungo la spina dorsale, le mani percorrere il profilo fino ai fianchi e stringere, insinuarsi fra la stoffa, lungo lo yogi e chiudersi sul ventre, sotto di lei. Restarsene lì, in un abbraccio che è possesso, incapace di capire esattamente cosa facesse. Sentirlo sul fianco, poi sulla nuca e sulla spalla, ridiscendere alle scapole. Le labbra e poi la lingua e di nuovo la bocca e le dita segnare il contorno delle ossa soffiando al passaggio, sfiorandola con il naso e il solletico dei capelli ribelli. La mano insinuarsi dalla nuca, risalire in un massaggio e stringere un ciuffo senza far male. A sottolineare quel momento, quel gioco che è andato oltre, che è diventato qualcos’altro. Qualcosa di più grande, di adulto. Per entrambi.

 

Il singulto e la risata soffocata dalla coperta; le mani percorrere il ventre, risalire fra la seta ai seni, sollevarli e proseguire alle spalle, scivolare da sotto il corpo per scomparire e riapparire sui fianchi, allargandosi sulla schiena. Alessandra poteva sentire chiaramente le dita, le palme asciutte e fresche mentre le percorrevano la schiena; e alla seta del lenzuolo la seta del kimono di Sesshomaru che si sdraiava su di lei, le labbra baciare la cicatrice e accomodarsi sul costato sinistro, all’altezza del cuore, con le mani che la costringevano ad allargare le braccia e si allungavano sulla sua pelle, fino ad intrecciare le dita. Non pesava. Non pesava come avrebbe creduto. Il corpo di Sesshomaru sul suo era una sensazione piacevole; l’orecchio premuto sul suo cuore e le braccia e il kimono e tutto il suo essere a coprirla. Non stava facendo nulla; ma nel respiro regolare e profondo; nell’aria che sentiva sulla pelle; nel corpo che la premeva e avvertiva certo, presente, concreto, ad ogni respiro c’era qualcosa. Qualcosa di più eccitante e seduttivo che nelle carezze, nei baci, nelle mani che svelano ed esplorano. E avvertire piccole scosse nei muscoli; un fremito percorrere la pelle e un calore piacevole e naturale nel ventre.

 

Sesshomaru chiuse gli occhi.

L’odore di Alessandra si faceva più intenso; sempre più forte. Assieme al suo. C’era. C’era qualcosa di primitivo anche nei ningen, di istintivo. C’era qualcosa che non rispondeva alla ragione ma ad un istinto che Sesshomaru poteva illudersi fosse simile, fosse quasi comune al suo. Respirava piano, quasi impercettibile, mentre il cuore di Alessandra batteva. Batteva. E il suo corpo avvertiva il calore della pelle nuda, l’odore intensificarsi e i muscoli contrarsi in piccoli movimenti involontari, di aspettativa, di attesa. Era strano. Il corpo di Alessandra lo sosteneva; non le pesava addosso, ma non riusciva ad avvolgerlo completamente: anche se si fosse sdraiato diversamente, comunque non l’avrebbe potuta nascondere del tutto. Il corpo di Alessandra: grande come il suo; così diverso dal suo. Così diverso da quello delle yasha. Aveva i fianchi pronunciati, e il seno pieno che rigonfiava il kimono e la costringeva a tenere l’obi ripiegato e abbassato sulla vita, che curvava leggermente in fuori. Non era il corpo ad adattarsi al kimono, ma il kimono al corpo. Era sempre stato così. Sesshomaru ricordò altri abiti, abiti che non conosceva: hakama stretti a segnare le gambe e kariginu senza nappe, dai colori scuri dell’ocra e del marrone. Ricordò in modo distratto come la fasciassero, come lasciassero intravvedere le forme quasi a volerle sottolineare. In un sorriso, ricordò anche un altro vestito fra i vapori di una pozza termale: un vestito che gli aveva permesso di guardarla, di soffermarsi sul suo seno e sulla pelle scoperta. Quanto era passato? Quanto tempo era trascorso da quando...Da quando l’istinto gli aveva detto: uccidi. Non calcolava il tempo; non lo calcolava come i ningen. Forse. Forse Alessandra lo avrebbe saputo: era autunno allora; e adesso un altro inverno, lontano dal palazzo, senza assedio, senza guerra. Forse. Forse se glielo avesse...Ma perchè? Perchè parlare?

 

Il corpo sollevarsi per assecondare il movimento di Alessandra; le braccia tendersi a sorreggere il peso mentre lei gli offriva il seno nudo e il sorriso nella luce incerta dell’ultimo spicchio di luna. Poteva vederla; sapeva che poteva vederla. Sdraiata sotto di lui, fra la coperta e la seta; sdraiata sotto di lui, coperta dal suo corpo, dai capelli che scivolavano sul futon. Poteva immaginarla; poteva osservarla. Vederla. Vedere come nessuno di loro aveva più sperato che potesse fare; vederla come non aveva fatto quella volta lontana nella memoria, fra la neve e l’imbarazzo di una caduta inappropriata. Vederla; e indugiare sul collo in ombra, scendere lungo il raggio di luce che si insinua fra i seni, che sfiora l’ombelico ed è inghiottito dall’ombra. Vederla, mentre la mano risale lungo l’avambraccio contratto, dentro la manica. Pelle sulla pelle; la sensazione di diverso al contatto. La pelle di Sesshomaru è liscia; così liscia da sembrare cristallo; e sotto avvertire il sangue che scorre e la tensione dei tendini e dei muscoli mentre lo sorreggono. Asciutto; freddo. Così diverso da lei: senza calore, senza sudore. Allargare lo scollo del kimono, mentre la mano massaggia la base della gola, si allarga seguendo ombre sfuggenti. Risalire con il respiro, il corpo sostenuto dal gomito. Respiragli sulla pelle, aspettando un fremito, un respiro. Baciarlo. Baciare l’incavo fra la spalla e il collo, risalire e costringerlo a indietreggiare, a farsi trascinare seduta. Indugiare sul capillare sotto al mento, leccandolo con insistenza, mentre le mani allargano il kimono e liberano il petto. E costringere ancora, la schiena piegata e il futon ad accoglierlo. Guardarlo. Seduta su di lui, il seno nudo nella luna che va declinando. Guardarlo e prendergli una mano, la palma aperta sul ventre, in un movimento lento. Guardarlo e stringere le gambe attorno ai suoi fianchi, costringerlo a desiderarla ancora, il corpo ondeggiare e ritrarsi appena Sesshomaru accenna un movimento, un contatto che va oltre la mano sul ventre e le gambe attorno ai fianchi. E piegarsi con un sorriso e fargli sentire la seta sulla pelle, e il respiro alitargli all’orecchio, sollevare i capelli, mentre i denti stuzzicano un lobo. Alessandra l’ha scoperto col tempo: Sesshomaru è molto sensibile alle orecchie. E sorridere, seminascosta dalla mascella che le ombre fanno apparire più dura, più maschile e adulta. Sorridere degli occhi chiusi e delle labbra socchiuse; sorridere del fremito delle palpebre quando si sposta e resta ferma sopradi lui, sdraiata su di lui. E sfiorargli le labbra quasi con pudore, assaporando l’attesa, assaporando il taglio sottile e la facilità con cui la lascia giocare.

 

Trovarsi il respiro in bocca, il collo in tensione e gli occhi di Sesshomaru a irrisoria distanza. E accorgersi di un pensiero stupido. Ricordarsi di un particolare che era abitudine, di un qualcosa che era stato sempre. E adesso è diverso. Ricordarsi: il viso avvicinarsi, con le labbra socchiudersi con studiata lentezza; vederlo e poi solo sentirlo, nel respiro sulla bocca, nella bocca. Sentirlo e basta. Perchè non l’aveva mai guardata. Quando la baciava, comunque la baciasse, non la guardava mai: le palpebre socchiuse o le mani a chiuderle gli occhi. Non la guardava, quando era cieco. Adesso. Adesso invece Alessandra poteva vedere l’occhio sinistro, nel riverbero morente della luna. La striscia argentata zigzagare in un fondo più scuro, quasi nero. E sapere che è ambra, ricordare le sfumature attorno all’iride e desiderare la luce dell’andon o il sole, per poterlo baciare ancora così e vederle bene e non solo immaginarle, quelle sfumature, quella leggera policromia.

E lasciarsi trascinare distesa e poi rotolare, l’ansimare che gonfia il petto e scoprire che è piacevole, la sensazione della pelle di Sesshomaru sulla propria, i seni contratti che fanno male e il sottile disappunto di faticare sempre di più a distinguere il suo profilo nella notte che avanza. É bello. É bello sentire la sua bocca, il suo corpo. É bello sentire la pelle e la seta mescolarsi e stringerlo forte e respirare piane per calmare il cuore e le vertigini. Respirare; piano. Così: trattenerlo sul petto, la testa fra i seni senza vergogna, e aspettare. Aspettare; senza fretta, senza paura di perdere qualcosa, di rompere qualcosa. É bello. Ed è così strano. Alessandra sorride, il viso fra i capelli di Sesshomaru. Non è la prima volta; non è la prima volta che vede il suo corpo, che tocca il suo petto. Non è la prima volta che lo tocca ed è tutto così diverso. Troppo diverso. Una carezza quasi distratta sulle spalle, mentre cerca di ricordare dove fossero ferite, quanto potessero essere profonde. Ma la pelle è liscia; liscia e glabra. Fredda. Cercare; ricordare: il kimono intriso di sangue e l’odore forte del corpo dello youkai. Un odore quasi selvaggio, ferino, confuso fra le urla e il sangue. Le mani che la stringevano, sì. L’avevano stretta così forte, su quel campo di battaglia. Le avevano strappato gli abiti e l’avevano stretta. Come in quel momento; come la stavano stringendo in quel momento, il peso del suo corpo sul suo. Possesso, desiderio, voglia.

 

La voleva.

La desiderava e non gli interessava se fosse giusto, sbagliato; non importava che fosse ningen o youkai. La voleva e basta. E no, non riusciva a trovarlo, un dannato motivo, per cui avrebbe dovuto fermarsi. Era. Era come se qualcosa di nuovo avesse iniziato a formarsi nella sua mente; come se qualcosa che era cresciuto piano piano adesso stesse prendendo contorni sempre più definitivi e precisi. Era ancora presto; troppo presto. Non riusciva a capire; forse non avrebbe mai capito veramente. Eppure. Eppure andava bene. Andava bene lo stesso. Il collo sotto le zanne, i seni fra le mani. Va bene; va bene. Qualcosa. Cambierà qualcosa; cambierà tutto, dopo. Ma va bene. Può affrontarla; può accettare di affrontarla. In quel momento, con i sensi intorpiditi dal desiderio, con Alessandra sotto di lui, il suo respiro caldo e il pensiero della sua bocca socchiusa e tumida, Sesshomaru capì. Capì che preoccupazioni, timori e barriere c’erano; capì che le differenze non se ne sarebbero mai andate; capì che non l’avrebbe mai potuta comprendere, che avrebbe potuto amarla solo come può amare uno youkai. Lo capì; e seppe che nulla ormai li avrebbe più riportati vicini, che qualcosa era cambiato, era tornato al suo posto e adesso Alessandra aveva paura di lui e ne avrebbe sempre avuta. Timore, paura, rispetto; ma anche desiderio, voglia, fiducia. E andava bene. Andava bene lo stesso. Sì: bene. Perchè Alessandra tremava e sussultava, quando le sue zanne la sfioravano; perchè sentiva sotto la sua pelle come un brivido e l’istinto di ritrarsi quando la accarezzava. Ma c’erano le sua mani che lo cercavano; c’era la sua bocca sulla sua, la voglia e il desiderio. C’era un qualcosa di istintivo e irrazionale che li teneva ancora lì, su quel futon, nonostante le differenze e le distanze.

 

Poteva andarsene.

Strapparsi al corpo che spingeva verso il suo; andarsene, il kimono scivolare di nuovo sulle spalle e l’aria fredda dell’inverno sulla pelle. Uscire sull’engawa e chiedersi cosa ci fosse, negli occhi di Alessandra. Cosa ci sarebbe stato nel percepire il suo corpo abbandonarla. Lasciarla. Già: non era per quello che era andato da lei? Per lasciarla libera? Per dirle che poteva fare quello che voleva e tornare nel suo mondo? Il mondo di Alessandra. Sesshomaru cercò la mano della ragazza e strinse forte, mordendole la carne fino a sentirla sussultare. Il mondo di Alessanra; il mondo dei ningen. Un altro mondo; un’altra realtà. Sì: era andato per lasciarla al suo mondo. O voleva convincersi che era per quello, che era stato un motivo logico e razionale a fargli attraversare il kekkai mentre la luna scendeva dietro le montagne. L’engawa e le shoji socchiuse; il silenzio di quell’inverno, rilassato e lontano dal palazzo. Così diverso: senza la tensione palpabile nell’aria; senza il crepitio di youki e gli echi di duelli e allenamenti. Un inverno visto di nuovo; negli spicchi di luce che si andavano ritirando dall’engawa; nella figura che riusciva appena a individuare, seduta nel futon. Era stato naturale: scivolare oltre le porte e sedersi dietro di lei. Sedersi, e le braccia stringere le spalle di Alessandra e restare così, a respirare sulla sua spalla. A respirare contro il suo corpo che si rilassava e imparava di nuovo la vicinanza, si abituava di nuovo a quella sensazione. Percepire le labbra socchiudersi in un respiro che è esitazione e scoprirsi a desiderarle, quelle labbra, quella bocca. La voce premuta sulla stoffa mentre le rispondeva che sì, lo sapeva che Ryoshi l’aveva baciata. Lo sapeva; lo aveva visto. E nella mente premere solo il desiderio di vederle la nuca prima che la luna scompaia del tutto; la voglia dei capelli fra le mani e la pressione della testa nel palmo, mentre la costringe a inclinare un po’ il collo e la bacia. E scoprirsi ad accarezzarla prima di formulare razionalmente il pensiero e no, non voler smettere. Perchè non è sbagliato; perchè è bello.

 

Il respiro.

Era così facile respirare. Dentro; fuori. Dentro; fuori. Inspirare; espirare. Inspirare; espirare. Ancora. É facile, ricordi? Facile; naturale. E allora perchè? Perchè all’improvviso no, non era più sicura di sapere come si facesse, davvero, a respirare? Perchè l’aria se ne restava lì, nella gola, mentre il petto sussultava e si sollevava e cercava. Cercava la bocca di Sesshomaru, le sue mani, la sua lingua. Cercava; e dell’aria e del respiro non gli importava nulla. Si era fermato, prima. Si era fermato, come assopito. Si era fermato e aveva cercato la sua mano. Nel buio totale, l’aveva stretta forte. E Alessandra si era chiesta cosa volesse dirgli, cosa significasse. E sentire il suo corpo desiderare altro, sentirlo in aspettativa e tensione, una frenetica intensa piacevole tensione, mentre Sesshomaru ancora la toccava, ancora e ancora. Sentirsi impaurita e scoprire di non aver davvero paura; sentire la voglia di scappare e la volontà annullarsi assieme. Era così difficile. Era così difficile capire cosa volesse, cosa cercasse. Ma la paura. La paura c’era e non la spaventava. Quando Sesshomaru l’aveva abbracciata; quando aveva iniziato quel gioco, quella seduzione che stava diventando altro, che era già altro. E che nessuno di loro riusciva, voleva fermare. Il corpo rigido accettare, ricordare. Ricordare quando la abbracciava la notte, a palazzo; ricordare quando l’abbracciava e aspettava che incubi e fantasmi scomparissero. Ricordare quando lo sentiva, nella notte, sedersi sull’engawa oltre le shoji chiuse; sedersi e consumare le poche ore di tregua in un qualcosa che lei non capiva. Non capire. E accettare; rassegnarsi.

Come con la paura. Accettare.

Va bene.

 

La mano di Sesshomaru premere sul ginocchio, scivolare sulla seta assieme alla bocca. Le labbra, la lingua sulla pelle, sulla cicatrice che le segnava la rotula. Sentirlo misurarla millimetro per millimetro, l’artiglio a percorrere con minuzia ogni imperfezione. Forse divertendosi e scoprire qualcosa che non si era mai accorto avesse; forse cercando di ricordare se era una ferita recente o vecchia. E sentirlo come sorridere di un pensiero non detto, mentre la seta è un fruscio eccitante nel buio. Nel buio. Alessandra espirò, lentamente; l’eccitazione e il desiderio riscaldarle il corpo, partire in basso, dal ventre, e serpeggiare piacevole sotto la pelle. Desiderio. Sì: lo desiderava; lo voleva. E il gemito nella mano di Sesshomaru che sfiora la coscia, risalendo sotto la seta e allargando lo spacco del kimono. Risalire. Risalire ancora.

 

Il kimono largo sul ventre, e quell’odore. Un odore forte, quasi pungente mescolarsi con il suo. Non è fastidio, non è disgusto. Così diverso da quello di una yasha, così diverso da quello di sua madre. L’odore di una ningen; di Alessandra. Sesshomaru si accorse di avere le labbra socchiuse; sa di desiderare e di volere e sa che l’amerà, anche se poi cambierà tutto. E sa che l’amerà nel solo modo che conosce, in cui può amarla: come un demone, senza porsi domande o cercare di immaginare cosa potrebbe fare un ningen, cosa può provare un ningen. Sarebbe stupido; e inutile. L’amerà per quello che è lei, e per quello che è lui. E potrà essere bello e piacere e potrà essere dolore e ribrezzo. Non importa. Non importa più. Vuole amarla. Mentre la mano accarezza la coscia e risale e allenta il fundoshi; il palmo aperto sul ventre sudato e caldo, troppo caldo. Il nodo del koshihimo premere leggermente sulla pelle, a fermare la stoffa e la sua mano. Non lo scioglierà. Guidare le gambe e scoprire una resistenza che seduzione; sentire i muscoli contrarsi e opporsi e poi rilassarsi e assecondare i suoi gesti. Sentirla sussultare, sentirla cercare qualcosa che ancora non conosce. E non pensare se c’è paura, attesa o stupore.

Non. Pensare. Come non si è mai permesso di fare; come non ha mai permesso che succedesse. É rimasto lucido con la yasha che ha amato per prima; è rimasto lucido con le altre demoni che hanno condiviso il letto con lui, per necessità e bisogno. Restare lucido; e ritrarsi un attimo prima. Ritrarsi come infastidito e andarsene. Perchè non deve dare spiegazioni; perchè è lui che sceglie. E può scegliere che l’amante non lo soddisfa.

 

Alessandra invece.

Alessandra la vuole; e non gli importa se non lo saprà soddisfare come una yasha. Non gli importa se l’amore di una ningen è rozzo, gretto e insignificante; se è infantile e sciocco rispetto a quello di un demone. Rispetto alla completezza, alla profondità diversa, alla percezione diversa di uno youkai. La vuole. Mentre il calore sale dal ventre e il desiderio è pressione e male e voglia. Come fame. Fame. In un formicolio che serpeggia nella pelle, partendo dal basso e risalire lungo le vene, nelle vene con il sangue veloce, sempre più veloce.

Vuole.

Ha.

 

E c’è urgenza; c’è pressione e vertigine. Nel buio. Nel buio Sesshomaru non se ne accorge; non avverte il virare dei suoi occhi, non percepisce il mutare del mondo che li circonda: la noka diventare acqua, mentre la luna, sì, per un istante, si mostra di nuovo fra i rami del salice. Non vede; non ascolta; non pensa. C’è solo il suo corpo; e quello di Alessandra. Il suo essere in Alessandra. E i gemiti e il respiro che è ansito; i movimenti cadenzati, prima lenti poi voraci poi lenti ancora. Seguendo qualcosa che gli dice l’istinto, assecondando le sue risposte, il modo in cui lei lo cerca, in cui lei gli impedisce di andarsene. Non vede. La lingua passare e ripassare sulle labbra, le mani affondare nel futon, cercare coperte seta legno. Non vede il suo viso arrossarsi, la pelle della gola tendersi e invitare, provocante, la sua bocca. Non vede l’ombra sanguinea avvolgere ogni cosa; non si accorge dell’affilarsi delle zanne e degli artigli. Non è lo stesso; non è come trasformarsi, non è come assumere la sua forme animale. Eppure. Eppure c’è forza, dentro al suo corpo. C’è una forza violenta che lo riscalda, che lo fa desiderare.

Desiderare.

 

C’è la seta. Fra di loro. Contro i suoi fianchi caldi e sudati; attorno alle reni di Sesshomaru. C’è la seta, e la pelle che si sfiora quasi per sbaglio, mentre lo sente in lei; mentre lo vuole in lei. E sorprendersi di non pensare a nulla che non sia il piacere e il ritmo strano che le sta imponendo. O è lei a dare un tempo? Non lo sa. Ci sono le gambe a stringergli maggiormente la schiena; c’è il gemito basso e roco salire nella gola, sfuggire senza pudore. Sente se stessa; e sente lui. Il respiro diverso di Sesshomaru sulla pelle. Il suo respiro quasi più caldo; e il gemito sordo e fondo nella gola vibrare, gorgogliare e concedersi quasi in un ringhio. Uno; due; tre volte. Diventare intenso; diventare continuo assieme al respiro più veloce. Sempre più veloce. Di lui. E di lei.

 

E infine il respiro restare lì, nella gola. Restare lì mentre quel calore sale e sale e dal ventre passa allo stomaco, nei polmoni, nel cervello. Quel calore insinuarsi dentro di lei, improvviso; e le mani di Sesshomaru stringersi a lei, stingere la sua carne, il suo corpo. Stringere facendo male e piacere assieme. E c’è quel calore. Quel calore che non è suo, non è solo suo. Saperlo nella confusione dei sensi; saperlo e chiedersi perchè c’è assieme il desiderio di piangere e ridere. Mentre la pelle di Sesshomaru è liscia e asciutta sul suo copro sudato; mentre il suo peso la costringe di nuovo a respirare e lo sente, forte, il suo respiro pesante e sensuale fra l’orecchio e la guancia.

Mentre gli spasmi ancora contraggono muscoli e torturano; mentre, Sesshomaru lo sente, l’odore di Alessandra è cambiato. Lo ha sentito per tutto il tempo: virare in acre e tingersi di qualcosa, qualcosa di simile al sangue; come odore di sangue poi svanito, avvolto dal salire del suo odore. Salire, salire ancora fino a quando c’era solo quello, e dentro Alessandra. Dentro l’odore di Alessandra. E diventare altro. Diventare quell’odore che, lo sa, da adesso sarà suo.

 

E sentirla tremare per l’aria fredda della notte sulla pelle sudata e calda; sentire il suo corpo stringersi al suo e non lasciarlo andare. Non ancora; non così presto. Stringerla e scoprire di non essere ancora soddisfatto, di desiderarla ancora e ancora. Di volerla. Di volere ancora piacere. Piacere da lei.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Piccole annotazioni

 

1. Il luogo della convalescenza di Alessandra esiste realmente e si trova nel centro nella penisola di Izu, famosa per le sue sorgenti termali raccolte fra le montagne scavate da numerosi fiumi come il Kano e ricca di cascate come le famose sette cascate di Kawazu, che hanno ispirato anche il romanzo La ballerina di Izu del premio Nobel Yasunari Kawabata. In particolare, la noka dove vive Alessandra si trova nelle vicinanze di Izu-Nagaoka, oggi rinonama stazione termale ma in epoca Sengoku luogo ancora disabitato, nel centro nord del paese, fra le colline di Genjiyama e il monte Kutsuragi. La panoramica mentale di Sesshomaru prende avvio più a sud, da Yugashima per la precisione, sulle rive del Kano che disegna una valle di magnifico splendore risalendo verso il monte Daruma.

 

2. La figura di Ryoshi (il nome è formato da ryou che significa drago e shi che corrisponde a viola; quindi: drago viola) è liberamente ispirata a quella di Habaek del (personalmente) meravglioso manwha La sposa di Habaek. Riconosco che da parte mia è un azzardo introdurre, a due capitoli dalla fine, un personaggio totalmente nuovo che non ho la possibilità di approfondire ulteriormente in modo particolare. E, a voler esser sinceri, Ryoshi non era previsto, all’inizio. Ma è nato per necessità e ormai ha raggiunto, nell’economia narrativa, un ruolo fondamentale (per il futuro). É anche un piccolo gioco: perchè Ryoshi è legato all’acqua, che per tradizione è elemento femminile. Acqua maschile, quasi. Ma Ryoshi è particolare: è un bambino, è un ragazzo, è un uomo. E non è umano; non è youkai. É un mizuchi, una creatura diversa da Sesshomaru. Per percezione e capacità di comprendere i ningen; ed è –importante- più antico di Sesshomaru e degli youkai stessi.

 

3. Può sembrare un particolare pedante e senza preciso valore, ma ci tenevo a questa precisazione. Nel paragrafo conclusivo Sesshomaru non si spoglia e non spoglia completamente Alessandra. Una sciocchezza, direte. Una scelta. No, in verità. Perchè, mi sono documentata, è nella tradizione orientale la seduzione e l’amore non si esprimono nel nudo. Analizzando le stampe, le ukiyo-e e le immagini erotiche della tradizione nipponica è da rilevare come il nudo non compaia mai. L’erotismo si esprime attraverso l’allusione, il gioco di svelamento-copertura, anche nel rapporto più intimo. La mancata nudità totale di Sesshomaru e Alessandra, di conseguenza, non è un mio vezzo, ma ha un suo preciso perchè, culturale e sessuale.

  
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