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Autore: ReaderNotViewer    11/06/2010    3 recensioni
ll 20 maggio 2003 Sunnydale sprofondò all’Inferno. Circa tre settimane più tardi un certo fantasma ossigenato comparve nell’ufficio di Angel a Los Angeles. Questa storia si situa in un momento imprecisato compreso tra i due eventi. Ognuno dei capitoli si ispira a uno dei prompt ereditati dalla Festa dei Folli. Infine, prima che veniate a chiedermelo: se l’hanno fatto Disney, Bill Murray e gli autori di In viaggio nel tempo, perché non lo posso fare io?
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Spike
Note: Cross-over | Avvertimenti: Spoiler!
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CAPITOLO 1



Prompt: Organza



Il luogo gli era vagamente familiare, una sensazione a cui era abituato, poiché col passare dei decenni la probabilità di ritornare in posti che gli sembrava di avere già visto pareva aumentare in modo tanto esponenziale quanto sgradevole. Talvolta scopriva che l’impressione corrispondeva a realtà ma nella maggior parte dei casi l’effetto era dovuto semplicemente, oltre che all’andamento ciclico della moda e del design, al fatto che sembravano esistere limiti naturali alla fantasia di architetti e arredatori.
Questo gli fece tornare in mente che aveva spezzato il collo a un arredatore, una volta. Come la lingua batte sul dente che duole, quasi tutti i suoi ricordi comprendevano la medesima scena: sullo sfondo la sagoma indistinta di un essere umano per terra, nella posa scomposta e vagamente oscena della morte, e in primo piano lui stesso, intento ad asciugarsi con la mano l’angolo della bocca ancora sporco di sangue. Per l’ennesima volta, Spike si chiese quando avesse imparato a dare questo taglio cinematografico così vivido e drammatico alle immagini che emergevano nella sua memoria, quasi che un altro se stesso, uno che non fosse nato e cresciuto prima dell’invenzione dei fratelli Lumiere, fosse tornato su tutte le scene dei suoi delitti al solo scopo di riprenderle puntigliosamente una per una con particolari d’effetto e la giusta illuminazione.
Dio solo sapeva se ci fosse bisogno di aggiungere ulteriore pathos agli avvenimenti del passato che già opprimevano la sua coscienza al punto che aveva visto quasi con sollievo l’opportunità di farla finita.
A proposito.
Dal momento che l’ultima cosa che ricordava era di essere bruciato vivo come una novella Giovanna d’Arco nel sotterraneo del liceo di Sunnydale, che cosa ci faceva adesso seduto su una sedia a braccioli di fronte a una riproduzione della Vergine delle Rocce malamente incorniciata? Spike osservò attentamente le maniche della sua giacca di pelle ma non le trovò più malconce di quanto fossero di solito. Sulle mani aveva solo qualche cicatrice passeggera delle battaglie più recenti. Pantaloni, neri, attillati e ragionevolmente puliti, sebbene non ricordasse di avere indossato proprio quelli, ma in fondo quella mattina, o per meglio dire l’ultima mattina di cui serbava memoria, s’era vestito al buio e nemmeno la vista di un vampiro può distinguere un paio di jeans neri da un altro paio di jeans ugualmente neri senza un minimo di illuminazione. Scarpe le uniche che possedeva e calzini scompagnati per lo stesso motivo di cui sopra, oltre che per essersi vestito molto di fretta.
C’era qualcosa che non andava: niente bruciature, niente ustioni, niente odore di cenere.
Niente medaglione della serie I gioielli di Barbie appeso al collo.
Decisamente c’era qualcosa che non andava.
Nessun dolore.
Non che di quest’ultimo sentisse particolarmente la mancanza.
Spike arrotolò la manica e sospirò di sollievo quando trovò la minuscola scalfittura all’interno del gomito. Normalmente non gli sarebbe rimasto il minimo segno, ma poiché Buffy aveva non solo le unghie affilate ma anche la forza di una Cacciatrice, gli era rimasta sulla pelle la traccia del momento in cui gli aveva stretto un po’ troppo il braccio. Se ne era infinitamente scusata, come se l’anno precedente lui non fosse uscito con graffi e lividi da ognuno dei loro rendez-vous.
Saggiamente, Spike si era però tenuto quest’ultima considerazione per sé.
Quindi, quella notte era realmente esistita. Ma poi?
La stanza era quadrata, non grande, tappezzata con una carta da parati color crema a fiorellini stilizzati che gli stava già venendo a noia. Sul pavimento di parquet un po’ usurato era steso un tappeto persiano piuttosto liso ma ancora bello, con un disegno particolare di cui un tempo Spike avrebbe saputo dire il nome. Più il disegno era minuto, più nodi c’erano in ogni centimetro quadrato e più il tappeto era di valore: Spike ridacchiò, pensando che non riusciva a ricordare se questo l’avesse sentito dire nel salotto di sua madre o se l’avesse invece imparato da Angelus.
C’erano altri quadri appesi alle pareti e sotto la Vergine delle Rocce un tavolinetto accostato al muro, su cui era appoggiato un vaso da fiori a forma di coppa di ceramica bianca, vuoto. Di fianco alla sedia su cui era seduto c’era un’altra sedia uguale e più in là un grosso portaombrelli con due ombrelli, uno verde da donna e uno nero da uomo. Ai due lati della finestra, celata da anonimi tendoni color marron glacé lievemente sbiaditi, facevano bella mostra di sé due esili vetrinette dal disegno molto sobrio, che contenevano alcuni oggetti vagamente ornamentali, come una serie di scatoline di porcellana, simili a quelle che in taluni luoghi si usano come bomboniere, una pipa di radica appoggiata sul suo supporto, un piatto d’argento lavorato a sbalzo e tre campioni di minerale di diversi colori, che Spike probabilmente all’età di tredici anni avrebbe potuto riconoscere.
In altre parole, era una stanza che avrebbe potuto trovarsi ovunque in qualsiasi epoca. A partire dall’invenzione della pipa e dell’ombrello in poi.
Spike si alzò, andò alla finestra e scostò il tendone. Sembrava che fosse notte, una notte priva di luna e di illuminazione artificiale e attraverso il vetro non si vedeva assolutamente niente. L’infisso, due ante di comune legno verniciato stranamente prive di maniglia, resistette ad ogni tentativo da parte di Spike di aprirlo, cosa che di per sé era decisamente sospetta. Poiché nel corso degli ultimi mesi aveva passato veramente molto tempo rinchiuso da qualche parte per una ragione o per l’altra, non si sentiva molto tollerante verso questa ulteriore privazione della sua libertà personale. Si tolse la giacca e se l’avvolse attorno al braccio per non tagliarsi mentre rompeva il vetro, ma già mentre vi si buttava contro con tutta la sua forza, aveva il presentimento che non sarebbe servito a niente. Infatti, rimbalzò contro quello che come minimo era un vetro antisfondamento e si ritrovò seduto per terra. Si rialzò sospirando e si rimise la giacca. Forse aveva viaggiato indietro nel tempo, come in una di quelle storie di fantascienza che piacevano tanto a Xander.
Oddio. Harris. Chissà se se l’era cavata. E Dawn? Willow, Faith, Anya? Quei due idioti di Osservatori che lo avrebbero voluto morto? Poi c’era il ragazzino, quel povero Andrew che tutti trattavano malissimo e che lui aveva morso. E tutte quelle bambine (la scolaresca, le chiamava dentro di sé). Alcune le aveva viste cadere e non più rialzarsi mentre infuriava la battaglia con gli Übervamp.
Buffy, sì. Lei doveva avercela fatta, Spike ne era sicuro: lo avrebbe sentito, se Buffy fosse morta. Di tutte quelle persone, solo a lei era veramente importato qualcosa di lui, eppure provava una terribile ansia al pensiero che a qualcuno di loro fosse accaduto il peggio.
Stupida anima.
E più stupido ancora lui che se l’era andata a cercare.
Anche se sembrava che ci fossero degli innegabili vantaggi nell’avere questa famosa anima, almeno per quanto riguardava la Cacciatrice.
Innegabili, enormi vantaggi.
Magari un filino tardivi.
Spike attraversò la stanza e andò alla porta. Come la finestra, era anonima, insignificante, priva di maniglia e in grado di resistere a ogni tentativo di forzatura, anche da parte di un vampiro. Spike decise di rimandare a un momento successivo un ulteriore tentativo a spallate e si sdraiò per terra. Non fu affatto sorpreso di constatare che da sotto la porta né filtrava il minimo chiarore né penetrava la più leggera corrente d’aria.
A questo punto gli venne un dubbio e balzò nuovamente in piedi, senza poter fare a meno di cercarsi affannosamente il polso e poi di affondare il pugno nello stomaco. Stava respirando? Sì, no. Chi lo sa.
No, il battito non c’era: sembrava che fosse ancora un vampiro, dopotutto.
Le zanne uscirono docilmente, a comando; le ripose in fretta, timoroso di farsi sorprendere a fare esperimenti con le sue armi vampiriche.
Sul muro dietro alla sedia dove era stato seduto era appeso un tendaggio di velluto bordeaux, rialzato da un lato per mezzo di un cordone di seta con tanto di nappine, sotto il quale si intravedeva un pezzo di cornice dorata.
Spike si avvicinò, perplesso: aveva già incontrato qualcosa del genere negli studi dei pittori e nelle gallerie d’arte. Molto, moltissimo tempo prima aveva visto un ammennicolo quasi uguale in casa di un tale che era stato suo compagno di università; in quel caso il tendaggio aveva celato alla vista l’opulento nudo femminile rappresentato nel dipinto sottostante. William era stato ingenuo, ma non così tanto da non riconoscere nei lineamenti della signora in questione quelli di una celebre mantenuta, della quale aveva dedotto – giustamente – che il padrone di casa fosse l’amante di turno. Poiché quel tale si trovava all’estero quando William, qualche tempo dopo, aveva incontrato Drusilla, ora averlo ucciso non aggravava il suo già pesante fardello di rimorsi: no, quel poveraccio aveva avuto tutto il tempo di farsi massacrare con tutti i crismi della legalità e in odore di amor di patria durante la guerra contro i Boeri.
Quando Spike spostò di lato il tendaggio, perciò, quasi si aspettava di posare gli occhi su una bella ragazza discinta, invece fu alquanto sorpreso di trovarsi viso a viso con un volto noto. Capelli biondi accuratamente acconciati, occhi verdi, lineamenti perfetti in un ovale che sembrava di porcellana, collo sottile: portava perfino quella collana di perle e zaffiri che le piaceva tanto e che una volta era appartenuta a una vera contessa francese. Sebbene il ritratto si fermasse all’altezza del seno, era evidente che la donna raffigurata indossava un ricco abito di seta azzurra. La profonda scollatura era velata da sottili ruches un po’ rigide, di pallida seta arricchita da delicati ricami dorati, che adornavano anche i polsi. Drusilla aveva un abito abbastanza simile, ma di un rosso cupo, con guarnizioni color perla. Entrambi avevano fatto parte del guardaroba di una signora del bel mondo, molto raffinata e alla moda, alla quale in una sera d’inverno la sarta li aveva appena consegnati e che non immaginava certo chi avrebbe finito con l’indossarli al suo posto. Mentre Drusilla, che quando voleva era molto brava con i lavori di cucito, li riadattava per sé e per Darla, non la finiva più di elogiare la finezza del tessuto usato per le decorazioni, perciò Spike ricordava ancora che era organza, la stessa impiegata per molti moderni abiti da sposa. Sia Dru sia Darla ci avevano tenuto molto a quelle decorazioni di organza, l’una per la bellezza della fattura, l’altra perché pensava che la facessero sembrare una vera signora. Non era così, naturalmente, ma Spike aveva imparato presto a tenersi per sé tali opinioni, onde evitare risse in cui avrebbe quasi certamente avuto la peggio. Era un dato di fatto: la scollatura sempre un po’ eccessiva, l’inutile rosso artificiale sulle guance, i riccioli troppo gonfi ai lati del collo, ogni piccolo dettaglio avrebbe rivelato a lui, e a maggior ragione a qualunque donna della buona società, che Darla non era una vera signora. E mai lo sarebbe stata. Poteva avvolgersi di metri di seta finché voleva, ma restava sempre una sgualdrina del Nuovo Mondo, della quale non era mai importato niente a nessuno, prova ne fosse che non aveva mai rivelato il nome che aveva portato da viva. Nemmeno Angelus lo sapeva, solo il suo adorato Maestro. Darla era come un pezzo di volgare pane di segale avvolto in un pacchetto di finissima organza, e della segale, perfida e meschina come sapeva essere, aveva lo stesso gusto amaro.
Ciò non toglie che fosse una delle donne più belle che Spike avesse mai visto. Come incantato, restò a fissare gli splendidi occhi verdi del sire del sire del suo sire – una sorta di bisnonna, dal punto di vista vampirico – senza riuscire a capire come mai in quella stanzetta fosse appeso un suo ritratto, dipinto ad olio e anche molto somigliante.
Darla.
Non pensava a lei da anni. Sebbene moltissimo tempo prima avessero avuto rapporti molto stretti, tale relazione non era mai diventata amichevole, almeno che Spike ricordasse. Al di sotto della comunanza di interessi, dei legami quasi familiari, dell’alleanza tattica e di fuggevoli incontri sessuali, il disprezzo reciproco era sempre rimasto alla base della loro relazione. Quando Darla se n’era andata, lasciandolo solo con Drusilla, Spike non ne aveva certo sentito la mancanza.
“Così, William, ci si rivede.”
Spike fece un balzo all’indietro e si guardò intorno per capire da dove venisse la voce. Quando riportò gli occhi sul quadro, non vi erano rimasti che gli elementi dello sfondo. In compenso, aveva la sensazione che qualcuno alle sue spalle stesse guardando la sua nuca.
Si voltò lentamente.
Sì, era un vestito di seta azzurro da sera, con una guarnizione di piccoli fiocchi sul davanti dell’ampia gonna che sarebbe stata meglio su una poltrona. Drusilla avrebbe voluto toglierli, ma ovviamente Darla non era stata a sentirla.
“Magia?” chiese Spike sospirando.
“Non proprio” rispose Darla e gli sorrise in modo affettuoso.
“Allucinazioni?” ipotizzò lui. La vera Darla, e nemmeno una Darla finta o l’incarnazione del Primo o il fantasma della medesima, non avrebbe mai rivolto un sorriso come quello proprio a lui.
Le pizzicò il braccio, attraverso il leggero tessuto del vestito da sera.
“Ahi!” protestò la sedicente Darla e gli tirò una sberla che gli fece girare la testa da un lato.
Chiunque fosse, due cose si potevano già dire con certezza: cioè che picchiava esattamente come Darla e che non poteva essere il Primo.
Mentre cercava di ricordare se le allucinazioni potessero essere tattili, lei lo sospinse gentilmente verso la sedia posta sotto il ritratto da cui era misteriosamente uscita: “Vieni, William, sediamoci.”
Spike ubbidì docilmente, sempre più sconcertato anche perché non era più abituato a sentirsi chiamare in quel modo.
Lei si sedette nella sedia a fianco, accomodando accuratamente la gonna del vestito in pieghe ordinate, perché non rimassero brutti segni sul tessuto, proprio come avrebbe fatto la vera Darla con un abito prezioso.
Gli appoggiò una mano sul ginocchio e abbassò il capo da un lato, mentre lo guardava: “Ti trovo bene, tutto sommato.” Le ruches d’organza attorno al polsino della sua manica erano così rigide che gli fecero solletico, persino attraverso il pesante tessuto dei pantaloni.
Spike sapeva molto poco di quello che aveva fatto Darla dopo aver rischiato di finire bruciata insieme a Drusilla, per mano di Angel. Sapeva solo, perché lo aveva detto Faith, che si era uccisa. Perché, dove e in che circostanze, Faith o non lo sapeva o non lo aveva voluto spiegare, perciò Spike non ne aveva la più pallida idea. Faticava anzi moltissimo a credere una cosa del genere: gli sembrava più probabile che Angel si fosse disfatto della sua vecchia amante e fosse poi andato in giro a dire che lei si era suicidata.
“È vero che ti sei spaccata il cuore tu stessa, due anni fa a Los Angeles?” chiese incuriosito.
“Sì” ammise lei con un lieve sorriso. “Non potevo fare diversamente, capisci?”
“No.”
“Eppure dovresti. Mi dicono che ti sei lasciato bruciare vivo la notte scorsa” replicò Darla dandogli un altro colpetto affettuoso sul ginocchio.
Spike borbottò qualcosa.
“Colpa dell’anima, immagino. La stessa cosa è capitata a me, in un certo senso.”
“Tu, un’anima?” chiese lui in tono incredulo. Se gli avessero mai chiesto chi altri, tra tutti i vampiri, avrebbe potuto avere la malsana idea di gettarsi alla riconquista della sua anima immortale, Darla sarebbe stata di certo l’ultima a cui Spike avrebbe pensato.
“L’anima di qualcun altro, veramente.”
“Di lui?”
“No. Del mio bambino. L’anima del mio bambino che cresceva dentro di me.”
“C’è un solo modo in cui un bambino possa stare dentro una vampira, se non ricordo male.”
“Ricordi bene, ma evidentemente c’è anche un altro modo. Io ne sono la prova, anche se non vivente.”
“Tu sei matta.”
“Perché tu, invece… Da quando in qua si è sentito di un cretino di vampiro che si fosse messo in testa di rivolere indietro la sua anima? Ho sempre saputo che eri stupido, William, ma non mi sarei mai aspettata che tu fossi così stupido.”
Spike alzò le spalle.
“Almeno è servito?” si informò Darla.
“Che?”
“Questa cosa dell’anima. È venuta a letto con te, ti ha detto di amarti?”
“Cosa vuoi da me? Tu non sei di famiglia. Non più.”
Darla rise: “Beh, se è servito, buon per te. Ma soprattutto, trattandosi di chi sappiamo, mi farebbe piacere vedere la faccia di Angel quando verrà a saperlo.”
“È viva, vero?”
“Buffy? Come puoi dubitarne? Quella è peggio della gramigna.”
“E gli altri?”
“Quanto sei curioso. Non credo di poter… Ah, ma chi se ne importa? Le ragazzine no, ma i grandi ce l’hanno fatta quasi tutti. Però ho sentito parlare di un ex-demone della vendetta che sarebbe già in attesa del prossimo incarico.”
E così, Anya aveva finito una volta per tutte di dire cose inopportune. Harris ci sarebbe rimasto molto male, pensò Spike con una fitta di pietà.
”Hai sentito parlare, da chi?”
Darla fece un gesto, come a significare che c’erano dei padroni di casa, che decidevano la sorte di chi si trovava in quella stanza.
“E soprattutto: che cosa siamo? Io e te, qui e adesso.”
“Morti, no?”
Beh, c’era da immaginarselo.
“Non-morti definitivamente morti?” indagò Spike.
“Non c’è niente di definitivo, mio caro.”
Si scambiarono uno sguardo d’intesa, da quegli amici che non erano mai stati.
“E allora tu stai in quel quadro come se fossi un ex-preside di Hogwarts?” volle sapere lui.
“Hogwarts? Che cos’è?” chiese Darla, genuinamente perplessa “No, quel quadro è soltanto un po’ di spettacolo. Questo vestito e la collana, te li ricordi? Li avevo a Bruxelles, quella sera all’opera.”
“Ci sono state molte sere e molte opere, Darla. La proprietaria di quella collana… non ricordo come si chiamasse. Ma la sua cameriera, la ragazzina… ricordo come gridava mentre Angelus le spezzava le dita, una alla volta. Solo quando le ruppi il collo, smise di urlare. Quanti anni avrà avuto, Darla? Quattordici, quindici al massimo.”
“No, non mi ricordo della cameriera della contessa. Però rammento i due sposini fiamminghi in viaggio di nozze. Quella sera al teatro di Bruxelles.”
Ora anche Spike ricordava. Non c’erano stati cadaveri scompostamente buttati per terra, quella volta. Era stata una delle rare occasioni in cui lui e Darla avevano cacciato insieme, loro due da soli, mentre Angelus si godeva lo spettacolo con Dru avvinghiata a lui come una pianta d’edera s’attorciglia attorno una colonna, perché il fragore degli ottoni la spaventava terribilmente, e Dio solo sapeva perché.
Chiunque gli avesse mandato Darla attraverso quel quadro, era un vero perfezionista, non c’era che dire. Erano così sereni quegli abitanti di Bruxelles, così convinti che nulla potesse turbare la loro vita ordinata e produttiva. Si sbagliavano di grosso, visto che dopo una quindicina d’anni sarebbero venute la Grande Guerra e l’invasione tedesca, ma lui e Darla questo, allora, non potevano saperlo. Era perciò sembrata loro un’idea divertente riportare il scena il vecchio Jack, che tanto aveva spaventato i londinesi solo un paio di anni prima, per dare uno scossone alla sonnolenta capitale belga.
Non era così improbabile che Jack fosse della consorteria, dopotutto: agiva sempre di notte e se fosse stato un vampiro, ci sarebbe stata almeno una certa logica nello sventrare quelle donne.
Poteva esserci qualche ragione perché non volesse o non potesse usare i denti, come qualunque altro volgare succhiasangue: dentatura insufficiente, riluttanza a mettersi in mostra o addirittura uno strano genere di senso dell’umorismo.
“Volevamo imitare Jack. Fare uno scherzo a quei mangiacavolini” disse Spike.
“Già. Avesti tu l’idea.”
“Io? Non credo proprio…”
“Figurati se non lo ricordo: per una volta che dimostrasti un po’ di fantasia e di senso estetico. L’unica volta” aggiunse Darla con un’ombra della sua caratteristica malignità “Di solito saresti stato troppo ubriaco per poter disporre gli intestini in quel modo. Sei sempre stato così sciatto.”
Spike scrollò le spalle: quando uno era morto, era morto. Non che gli potesse importare un granché del modo in cui venivano impiegate le sue viscere. A lui di sicuro non sarebbe importato un accidente. Certo, non doveva essere stato un bello spettacolo per il direttore del teatro, che aveva trovato lo scempio appeso alla porta degli artisti mentre rientrava alla chetichella dalla sua consueta visitina veloce all’amante. Né per i poliziotti che avevano staccato i resti dei due sposini dalla suddetta porta. Ma soprattutto quell’immagine doveva aver tormentato la mente di coloro che avevano amato i due ragazzi in vita e che avevano accompagnato al cimitero le bare in cui i due corpi erano stati frettolosamente ricomposti. Poiché probabilmente c’era stata una certa confusione nell’attribuire giustamente gli organi interni, non era fuori luogo dire che i due malcapitati fossero rimasti strettamente uniti anche nella morte. Uniti ma anche disassortiti, come due collane rotte, raccolte di fretta e buttate via in due diversi sacchetti.
Spike alzò gli occhi a fissare quelli di Darla, senza provare per questa ragione tristezza e depressione, come gli capitava da quando aveva riavuto la sua anima immortale. Nel libro mastro delle esistenze, il bilancio di Darla era molto in rosso, sotto il riguardo del dare e avere in materia di vite umane. Parecchio più in rosso persino del suo, visto che lei aveva sul groppone almeno un paio di secoli di omicidi in più.
Per qualche ragione, gli sembrò meschino dirle apertamente“Tu sei più malvagia di me.” Non ebbe problemi, viceversa, a sostenere il suo sguardo senza abbassare il capo.
“È solo una rimpatriata tra ex-commilitoni o mi devi dire qualcosa in particolare, Darla?”
“Giusto.” Si mise più eretta, come una ragazzina che stesse per recitare la lezione: “Sono stata mandata per annunciarti che riceverai tre visitatori stanotte.”
Spike corrugò la fronte, sospettoso, mentre dei campanelli – anzi delle festose campane natalizie – gli risuonavano in testa.
“Aspetta un momento… non avrò mica avuto la parte del vecchio Scrooge?“
Darla sorrise ma non rispose niente: aveva incontrato Charles Dickens in persona, una sera, quand’era già troppo vecchio per essere appetitoso. E sebbene quello fosse l’unico motivo per cui lo avesse lasciato andare, si era poi vantata per anni di non aver voluto compromettere lo stato della letteratura inglese.
Scomparve così repentinamente che a Spike, che l’aveva afferrata per un polso, rimase in mano un minuscolo frammento di quella organza così preziosa. Menomale che se ne era andata, altrimenti gli avrebbe fatto una scenata per averle rovinato il vestito.
“Ci mancava solo questa” borbottò seccato, nascondendo il pezzetto di tessuto tra il sedile e lo schienale della sedia. “Possibile che non mi riesca mai di morire in pace?”


***


Potete considerare questa breve storia a capitoli - quattro in tutto - come una celebrazione del settimo anniversario, da poco trascorso - della fine del telefilm Buffy.
O semplicemente come l'ennesima prova del rammollimento cerebrale della sottoscritta.
O entrambe le cose.
Comunque sia, "crossover" non solo perché si situa esattamente a metà tra la settima stagione di Buffy e la quinta di Angel, ma anche per il pedestre riferimento a Dickens.
La storia è conclusa, perciò ne pubblicherò un capitolo alla settimana, in modo da farla finita nello spazio di un mese. Sì, lo so: è una rapidità insolita, trattandosi di me. Spero che di questo almeno mi sarete grati: via il dente, via il dolore!

  
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