Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |      
Autore: CieloSenzaLuna    21/06/2010    5 recensioni
Nei paesaggi dell'Africa nera, tra macchine fotografiche, sconosciuti e pappagalli colorati, una bambina di nome Maya diventa grande.
Ed è qui che l'infanzia finisce, è qui che si prendono scelte e si compiono nuovi viaggi.
Perchè non si resta per sempre bambini, e questo Maya lo sa bene.
E' in un piccolo villaggio che nasce una nuova amicizia.
E' in una grande città che due vite si intrecciano di nuovo.
Ma, qualunque cosa succederà, ovunque lei andrà, Maya saprà che alla fine, il mondo non è poi così grande...
Basta guardare il cielo, che alla fine è sempre lo stesso.
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Sotto lo stesso cielo.
A Maya piace, quando il sole sorge. Lo vede lì vicino, lo vorrebbe accarezzare. Sorride, sotto il cielo chiaro. Si sveglia sempre prima di tutti quelli del villaggio, anche dei più grandi. Corre sulla terra bionda, fino all’orizzonte; poi si siede, incrocia le gambe e chiude gli occhi.
Maya ha la pelle scura, come il tronco del grande Baobab vicino alle colline. Ha i capelli neri, come la notte che le porta tanti sogni, belli e brutti. I suoi denti sono bianchissimi, splendono al contrasto del viso. Maya ha otto anni e due occhi grandi come il sole, color inchiostro.
Adora rotolarsi nel fango vicino al pozzo e poi buttarsi nel fiumiciattolo di fronte al Baobab. Quando torna al villaggio è tutta sporca e i bambini più grandi la prendono in giro. Lei li ascolta e ride insieme a loro, senza preoccuparsi di nessun giudizio.
Vive in quella che chiamano “La terra dei neri”. Quella terra dimenticata, abbandonata dal mondo.
Maya ha un fratellino, Karib. Ogni giorno se lo carica sulla schiena e lo porta fino al pozzo. Il pozzo è lontano, molto. Ogni volta ci impiegano quasi un’ora e mezza. Vanno a prendere l’acqua. A volte se ne occupa la mamma, oppure il papà, però loro spesso hanno qualcosa da fare.
La bambina a volte si arrampica sugli alberi. Non sui Baobab, però, perché quelli sono davvero alti e ha paura di cadere. Dalla cima delle piante colorate osserva il suo mondo. La luce solare investe ogni cosa sul suo cammino. Enormi pianure, gialle e bruciate dal sole cocente; qualche pozza d’acqua dove le gazzelle si fermano a bere e tanta, tanta erba color sabbia. Solo nel villaggio c’è un po’ più d’aria.
Maya vorrebbe giocare con gli adulti, ma loro la scacciano sempre. Allora va dai bambini che abitano lì vicino e insieme saltano la corda o canticchiano qualche canzoncina sotto gli alberi, all’ombra. Si fanno il bagno nel piccolo torrente che passa lì vicino. L’acqua però arriva fino ai polpacci, è davvero poca, e dunque devono mettersi completamente sdraiati, coi capelli sul fondo.
Qualche volta capita che il capo del villaggio organizzi delle serate con tamburi e musica, canti, danze e qualcosa da mangiare. Maya si diverte sempre molto in queste occasioni, perché stanno svegli fino a tardi e si siedono attorno al fuoco, per terra. Guardano il cielo nero e freddo e qualcuno legge le stelle.
Proprio in una di queste sere, una jeep bianca si ferma di fronte al villaggio. Dal veicolo ne escono un uomo bianco, coi capelli biondi e gli occhi verdi e una donna, sempre bianca, dai capelli ramati.
Tutto si interrompe in un attimo. I bambini si nascondono dietro alle gonne delle madri e il capo del villaggio si alza verso lo sconosciuto. Seriamente gli stringe la mano e poi fa segno di farlo accomodare con gli altri. Gli stranieri sono dei giornalisti.
Parlano la stessa lingua di Maya, anche se in un modo un po’ strano, che fa ridere. Sono qui per documentarsi sulla vita del suo popolo.
L’uomo, il giorno dopo, comincia a parlarle. Non le chiede nulla di speciale; semplicemente, chiacchierano.
“Sei l’unica bambina che non si nasconde.” Le dice, con un accento diverso dal loro.
Maya annuisce.
“Come ti chiami?”
“Maya.” Gli risponde, dando vita a quel sorriso smagliante. Accecante.
“Ciao, Maya.” E anche lui le sorride. “Io sono Paul. Sono qui con la mia compagna Claire. Veniamo da molto lontano, sai?”
“Sì, lo so.” E si ferma un momento “Hai visto per caso la mia bambola?” La bambina ha perso il suo unico, prezioso gioco. La mamma si arrabbierà, non ha voglia di cucirgliene un’altra. E comunque Maya ci teneva molto alla sua bambola.
“No, Maya, mi dispiace.” E scuote la testa, facendo ondeggiare i capelli dorati, come l’erba della savana intorno a loro.
“I tuoi capelli assomigliano a dei raggi di sole.” Paul comincia a ridere, accarezzandole amorevolmente la testa capelluta.
“Grazie, piccola.” E le fa l’occhiolino.
Nei giorni seguenti Maya prova continuamente a strizzare un occhio solo, come quell’uomo. Non c’è mai riuscita, per adesso. Lei però non demorde e va avanti, divertendosi come non mai in quel nuovo gioco.

I bianchi hanno portato un sacco di cose da mangiare e anche dei soldi per il villaggio. Ormai hanno fatto amicizia con tutti. Hanno sempre uno strano strumento tra le mani. Un giorno Claire l’ha fatto vedere da vicino a Maya.
“Vedi, questa è una macchina fotografica” Le spiega, con pazienza “Con questa si possono registrare molte immagini. Tutte le cose che vediamo attorno a noi, per non dimenticarcele.” E le scatta una fotografia.
Claire è sempre molto solare e sorride e sta molto con le ragazze del villaggio. Prepara da mangiare per gli anziani e insegna a Maya come usare la macchina fotografica. Le racconta storie, sussurrando nella penombra della sua tenda. La prende per mano e le fa fare tante piroette. Le fa vedere come ballano i bianchi, le fa le coccole davanti al fuoco e la accompagna al pozzo con Karib, che adesso è troppo pesante per essere portato sempre in spalla. Claire è un’artista. Un’artista pazza, che sogna e ti guarda negli occhi.
Maya trova che quell’apparecchio, la macchina fotografica, sia la cosa più affascinante che abbia mai visto. Migliore delle fiammelle infuocate di notte, delle goccioline d’acqua che restano sul corpo dopo un tuffo nel fiumicello. In quella scatola ci stanno tantissime cose, che si possono portare sempre con sé. Meraviglioso.
Paul e Claire hanno insegnato molte cose ai bambini del villaggio. Hanno portato dei giocattoli nuovi per farli divertire tutti assieme. Fanno sempre molte fotografie e scrivono spesso su quei blocchetti di carta che hanno negli zaini. Anche i giovani della tribù spiegano ogni cosa che fanno quotidianamente ai bianchi e loro ne restano sempre sbalorditi.
Maya comincia a suonare il suo piccolo tamburo, quello del papà, per le feste coi grandi. Ormai anche lei sta crescendo. La mamma le fa vedere come cucinare e lavorare le pelli. Le sue mani diventano sempre più abili e veloci e rovinate. Sono le mani di una piccola lavoratrice.

“Maya, vieni un po’ qua.” Le dice Paul, facendole segno di avanzare verso di lui. L’uomo tira fuori dalla sua borsa la bambola della bambina, a cui si illuminano gli occhi dalla gioia. Piano cammina verso il suo nuovo amico e lo stringe stretto alla vita. Anche Paul ricambia l’abbraccio affettuoso.
Maya stringe poi anche la bambola. Non ha più un occhio, che era stato ricavato da un bottone. Le manca un braccio e il suo vestito è tutto sfilacciato. Non importa. Adesso si sono ritrovate, piccole anime sperdute nel tempo. Le due compagne di giochi, di nuovo insieme dopo molto.
Paul si inginocchia, in modo da essere alla stessa altezza della bambina. Infila una mano in tasca e ne fa uscire un sacchettino di pelle, il cui contenuto tintinna. Le apre i palmi delle mani e lascia ricadere il fagottino tra le dita piccole.
“Questi sono soldi, Maya. Sono per te soltanto, tienili bene, potrebbero servirti, in futuro.”
Maya annuisce, con un cenno di gratitudine.
“Domani mattina, all’alba, io e Claire partiremo. Torniamo a casa, piccolo fiore.”
La bambina non è più entusiasta come prima, lo guarda con un’aria angosciata.
“Non vi abbandoneremo, Maya.” E le rivolge un sorriso abbastanza forzato. “Tu pensa … pensa che saremo sempre sotto lo stesso cielo. Non siamo poi così lontani, sai?”
Si sentono i pappagalli colorati far chiasso.
“Thanks, Paul. Grazie.” La sua prima parola nella lingua madre dei due bianchi. Una lingua che non le appartiene. Una lingua che le è stata leggermente insegnata, da quelli che erano due sconosciuti.
“Grazie a te, Maya.” Le risponde lui, emozionato.


__________________________________________________

Molto, molto tempo dopo, Maya passeggia nervosa sulle strade asfaltate di un’affollata città. È enorme, con grandi palazzi, più alti dei Baobab. Ci sono anche tantissime luci e molti suoni. È pieno di bianchi.
Ormai Maya è una ragazza.
Ormai Maya non sa più che fare.
Ormai Maya è sola.
A volte si scopre a ripensare all’Africa, la sua terra, il suo villaggio. I bambini che gridavano, i canti sotto le foglie, il caldo soffocante. Nella città c’è sempre freddo.
Si guarda le mani, con la pelle scura. Le mette di fianco al cartellone pubblicitario vicino alla farmacia. Sul manifesto c’è una donna con la pelle chiara, vellutata. È vestita bene e sorride a qualcuno davanti a lei. Sembra che sia imbambolata a guardare alle spalle di Maya. Dietro di lei, però, non trova mai nessuno.
A volte Maya si ferma davanti ad alcune vetrine. Allunga le mani, ma trova solo il vetro, sotto le sue dita. Dietro a quel mondo trasparente ci sono tantissime macchine fotografiche. Nere, belle, magnetiche. Sembra che la chiamino a gran voce “Prendimi, Maya, prendimi …”
Le piacerebbe avere una macchina fotografica. Le piacerebbe prendere un aereo, che vola in alto, più in alto dei Baobab e dei grattacieli, e tornare a casa, da sua mamma. A malincuore, però, pensa che non può. Non ha i soldi per viaggiare, scattare fotografie e vestirsi come le donne bianche delle pubblicità. In quella città, nessuno voleva Maya. Non sa lavorare, non ha studiato, sa parlare poco la loro lingua. Soprattutto, è nera. E questo non piace a nessuno. E questo fa male.
Maya non piace alle vecchiette che portano pellicce raffinate, ai bambini che corrono coi leccalecca in mano, ai ricchi omaccioni d’affari che incontra davanti alle vetrine di macchine fotografiche. La commessa del negozio non la lascia nemmeno entrare.
In strada, però, vicino all’asfalto nero e lucido dove le automobili corrono veloci, qualcuno si ferma. Si ferma, apre la portiera e la fa entrare. È l’unica cosa che Maya può fare. Lo trova orribile e disgustoso.
Senza speranza, Maya vaga ai lati dell’autostrada, piange e poi sorride maliziosamente a quelli che si fermano per lei. Dentro è distrutta, a pezzi, vorrebbe scappare da questo posto spaventoso dove gli uomini le aprono la portiera e le sganciano dei soldi. Unti, consumati, maneggiati. Come Maya.
Basta, pensa un giorno, non vuole fare più tutto questo. Preferisce vivere di radici e frutti e verdure rubati.
A volte si consola guardando il cielo, che in fondo è come quello della sua terra. Solo che, sopra al villaggio, c’erano più stelle. Si vedevano un sacco di luci in cielo, sì. Nella città le luci sono soltanto a terra.

Un giorno, mentre Maya cammina per le vie della città, un’automobile rallenta al suo fianco.
Maya non vuole salire su nessuna macchina, no. Ha deciso che è finita, per sempre. Vuole essere lasciata in pace.
“Vattene!” sussurra, nella sua lingua. Non vuole farsi capire. Lei non dovrebbe rifiutare qualcuno così. Ha paura. Paura che quel qualcuno cominci a gridare e la insegua. Che scenda dall’automobile bianca e rovinata e le salti addosso. E allora scivola via, un profilo sui muri neri della città. Una piccola ombra che vuole scappare. Si affretta a superare la jeep.
“No che non me ne vado, Maya”.
Come fa a comprenderla? Come fa a saperne il nome? Guida una jeep bianca?
“Maya, girati! Sei davvero tu?”
Questa voce …
“Non ti ricordi?”
Sì, sì che si ricorda. Si gira di scatto verso il suo interlocutore.
“Sì, sei tu, piccolo fiore …” Maya comincia a balbettare qualcosa.
Paul? Paul!
“Oh, Dio! Paul!” scatta lei, correndo verso il finestrino abbassato. Paul apre la portiera e si fionda fuori.
La abbraccia; è diventata una sconosciuta. È grande, adesso. E … si ricorda di lui!
Maya comincia a piangere, lui la stringe forte. La fa salire in macchina e la copre con un vecchio maglione.
“Avanti, piccolo fiore, raccontami tutto!” la incita, con un sorriso amaro.
Maya gli racconta quegli ultimi anni. Della fuga, il viaggio in nave, il freddo, gli ultimi abbracci, i saluti, i parenti lontani, le ragazze nere per strada. I bianchi ciccioni, quelli che le urlano contro, gli uomini che la invitano ad entrare nelle loro automobili.
E poi ancora, i ricordi, le fotografie, i manifesti appesi per strada, i grattacieli e le tante lacrime.
“Oh, mi dispiace, Maya …”
E Maya, sì, Maya, si chiede perché loro non li abbiano aiutati.
E comincia a provare rabbia.
“L’avevi promesso!” gli urla, furiosa.
“Promesso cosa?” non capisce.
“Come …? Come fai a non ricordare una cosa simile? Ci avete abbandonati! Vi abbiamo aspettati con ansia, abbiamo fatto feste in vostro onore, abbiamo invocato il vostro ritorno.” Si ferma un attimo, riprende fiato.
“Ti ho aspettato per anni, Paul! Anni, capisci? Non ci è arrivata nessuna notizia. Spariti, tutti e due. Perché, Paul, perché?!” e adesso le lacrime cominciano a sgorgare sul viso di Maya. E anche su quello di Paul.
“Piccolo fiore …” comincia lui, chinando mestamente la testa.
“Il tuo piccolo fiore è morto, appassito! Per colpa tua!” altri singhiozzi, poi finalmente ritrova la voce “L’avevi promesso, ricordi? Mi avevi detto << Non vi abbandoneremo, Maya >> … E poi? Dove siete spariti? Ci avete lasciati a morire di fame. È cominciata la guerra, sai? Veniamo sfruttati e nessuno ci protegge. Non riusciamo nemmeno a proteggerci a vicenda. È una cosa orribile”.
C’è silenzio per un po’. Qualche minuto, forse, dove i due ripensano a quello che hanno passato.
Silenzio di sensi di colpa, tristezza e ricordi lontani. Troppo lontani per essere vissuti ancora.
“Claire è morta, Maya. È morta.” E glielo dice così, d’un tratto. Nero su bianco, parole che non si cancellano. Nel suo cuore qualcosa si rompe. Sente anche tanto fracasso, dentro, ma anche un vuoto terribile.
“Era malata, Maya. Ha cominciato a perdere capelli e ad urlare continuamente. Stava male. Aveva dolori dappertutto, ma continuava a sorridere” e, a queste parole, l’espressione dell’uomo si addolcisce “Un giorno, perse coscienza e la portai all’ospedale. Da quel momento, dormì profondamente per quasi un mese. Poi … beh, poi non si risvegliò più. Semplicemente, il suo cuore smise di battere”. E Paul ricordava tutto, in ogni minimo dettaglio, ciò che avrebbe voluto rimuovere per sempre. Una Claire con il viso rigato, le occhiaie e la pelle pallida. Una Claire magra e stanca, che camminava faticosamente appoggiata a lui.
Abbraccia Maya che, immobile, ha ricominciato a piangere. Claire era importante. Se sapeva qualcosa del mondo bianco, era tutto merito suo. Non l’aveva più vista nemmeno una volta.
Paul la porta a casa, dolorante e con gli occhi lucidi, mentre le canta una canzone dolce, con voce sottile e delicata, quasi un sussurro. Un piccolo soffio. A Maya ricorda tanto Claire, con quei suoi capelli rossicci e mossi, mentre le raccontava una fiaba. Dal finestrino dell’automobile, guarda il cielo nero. Chissà se anche lei lo vede così …

Ormai Maya ha diciassette anni. Oggi è il suo compleanno.
È tardi. Si sveglia di cattivo umore, triste e malinconica. Si fa gli auguri da sola, come è abituata a fare dagli ultimi due anni, il 3 di settembre. Stringe la sua bambola, l’unica cosa che le rimane dai tempi dell’infanzia. Quando era piccola se la ricordava più grande, ma adesso sembra che si restringa giorno dopo giorno.
Si alza dal letto morbido, che sa di pulito. Bianco e immacolato. Di fianco al materasso c’è una lettera gialla, che recita, con una scrittura molto frettolosa, ma anche delicata: "Auguri, piccolo fiore. Diciassette anni sono molti, sai? È stata una fortuna averti incontrata. Un miracolo. Credo che Claire, la mia Claire, ti abbia mandato qui da me. Lei voleva tornare da voi, ma io gliel’ho impedito. Non avrebbe retto, credimi. Un giorno mi disse che, se per caso ti avesse incontrata, ti avrebbe donato la sua macchina fotografica. Sai cosa ti dico? È tutta tua, Maya! Prendila pure e non preoccuparti per nulla. Farò in modo di occuparmi di te e del tuo villaggio. Sarà tutto come prima e tu tornerai da loro. Ti abbraccio forte,Paul."
Sotto al foglio c’è infatti l’ “aggeggio”, come lo chiamava lei da bambina. Lo tocca appena, timorosa di essere rimproverata dalla commessa del negozio con le vetrine. Lei però non c’è. Non deve aver paura. Le due dita scivolano sul laccetto di cuoio che c’è attaccato, sul metallo dello strumento. Se lo rigira tra le mani, ammaliata. È sua. Tutta sua. Ringrazia Claire, sottovoce, e sorride.

Guarda fuori dalla finestra, si sporge sul balconcino e ammira la città.
Non c’è più la sua terra. Qui c’è qualcosa di nuovo, in catturabile, con persone meschine e il cielo blu.
Osserva i fumi sui comignoli grigi, i vetri appannati degli altri appartamenti. Sente l’aria tra i capelli e tira un bel respiro. Assapora ogni cosa, vogliosa di scoprire, sapere, imparare.
Corre in strada e si scontra con Paul, che sta tornando a casa dopo una mattinata di lavoro. Lo prende per mano e lo trascina di corsa dietro al palazzo. Trova un parchetto, tanta erba e una panchina di legno. Gli fa segno di sedersi. Lui si mette in posa, Maya gli scatta una fotografia, poi si accoccola al suo fianco.
Paul pensa che, malgrado l’età, Maya sia ancora piccina. Le avvolge un braccio attorno alle spalle e le posa un bacio sulla guancia, mentre lei sorride e guarda i piccioni sull’albero.
Tutta felice, ad un certo punto, mi vede. Inclina la testa da un lato e mi chiede, mormorando “E tu chi sei?”
Io le rispondo: “Sono il tuo angelo custode” e lei mi strizza l’occhio. Finalmente c’è riuscita.


Maya guarda quei piccioni, che non sono pappagalli colorati. Guarda quell’erbetta verde, molto diversa dalla terra nera e dai fili biondi vicino al villaggio.
Osserva quelle macchine sfrecciare sulla strada, che non sono le gazzelle che si fermano a bere al ruscello.
Scruta oltre le case, oltre l’orizzonte, lontano, e vede se stessa bambina, mentre corre sulla sabbia calda.
Guarda il cielo, che alla fine è sempre lo stesso.
Vede tutto questo… e un po’ si sente a casa.




***
Spazio di Cielo:
Buongiorno, cari i miei lettori!
Oggi vi ho deliziati (uhm.. sperem XD) con un'altra delle mie One-shottine :) Ho trattato argomenti un po' pesanti, ma senza entrare nei particolari, e da qui il rating giallo.
C'è poi la parte un po' misteriosa dell'angelo custode... avete notato che qui era qualcun altro, a parlare? Ho messo la terza persona apposta e scoprirete il perchè nel seguito, che posterò non appena terminato. Forse non avrei dovuto dirlo? Ops :P Pazientate!
Spero di essere riuscita a trasmettere quello che ho provato io pensando e mettendo per iscritto questa storia. Trovo che alcuni argomenti debbano essere raccontati, in un modo o nell'altro. E spero di essere stata all'altezza dell'incarico!
Un enorme grazie a Ilaja e LightningStrike che mi seguono sempre con tanto interesse, lasciando delle meravigliose recensioni! Grazie, ragazze <3
Se avete voglia di andare a spulciare tra i miei racconti fate pure, se avete voglia di lasciare un commentino anche... non obbligo nessuno, ovviamente! Ciò che voglio è farvi amare ciò che scrivo, condividere con voi alcune delle cose più importanti che io abbia: le mie storie ^^ (anche se un messaggino dopo la lettura dei racconti non mi farebbe che piacere, ovviamente :D)

Con questo chiudo, alla prossima!
Coming Soon: Ignorance. There's something we don't know.
Vostra amatissima Cielo :P
  
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: CieloSenzaLuna