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Autore: Lupus    22/06/2010    4 recensioni
Andromaca si dimena, come una pazza, completamente invasata, cerca di raggiungere quel bambino – il suo bambino – che, ancora adesso, protende le braccia verso di lei, piangendo e urlando, come se avesse intuito l’entità del suo destino. Astianatte la cerca con lo sguardo, con le mani, con la voce. Urla, nella sua lingua fatta di gesti e di amore, delle parole che ad un bambino dovrebbero essere tenute nascoste.
Non voglio morire. Il messaggio di pace più bello che lei abbia mai sentito in tutti quegli anni, che rappresenta, in quel momento, il più terribile monito di morte.
Soffia il vento sulle macerie della sua vita, della loro vita. Vittima, in un mondo che l’ha voluta donna solo per sopportare meglio la sofferenza.
Genere: Triste, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note: E’ la prima volta che inserisco le note ad inizio capitolo, invece che alla fine. Arriva il tempo di cambiare. Questa storia è nella cartella del pc da troppo tempo, finalmente ho deciso di pubblicarla. Un omaggio ad uno dei miei autori preferiti, liberamente ispirata alla sua tragedia che, probabilmente, amo di più: le Troiane.




Vittima




Soffia il vento sulle macerie della sua vita, della loro vita. Vittime, in un mondo che le ha volute donne solo per sopportare meglio la sofferenza.
Gli uomini muoiono in battaglia, sotto il ferro crudele della spada di qualche nemico, mentre loro, le donne, sono costrette a subire la peggiore delle violenze. La solitudine che abbatte, che mostra il mondo per quello è: un vuoto involucro del male, trasformato in uno sterminato campo di morte.

Andromaca piega il capo e, mestamente, prega gli Dei che le hanno voltato le spalle per un capriccio. Il vento le scompiglia i capelli, prima fili di seta, ora paglia bruciata; il cuore stretto tra le mani, lo sguardo verso un mondo che ha smesso di esistere. Schiava, torturata dal tempo e dalle membra dell’uomo che la stringe a sé, cupido del suo piacere – di quel piacere che solo una volta ha concesso nella sua vita, ad un solo uomo, suo marito, Ettore. Piange e le lacrime si confondono con quelle del cielo, forse gli dei alla fine si sono pentiti della loro viltà.
Andromaca lancia uno sguardo afflitto al nulla, perché tanto è ciò che rimane di quella città che l’ha vista nascere e dove ha amato in un letto l’unico uomo della sua vita, Ettore, quello stesso uomo che le ha concesso la gioia d’esser moglie prima e madre dopo. Nulla. Di Troia, oramai, non rimane assolutamente nulla.
Piegata, spezzata e ricucita, Andromaca percepisce il vento che le sussurra parole di morte, ma non lo sta ad ascoltare. Il silenzio di mille voci, in una giornata di pioggia, su una infinita distesa di macerie.
Gli uomini sono solo barbari, pensa, mentre piega il capo per ascoltare meglio quegli accordi muti fatti di aria e di angoscia; barbari tracotanti che giocano con il destino di quelli che una volta erano compagni e fratelli; barbari tracotanti che modificano le leggi della natura a loro piacimento, muovendo guerra per il più futile dei pretesti: l’invidia che l’uno, silenziosamente, prova nei confronti dell’altro. E viceversa.
Astianatte le stringe la veste, allunga le braccia minuscole verso il corpo della madre. Il sole gioca con la sua pelle diafana, sembra quasi rincorrere le fossette che si creano sulle guancie quando sorride. Gli arti protesi in avanti per cercare di afferrare la vita con le sue manine piccole e gelide, ma riesce solamente a ferire l’aria, già satura di morte – della sua morte. Vorrebbe abbracciarla. Astiannatte, probabilmente, vorrebbe abbracciare la donna che l’ha messo al mondo, perdersi nel suo profumo di mamma e dimenticare di avere una vita. Sente il peso del proprio destino sulle spalle e vuole liberarsene, scaricando tutto su quella donna a cui deve l’esistenza. Perché è proprio questo che fanno i bambini: alleggeriscono la vita con i loro piccoli gesti, quasi fino a perderla in un sogno che ha il sapore del miele e il profumo del mare.
Andromaca lo guarda e, nei suoi occhi, vede tutto quello che avrebbe potuto essere e che non sarà mai: vede un ragazzo che brandisce una spada di legno, cercando inutilmente di spaventare un gregge di pecore; vede un giovane piegato sui libri che scopre la reale entità del mondo e ne gioisce; vede un uomo, il Re dell’Asia, che bacia sua moglie a accarezza di nascosto la testa di quel figlio che passerà il resto dell’esistenza ad amare; vede un vecchio, rugoso, che piange nel silenzio della notte ripensando ad una vita che, per un capriccio degli dei, non ha avuto la possibilità di vivere.
Stretta a suo figlio, aggrappata all’unica speranza che la mantiene in forze, Andromaca, sposta involontariamente lo sguardo verso l’alto. A terra, invece, i frammenti della sua anima si disperdono tra quelle macerie che hanno il sapore del sangue e l’odore della morte. Ha paura di piegarsi a raccoglierli, perché sa che, nel tentativo, potrebbe spezzarsi e non riuscire più a rialzarsi. Invece deve farlo. Per lei, per Ettore, per suo figlio.
Quello stesso figlio che la morte le ha strappato dalle braccia, con crudeltà, con veemenza, senza darle neanche la possibilità di difenderlo, di congedarlo dalla vita come si conviene. In fondo, non esiste madre, in tutta l’Asia, che abbia avuto il tempo di metabolizzare la morte del proprio bambino.
Astianatte.
Urla la donna, piange, si stringe i capelli tra le mani, una volta fili di seta, ora paglia bruciata, e tira, tira, tira, senza scemare la presa, fino a strapparli; disperata, non riesce a riconoscere più il dolore, sente solo un gran male, dappertutto. Ha perso il confine dell’esistenza e arriva ad anelare la morte, pur di non rimanere sola, avvolta dal buio.
Andromaca scappa, vorrebbe anche lei abbracciare la morte e decidere, così, del proprio destino, ma Neottolemo, tanto forte quanto misero e meschino, le blocca la strada, le impedisce di tornare indietro, di stringere tra la braccia il piccolo cadavere della sua esistenza, che ora giace a terra, proprio sotto le mura di Troia, maceria tra le macerie. Un luogo dove la dignità umana si è persa, tra le membra lacere dei caduti e le lacrime di chi, invece, può ancora alzare lo sguardo verso il sole e poi distoglierlo, infastidito da quella luce irraggiungibile.
Andromaca si dimena, come una pazza, completamente invasata, cerca di raggiungere quel bambino – il suo bambino – che, ancora adesso, protende le braccia verso di lei, piangendo e urlando, come se avesse intuito l’entità del suo destino. Astianatte la cerca con lo sguardo, con le mani, con la voce. Urla, nella sua lingua fatta di gesti e di amore, delle parole che ad un bambino dovrebbero essere tenute nascoste.
Non voglio morire. Il messaggio di pace più bello che lei abbia mai sentito in tutti quegli anni, che rappresenta, in quel momento, il più terribile monito di morte.
Andromaca sfugge alla presa di quell’uomo sudicio, cerca di scappare dal suo stesso destino. E corre, corre, corre, senza mai fermarsi né guardare indietro: ha paura di cadere, ma più di ogni altra cosa, ha paura di non riuscire a salvare il suo piccolo Astianatte.
Nell’ansito, alza lo sguardo, sperando di incrociare i suoi occhi, ma lo vede precipitare, come un’onda che si infrange sugli scogli della vita e si perde in un oceano di sangue.
Solo allora, Adromaca si ferma. Smette di respirare e urla, fino a quando la voce riesce a reggere l’aria pesante di quel luogo completamente dimenticato dagli Dei. Anche quando si strozza, anche quando è costretta al silenzio, Andromaca, in realtà, urla. Perché non esistono pause in quel suo lamento di donna e di madre che è eterno - quanto più vicino possibile ci sia alla morte, ma peggio: perché la sfiora, la accarezza, la anela, senza mai raggiungerla.
Neottolemo l’afferra da dietro, sonda la sua pelle con la dovizia di un medico e la brama di un ladro, pronto a rubarle tutto, anche la dignità. Andromaca non lo vede, è persa tra le macerie della sua esistenza. Ma l’uomo non sembra preoccuparsene, ha negli occhi la cupidigia di una menade e la forza bruta di un guerriero. Le entra dentro, con voracità e violenza. Solo allora Andromaca lo sente, e Troia si disperde in una coltre di fumo, trasformandosi nel talamo della morte. Il corpicino esangue di Astianatte scompare e la sua dignità di donna viene fatta a brandelli da un uomo che la possiede senza aver rispetto del suo corpo. Grugnisce come un maiale, Neottolemo, mentre la spinge nell’oblio della violenza. Lei vorrebbe alzarsi e conficcargli un coltello nella gola, e magari guardarlo morire, mentre tutto il sangue delle persone che ha ucciso gli sgorga dal collo.
Andromaca sa che è impossibile, che lei non è destinata a comportarsi da vigliacca, a macchiarsi le mani del peccato degli uomini – le donne non uccidono, le donne soffrono e piangono perché sono più forti.
Per cui, Andromaca si piega, asseconda le spinte di quel mostro che, svegliandola, l’ha privata del suo dolore di madre, ma non si spezza. Mai. Per lei, per Ettore, per suo figlio.
Soffia il vento sulle macerie della sua vita, della loro vita. Vittima, in un mondo che l’ha voluta donna solo per sopportare meglio la sofferenza.

Sono passati tre anni, oramai, da quando è morta, piegata dal dolore per l’omicidio di suo figlio.
Sono passati tre anni, oramai. Di Troia non rimane che una lunga distesa di sangue e macerie che, ogni sera, prende vita nei suoi sogni, prima che la realtà la trascini, brutalmente, sull’altare dell’esistenza - dove lei è la sacerdotessa che immola la sua vita. Anche respirare diventa futile, quando il cuore è incapace di provare emozioni diverse dalla disperazione.
Di lei, Andromaca, prima regina, poi schiava, ma soprattutto donna e madre, non rimane che cenere. E’ solo un corpo privo di vita, quello che stringe tra le cosce la virilità di un demone che non lascia scampo a nessuno.
La Guerra.


   
 
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