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Autore: Lady Furianera    22/06/2010    3 recensioni
Ogni buono scienziato deve saper essere impassibile. I sentimenti storpiano la realtà e la rendono sbagliata in tutti i casi. E’ forse giunto il momento di escludermi? La felicità è un'arma a doppio taglio. [Alfons centric - HeiEd implicito]
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alphons Heiderich, Edward Elric
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Let it Be.

Io ci credo in Dio. Anche se mi ha abbandonato non appena ho aperto gli occhi. Sì, possiamo dire che sia un tipo piuttosto perspicace. Potevo essere carino -  mia madre l’autrice dell’eresia – ma che oltre agli eccessi di tosse, avrei anche avuto la sfiga cronica, lui lo sapeva di sicuro. Nonostante  tutto, posso dire di aver fatto qualcosa in diciassette anni. Una volta nella vita ho disubbidito a mia madre. Certamente. Ridete pure, se farlo vi soddisfa. Sta di fatto che morire, era l’unica cosa che mia madre mi chiedeva sempre di non fare. Sta di fatto che lo rifarei ancora per lui. Per Edward Elric.

Lo vidi per la prima volta nel novembre di qualche anni fa. Niente me lo ricordo come fosse ieri: sono solamente luoghi comuni dettati dalle illusioni della gente. Il mio ricordo di quel giorno è sbiadito un poco, ma non è perduto. Lo rivedo ogni tanto lì, in mezzo alla fiera con un lecca-lecca in mano e lo sguardo di un bambino, che vaga sorpreso del mondo intorno a sé. Lo fissavo davvero intensamente. Ovviamente deve per forza esserci qualcosa che lo spieghi: un’ipotesi logica per cui lui si sia girati verso di me proprio mentre mi convincevo non l’avrebbe mai fatto. Solo che non ho ancora avuto il tempo di pensarci. E se quello non era il momento più adatto, non lo sarebbe stato mai. Nell’istante stesso in cui i suoi occhi si fermarono sui miei fu l’inizio di tutto. Avete presente quei film romantici, quando i due adulteri di turno si incontrano? In quelle scene c’è sempre una canzone molto bella – sconsigliata ai diabetici – dolce e malinconica quel tanto che basta. Se avete la possibilità di ascoltarne una del genere, io lo farei. Mi sentivo in uno di quei film – niente adulteri – e, la cosa strana, ne vedevo già la fine. Non avevo nemmeno scattato la prima fotografia dell’album, che già vedevo ogni cosa bruciare nel fuoco. Così lento da far male. Ma è la caratteristica degli scienziati, cercare il perché delle cose e cercarne la fine. Non bisogna sapere essere scienziati per sapere che ogni cosa termina, presto o tardi. Ed è proprio alla fine che capisco che cercavo solo l’occasione per prenderla in mano, quella fotografia – prima di stracciarla e gettarla tra le fiamme.

“Alfons?” Mi chiama, mi giro tra le coltri. “Cosa c’è, Edward?” Sospira e si fa avanti. Sta un po’ in piedi, poi incrocia le gambe sopra il letto e si decide a cominciare. “Lo so che non stai bene, adesso. So anche che tua madre mi ucciderebbe se sapesse che ti ho svegliato. La cosa che so meglio è che ti manca. Perciò… - povero Edward, mi dispiace vederlo così affranto – se vuoi parlarne, io starò qui ad ascoltarti.” Sembra convinto. E anche io lo sono mentre dico questa scemenza: “Edward, parlami di Alphonse.” Andrà avanti tutta la notte, non appena smetterà di indugiare e di fare tabù della sua vita passata.

Quel giorno, il primo, ci siamo solo osservati. Cinque giorni dopo lo rividi in un piccolo locale in centro. Beveva da una grande tazza che gli copriva il viso. Poi ecco quegli occhi da gatto spaesato, ma comunque un po’ curioso. Ecco, lui sarebbe un gatto. Me ne convincevo quando posava la tazza e si leccava le labbra in maniera elegante, senza però mai smettere di osservare le persone di fuori. Fino a trovarmi. In quel momento piegò la testa a sinistra, gli occhi che facevano tante domande. Poi c’ero io. Io che rovino sempre tutto. Effettivamente è stato quel soldato dietro di me a spingermi, provocandomi alcuni colpi di tosse che scatenarono l’ansia di mia madre, che mi trascinò via parlando di medici, diagnosi e farmaci inutili. Riuscii a girarmi appena, vedendo in quegli occhi di liquore una vena ironica, straziata da un po’ di preoccupazione. Mi venne da sorridere. E mi sa tanto che mi terrò il dubbio sul fatto che abbia visto quella lieve smorfia crearsi sulle mie labbra.

Già, la sua vita passata. Da dove venga, non ne ho la minima idea. Mi parla sempre di qualcosa che ha vissuto, ma scientificamente non esiste. Astratto. Nessun nome, solo ricordo di una volta che disse di essere nato tra guerra ed armi umane. La parola che sussurrò appena fu alchimia. Un buono scienziato sa che l’alchimia è la scienza antenata della chimica e sa che grazie ad essa sono stati scoperti molti degli elementi presenti in natura. Anche un cretino sa che l’alchimia si è estinta nel XVIII secolo circa. Ecco, né cretini né scienziati – in questo caso, sono escluso da entrambe le categorie – hanno mai conosciuto Edward. E probabilmente nessuno saprà mai da dove viene davvero. Edward è il mistero con cui si ritrova la bellezza dello scoprire. Un connubio perfetto di segreti e ricordi. In una parola? Bellissimo.

Il nostro terzo incontro fu il convenzionalmente definito primo ufficiale. Be’, almeno cominciammo a parlarci senza sfiorarci solo con gli occhi. Tralasciamo quel battito clandestino che perse il mio cuore quando lo vidi osservare i miei appunti: l’infarto l’ho rischiato ogni giorno e con tutte le probabilità quel ragazzo non l’avrei rivisto mai più. Uno scienziato sa che,  non tutte le ipotesi che formulerà nella sua carriera, saranno esatte. Anzi, conosce i rischi del mestiere. Pensare di non rivederlo: quello, fu il mio primo sbaglio. Inizia ad adorarlo dall’istante in cui me ne accorsi.

La mattina Edward non fa mai colazione; dice di non essere abituato. Poi la sera mangia troppo. Quando mangia è sempre delicato. Sembra stupido, ma con lui nulla lo è. Più che altro è assurdo: si sofferma sempre sulla forchetta, leccandola bene alla fine dei pasti. Mi ha sempre affascinato come in ogni cosa cercasse l’ordine. Anche se nella sua stanza, l’ordine non era mai entrato.

“Sei tu che l’hai costruito?” Oddio, parla con me. “Sì… non da solo, ma il progetto e alcune parti del razzo, sì…” Che ben comincia, eh? “L’hai fatto tu.” Rialzai lo sguardo. Immaginate il mio povero cuore quando vidi un sorriso strafottente solo per me. Mi avrà insultato in cinque lingue diverse, escluso il tedesco. Però l’avrei ascoltato più tardi. “ Sì, forse sì.” E ricambiai il sorriso.

Venne alla fabbrica tutti i giorni. Posava il cappotto scuro sulla sedia, si guardava intorno e poi – quando mi trovava – veniva verso di me. Osservava il mio lavoro sempre attento. Se si sentivano parole, quelle erano sue. Non riuscivo a dire nulla, non riuscivo a pensare di urtare la sua perfetta concentrazione. Ma più di qualsiasi altra cosa non riuscivo a pensare – credere, forse – che il giorno dopo non sarebbe tornato. Temevo di non poterlo vedere e sentire; passavo le notti guardando il soffitto. Poi la mattina lo vedevo ripetere le mosse di quella precedente. E, vedendolo venirmi incontro, il mio cuore ricominciava a darsi da fare.

Passa tutta la notte a parlarmi della sua famiglia: della madre morta a causa dell’uomo che non vuole chiamare padre, di un lungo viaggio fatto per ricostruire qualcosa che probabilmente non è mai esistito. “Ho fatto di tutto per il mio fratellino.” Quando lo dice è una coltellata nello stomaco: lui ama solo il suo fratellino.

La mattina Edward non fa mai colazione; dice di non essere abituato. Poi la sera mangia troppo. Quando mia madre venne a mancare smisi di mangiare. E lui con me. Per tre giorni. Così la depressione finì in un angolo, nella mente solo un’idea di qualche pietanza adatta. Lui sua madre l’aveva già persa; non volevo perdesse anche la mia.

Edward è ossessionato dal tempo. A parte il fatto che cerchi sempre nella tasche qualcosa che non c’è, mi chiede l’ora mediamente ogni quattro minuti e novantasei secondi – ovviamente ho raccolto dati precisi per all’incirca quindici giorni, appurando che no fosse un’abitudine straordinaria, ma di routine. E’ strano come una personalità scientifica tal’è lui possa essere schiavo di una cosa relativa come il tempo. E’ un’equazione senza significato, una proporzione senza priva di senso. Ma me ne sono fatto una ragione. E mi chiedo ancora come, nonostante ciò, Edward sia sempre in ritardo.

Edward è la contraddizione eterna. E’ un dado dalle infinite facce. E’ il problema senza soluzione. E’ la creatura perfetta e invalicabile. Non potrei mai smettere di tentare di capirlo.

“Non… - sospiro – non sei di qui, vero? E’ l’accento. Non è proprio perfetto e, ogni tanto, fai qualche errore.” Lo sapevo che non era carino farglielo notare. Purtroppo un buono scienziato è anche minuzioso; leggete pure bastardo. “Ah, finalmente qualcuno che se ne accorge! Bingo, non sono tedesco. Ma non posso dirti da dove vengo, non potresti mai immaginare.” Parlando, un sorriso dolceamaro che mi si impresse nella mente – non potevo sapere che l’avrei visto tante volte – indugiava sulle sue labbra. Quel sorriso era davvero strano. E fu l’unico sorriso che vidi. E’ ormai certo che Edward non l’abbia mai trovata, la felicità. Almeno non qui e non con me.

Il primo giorno che venne a dormire da me, stava piovendo. “Ho dei progetti, a casa… Mi piacerebbe se ci dessi un’occhiata.” Dio, quel giorno, doveva essere di buon umore: aveva accettato. E quando lo trovai addormentato con la penna ancora tra le dita, mi convincevo che sarebbe rimasto. Il canto leggero dei suoi respiri mi incanta sempre, ma mai come la prima volta. Non so perché stetti a guardarlo per tutta la notte -  forse mosso da ideali freudiani. Ma non l’ho più fatto: il suo sonno agitato e il tremore improvviso del suo corpo mi fanno troppa paura.

Col tempo mi resi conto di quanto avesse bisogno d’aiuto. Nonostante tutto, nonostante fosse così fragile da cadere a pezzi ad ogni accenno del passato, lui raccoglieva i gattini per strada e per quello che riusciva donava loro un po’ d’affetto. Ho sempre pensato che per quelle povere bestiole fosse peggio: come potevano ricominciare quella vita di strada, dopo aver assaporato il calore umano? Avrebbero passato la vita in attesa di nulla e sarebbero infine morti disperati, odiando quella sensazione. Non gli dissi mai ciò che pensavo veramente, gli chiesi invece perhè lo facesse. “E’ un modo per ricordare Al… mio fratello.” Aggiunse anche che era una scemenza e probabilmente aveva ragione. Scossi solo la testa e, con un sorriso un po’ preoccupato, lo precedevo. Mi bruciavano gli occhi e mi mordevo le labbra. Pensavo che il gattino abbandonato fosse lui. Mi sbagliavo. Che l’unico bastardo fossi io?

Edward ha sempre freddo; non importa la reale temperatura della giornata, nella sua piccola prigione ha sempre bisogno di una coperta e della sua tazza riempita con cioccolata calda. Lo trovi lì: un libro aperto a terra, la tazza al caldo sulla stufa mentre sussurra qualche nome nel sonno. Tranne il mio. “Al…” non sono io.

Ho notato spesso come lui tenga le mani giunte, come per chiedere udienza a Dio. Edward ha sempre sostenuto il suo essere ateo, perché “uno scienziato crede a ciò che ha un inizio ed una fine. Come si può credere ad un creatore, quando tu stesso affermi che non tutto può essere creato?” Non mi sono mai spiegato quella posizione, tantomeno l’espressione delusa dopo.

Se c’è una cosa che non ho mai sopportato sono le campane. Ma anche ad esse ho legato dei ricordi: Edward che mi sostiene quando inciampo, nel tentativo di dare l’ultimo bacio alla bare di mia madre, mentre le campane suonano di morte. E poi ancora quella sera sotto la neve, osservando il fiore che scompare e viene soffocato tra freddo e rintocchi infelici. Per tutto il tempo tenne la sua mano sulla mia spalla sinistra: era l’unica parte calda di me.

Vivere con Edward mi è sempre parso naturale, anche se avevo timore di fare troppo o troppo poco. Dall’inverno di quell’anno erano successe tante cose, ma la più bella mi sembra sempre l’averlo conosciuto.

Mi chiedo perché Edward sia sensibile alla parole piccolo, in tutte le sue varianti. Fa di tutto per trovare dei sinonimi e aggira ogni costrizione. Così io lo imito: non la uso mai in sua presenza e non gli ho mai chiesto nulla a riguardo. Come un piccolo patto fra bambini.

“La prima volta che ci siamo visti – trattengo il respiro – la prima cosa che ho notato era la somiglianza con mio fratello.” Ride con leggerezza. Poi mi sorride e gli sorrido anch’io. Non avrei mai pensato che lui – dio perfetto e bellissimo – si ricordasse così bene di me – semplice studioso di utopie. “Ho pensato che fossi lui, ne ero certo. E quando ti ho trovato in questa fabbrica, ho davvero capito che ti avrei seguito ovunque in questo mondo… ma non eri lui.” E il rintocco della sicurezza di essere l’ultimo, mi si abbatte contro.

Edward non regge l’alcool. Strano, vero? Si mostra invincibile agli occhi del mondo, ma basta una birra di troppo a renderlo vulnerabile. La sua prima – ed ultima – sbronza non la scorderò mai: l’unica volta che lo vidi piangere, l’unica volta che lo sentii dire “Voglio tornare a casa… portami a casa, Alfons!” Non posso, avrei voluto dirgli e non sapevo nemmeno se stesse chiamando me oppure suo fratello. Ma tremava troppo. E io gli parlai degli uccelli in volo che l’avrebbero preso con sé, portandolo là dov’era giusto che fosse. Stretto tra le mie braccia avevo uno di quei gatti che camminano soli per strada. L’unico che avesse accettato di farsi curare da me. L’unico che avrei mai curato.

Ogni buono scienziato deve saper essere impassibile. I sentimenti storpiano la realtà e la rendono sbagliata in tutti i casi.

E’ forse giunto il momento di escludermi?

Dopo due anni di monotona convivenza e di parole taciute troppo a lungo, sono venuti a riprenderselo. Non che lui non abbia cercato di scappare. Anzi. Ogni suo gesto, ogni suo sguardo urlavano chiaramente portatemi via! E così è accaduto. Quando avrei potuto stargli accanto prima della tanto decantata fine – qualcosa più grande della morte a separarci – non l’ho fatto.

Ho fatto di più.

[…] Non credo di essere morto per il nulla. Grazie a Edward Elric ho scoperto la verità della vita: ama e – per quanto tu debba aspettare – troverai chi ti vorrà amare. E questa fine è forse più dolce di tutto il tempo passato assieme.

“Ogni cosa avviene secondo uno scambio equivalente, Alfons: non puoi prendere più di quanto dai. La morte è il costo della vita. Non dimenticarlo mai.” Me lo ripeteva ogni tanto, ma solo ora lo colgo appieno e capisco che non sarebbe mai stato mio: Edward Elric è di Alphonse; è di Winry; è del Colonnello Mustang… ma sì, in fondo alla lista. Un ultimo ammasso di lettere: Alfons Heiderich. […]

E ora lo guardo venire davanti alla mia tomba. Lo vedo riempire il piccolo vaso con qualche dente di leone, presentarmi Alphonse e infine salutarmi. Finalmente un sorriso vero, Edward.

Quindi scatto la mia fotografia; l’ultima fotografia del nostro album insieme. Non le avrei mai bruciate. E tra le mie mani rivedo chiaramente quanto sia stato bello.

Grazie, Edward Elric.

 

NdA: è la cosa più autobiografica che abbia mai scritto e che mai scriverò. Ascoltando i The Cure e i Beatles e anche qualcosina dei My Chemical Romance è nata questa storia. La storia impossibile vista dall'essere umano più sfigato che sia mai esistito. Grazie per la lettura!

   
 
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