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Autore: Vampiretta333    24/06/2010    3 recensioni
La vita di Esme, dal primo incontro con Carlisle alla sua trasformazione.
Genere: Triste, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Carlisle Cullen, Esme Cullen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Maggio 1911

ESME
Non li sopportavo quando facevano così. Anzi, a dire la verità non li sopportavo sempre. Avevo solo 16 anni. Già, ma non per mia madre. “Esme cara, hai già 16 anni!!! Devi incominciare a cercarti un marito cara!!!”. Era inutile per me ripetere per la milionesima volta che volevo fare l’insegnante. Lo era sempre stato e lo sarebbe stato sempre. E l’ennesima visita lo dimostrava. L’ennesimo damerino ricco e snob. Tutti pensavano che una ragazza come me (bella e di buona famiglia) non dovesse pensare ad altro che a trovare un ottimo marito. In questi momenti, quando nel mio cuore non c’era altro che rabbia, rabbia verso i miei, rabbia verso tutti quegli spocchiosi damerini, rabbia verso il mondo, non mi restava che salire sul mio albero. Già il mio albero. Con quell’albero ci ero cresciuta. Quell’albero conosceva tutti i miei pensieri e i miei segreti. Era il mio migliore amico.

MADRE DI ESME
“Corriamo presto!!!” L’avevo sentita urlare. La mia bambina!!! Cosa le era successo??? La trovammo nel giardino dietro la casa, per terra, sotto a quel maledettissimo albero su cui le avevo proibito di salire. Continuava a urlare. “Dobbiamo chiamare un dottore subito!!! E che qualcuno tagli quell’albero!!! ORA!!!!!!!!!!!!!!”

ESME
Mi portarono in camera e mi distesero sul letto. Mi faceva male la gamba. Mia madre mi disse che avevano chiamato un dottore. E infatti qualcuno bussò alla porta… “Esme, questo è il dottor Carlisle Cullen. Ti visiterà lui”. Sentii appena la voce di mio padre. L’uomo che avevo davanti a me era qualcosa di assolutamente indescrivibile. Non avevo mai visto nulla del genere in vita mia. Più bello di un dio greco. Era alto, biondo e aveva gli occhi di uno straordinario color dorato. Rimasi stupefatta alla vista di quell’uomo e anche lui mi fissava in modo strano.

CARLISLE
Mi avevano chiamato per un’emergenza. Meno male che la sera prima avevo pensato a nutrirmi. Se non mi fossi nutrito non avrei potuto lavorare. La casa era piuttosto grande. Probabilmente l’emergenza era la solita famiglia di ricconi preoccupata per un banale raffreddore del loro rampollo. Un maggiordomo mi fece entrare e mi accompagnò davanti alla porta di una stanza. Fuori c’era un uomo ben vestito. Doveva essere il padrone di casa. “Signore questo è il dottor Carlisle Cullen. È venuto per visitare la signorina” Furono le uniche parole pronunciate dal maggiordomo che immediatamente si girò e se ne andò. L’uomo mi rivolse la parola: “Ah dottor Cullen. Le sono grato per essere arrivato così presto. Mia figlia è caduta da un albero, continua a dire che le fa male la gamba”. Dopodiché bussò alla porta e infine entrò. Credo che disse qualcosa, ma io non ascoltai. I miei occhi erano completamente concentrati sulla ragazza distesa sul letto. Era… Era… Era… nonostante avessi più di cento anni e in teoria moltissima esperienza in vari campi, in quel momento mi sembrò di aver dimenticato tutto ciò che sapevo. Non avevo mai visto niente di più bello in vita mia.

ESME
Il dottor Cullen disse ai miei che la mia gamba era rotta, perciò vi legò dei pezzi di legno per farla stare ferma. Mentre mi visitava mi sembrava impacciato, come se non sapesse bene che fare. E la sua pelle era stranamente fredda... Comunque sarebbe tornato tra qualche giorno a visitarmi. Non vedevo l’ora.

CARLISLE
Corsi. Corsi. Corsi. Non volevo fare altro. Correre è il modo migliore di sfogarsi… correre e cacciare. E non importava che mi fossi già nutrito o che probabilmente avrei decimato l’intera popolazione della foresta: dovevo placare la mia sete e non potevo farlo con quella ragazza. Il suo volto, il suo profumo…mi tormentavano. Mi sarei assicurato che la sua gamba guarisse completamente e me ne sarei andato. L’avrei lasciata in pace. Le avrei salvato la vita.

Luglio 1917

ESME
Passai il mese più brutto della mia esistenza. Perché? Perché mi sposai. Un mese prima mi ero sposata. Con un certo Charles Evenson. Pensavo che sarei potuta essere felice con lui. Ai miei genitori piaceva ed era benestante. Insomma il marito perfetto. Non ci misi molto tempo a scoprire che non poteva essere così. La prima notte di nozze mi violentò. La notte dopo anche. Per tutti i giorni seguenti mi picchiò. Se la notte aveva voglia di me, non esistevano parole o gesti gentili, ma solo violenza. Mi picchiava continuamente, ma mai al di sopra del collo, così nessuno si sarebbe accorto dei lividi. Un giorno lo chiamarono a far parte dell’esercito. Non ho mai ricevuto notizia più bella. Partì a metà luglio. La notte dopo la sua partenza, non chiusi occhio: danzai per tutta la casa, uscii in giardino a guardare prima le stelle poi l’alba. Volevo festeggiare in qualche modo. Charles se n’era andato e se dio avesse voluto, non sarebbe tornato mai più. Il giorno dopo andai a trovare mia madre. Avevo bisogno di vedere il mio albero. O perlomeno i suoi resti. Mia madre l’aveva fatto tagliare sei anni prima, il giorno dopo che ero caduta rompendomi una gamba. Ne rimaneva solo un pezzo di tronco legato a terra dalle radici vecchie e avvizzite. Avevo davvero bisogno di lui. Volevo sfogarmi, condividere con lui la mia gioia per la partenza di Charles, il mio dolore per quello che mi aveva fatto e volevo pregare con lui affinché non tornasse. Il mio amico mi ricordava sempre il dottor Cullen. Dopo la guarigione della mia gamba, sparì dalla circolazione. Quando chiesi di lui, mi dissero che aveva ricevuto un’importante offerta di lavoro e si era trasferito in un’altra città.

Marzo 1920

ESME
Tornò. Quando vidi quel sorriso maligno non ci potevo credere. Charles era vivo. Mi sentii morire quando lo vidi sulla porta di casa. “Non sei contenta di vedermi? Non vieni ad abbracciare tuo marito?” Pronunciò quelle parola quasi fossero una battuta a cui avrei dovuto sorridere. Accortosi che non avevo nessuna intenzione di avvicinarmi, mi diede un pugno e mi ruppe il naso. Poi mi spinse di lato ed entrò in casa sbattendo la porta. Mi prese per un braccio e mi trascinò nella mia stanza. Mi sbatté contro la libreria e poi sul letto. E mi violentò. Con più violenza di come aveva fatto in passato. A nulla valsero le mie lacrime e le mie suppliche. Era troppo forte per me. L’unica cosa che potei fare su non resistere più di tanto e sperare che quell’inferno finisse presto. Quando “finì”, Charles uscì dalla camera, sbatté la porta e la chiuse a chiave lasciandomi li. Piena di lividi e di sangue misto a lacrime.

Agosto 1920

ESME
Il giorno in cui decisi che la mia vita doveva cambiare, ero di ritorno dal medico. Aveva detto che aspettavo un bambino. Un bambino, mio figlio… fino al giorno prima non avevo alcuna ragione per vivere: vivevo anche se ero morta. Un giocattolo nelle mani di Charles. In quel momento presi una decisione: non potevo permettere che mio figlio facesse la stessa fine. Anche se suo padre aveva ucciso me, non devo permettergli di uccidere anche lui… Decisi di partire, di andare più a nord, in una piccola città. Decisi che avrei insegnato in una scuola e avrei vissuto da sola con mio figlio. Forse sarei stata anche felice.

Gennaio 1921

ESME

Sentii dei dolori alla pancia mentre ero in classe. Mi portarono in ospedale. Il dottore disse che stavo per avere il bambino. Incominciai a urlare che era troppo presto, che erano passati poco più di sette mesi e che mancava del tempo. Ma loro mi portarono in una stanza e cominciarono a dire: “Spinga signora su!” e io potetti solo dare retta a quelle voci. Il dolore fu fortissimo. Continuai a urlare e a spingere. Cominciò a girarmi la testa e mi si annebbiò la vista. Ebbi appena il tempo di sentire un pianto. Poi svenni.

-2 giorni dopo-

Quando mi svegliai, nella mia stanza non c’era nessuno. Pensai subito che era strano che mio figlio non fosse lì. Non diedi peso a quel fatto, pensando che probabilmente gli stavano dando da mangiare o gli stavano facendo il bagno. Mi alzai dal letto, aprii la porta e mi affacciai in corridoio. Mi notò un’infermiera. Gentilmente mi riportò in camera e mi fece sedere sul letto. “Signora deve riposare… ha consumato molte energie. È troppo debole per camminare.” “Dov’è il mio bambino? È maschio o femmina? Non l’ho visto dopo il parto…” L’infermiera non rispose. Mi fece stendere sul letto e mi rimboccò le coperte. La sua espressione non mi piaceva per niente. “Era un maschio signora.” Era??? Cosa voleva dire con ERA??? “È nato prematuro. È sopravvissuto poco. È morto stamattina. Nel sonno” No, non poteva essere… No, mio figlio era vivo, ne ero sicura. Quella donna stava mentendo. “Lei mente.” La voce che parlò, non sembrava mia. “Signora si calmi ora, non le fa bene agitarsi…” “No, no, nooooooooooo!!!!!!!!!!!” Mi alzai dal letto, cominciai a urlare e a lanciare oggetti. Per poco non colpii l’infermiera con un vaso, che invece centrò in pieno la finestra. Il rumore dei vetri rotti fece accorrere dei dottori. Cercarono di immobilizzarmi. Io mi divincolavo e scalciavo. “Dov’è il mio bambino?! Datemi il mio bambino!!!!!!!!” Poi sentii una puntura. Mi avevano iniettato qualcosa. Ricominciò a girarmi la testa. Stavo nuovamente sprofondando nel sonno. Il mio bambino…
-
Quando mi svegliai era da poco passata l’alba. Avevo dei ricordi sbiaditi dell’ultima volta che ero stata sveglia… ma una cosa la ricordavo benissimo: mio figlio era morto. Non c’era più. La mia ragione di vita era scomparsa, scivolata via dalle mie dita… mi misi la vestaglia, aprii la porta della mia stanza e cominciai a correre. Quando se ne accorsero le infermiere provarono a fermarmi, ma io rovesciai una panca sul pavimento, per intralciarle. Riuscii a raggiungere il portone principale. Uscii in strada e continuai a correre finché non arrivai a casa mia. Era una piccola casetta, quasi ai bordi della foresta che circondava la città. Entrai dentro e presi il maglioncino di lana blu che avevo fatto per mio figlio. Dopodiché uscii e cominciai a camminare piano verso la foresta. Mentre camminavo tra gli alberi, pensai a tutti i momenti felici che avrei passato con mio figlio se non fosse morto e vidi migliaia di immagini nella mia testa: io che gli facevo il bagnetto, che lo cullavo e gli cantavo una ninna nanna, lui che faceva i primi passi, ancora io che cercavo di dargli da mangiare e lui che mi lanciava il cucchiaio addosso, noi due che correvamo in un prato, noi due che ridevamo… quando mi fermai ero davanti alla rupe che si trovava al centro del bosco. In lontananza sentii delle voci che mi chiamavano, ma non erano importanti. Importava solo quello che era davanti ai miei occhi. Quella rupe la chiamavano “La Pace Dei Disperati” e non avevo mai capito perché. Fino a quel momento. Tenni stretto il maglioncino e feci due passi oltre il bordo. Il mio ultimo pensiero fu per mio figlio. L’avrei chiamato Edward.

CARLISLE
Lavorare all’obitorio mi rilassava. Non so perché. Forse perché c’era calma e silenzio. Osservazione stupida: c’era calma e silenzio perché i “pazienti” erano tutti morti. Bussarono alla porta. Quando aprii, entrò Phillip con un corpo su una barella. “Donna. 26 anni. È stata ricoverata qui tre giorni fa per partorire. Suo figlio è morto e quando l’ha scoperto è scappata e si è buttata dalla rupe del bosco. Bisogna annotare tutte le fratture e le ferite e seppellirla nel cimitero qui dietro. Ci pensi tu?” Il mio collega mi sorprendeva sempre con il suo tatto. “Nome?” “Esme Evenson”. Ha detto Esme? No, non poteva essere lei… Il suo cognome non era Evenson. Naturalmente poteva essersi sposata. Scostai il lenzuolo che copriva il volto del cadavere e rimasi paralizzato. “Vai pure Phillip, me ne occupo io”. Phillip uscì così come era entrato. Quasi allegro, incurante della decina di corpi che si trovano nell’obitorio. Mi avvicinai per guardare meglio il suo volto. Era cambiata molto, era cresciuta, ma a me sembrava sempre quella ragazza a cui avevo curato la gamba anni fa, la stessa il cui volto e profumo continuavano a tormentarmi da anni… era per lei che mi ero trasferito in quel posto sperduto, per non doverla uccidere, perché non sapevo se sarei stato capace di resistere… A quel punto capii la verità: quel giorno di tanti anni fa io mi ero innamorato di lei. E poi era morta… da quel giorno in poi pensare a lei mi avrebbe fatto ancora più male perché avrei avuto la certezza di non rivederla mai più. Poi, in mezzo al silenzio dei miei “pazienti”, un rumore. Un piccolo rumore, come il debole battito di un cuore. Mi avvicinai ad Esme prestando attenzione ad ogni minimo suono. Tum… Tum… Tum… Era il suo cuore. Batteva ancora… Il battito era lieve ma c’era… Forse avevo un modo per salvarla… Uscii dalla porta sul retro, diretto verso il cimitero. Scavai una fossa. Ci misi dentro una bara vuota e la ricoprii. Sopra vi poggiai un’asse di legno con scritto il suo nome. Ritornai dentro per avvisare Katherine, l’infermiera di turno, che andavo a casa. Poi tornai nell’obitorio, avvolsi Esme in un lenzuolo, aprii la porta sul retro e cominciai a correre verso casa tenendo stretta a me la donna che amavo.
-
Edward rimase impietrito vedendomi sulla soglia di casa con un corpo tra le braccia. Non ci mise molto a capire ciò che volevo fare. La sua capacità di leggere nel pensiero era estremamente utile. “Devo farlo. O morirà.” “Sei sicuro?” Non seppi che rispondere… avevo scelta? Avrei dovuto lasciar morire non molto serenamente la donna che amavo, o avrei dovuto salvarla e lasciare che vivesse una vita immortale da potenziale assassina, con la speranza che prima o poi mi avrebbe perdonato per non aver rispettato la sua decisione di morire e io avrei rivisto il sorriso che tanti anni prima mi aveva conquistato? In quel momento prevalse il mio (di solito inesistente) lato egoista e affondai i denti nel suo collo.

ESME
Il mio corpo bruciava. Ero in fiamme. Non avevo mai provato un dolore così in vita mia… durò per giorni, mesi, o forse anni… poi si spense. E io mi svegliai. Ero all’aria aperta, in apparenza nel bosco. Ma non era il bosco. Cioè si lo era, ma lo vedevo in modo diverso. Riuscivo a vedere ogni singola goccia di rugiada sulle foglie, ogni singolo ragno e ogni singolo filo di ragnatela. Non ebbi il tempo di pensare razionalmente. Un cervo passò di li e senza rendermene conto gli saltai alla gola, lo azzannai e bevvi il suo sangue. Non mi piaceva molto, ma spegneva un poco l’enorme fuoco che sentivo ardere infondo alla mia gola. Mentre bevevo, udii una voce. “Attento Carlisle.” Cosa Carlisle? Mi girai, incurante del fatto che quel poco che restava della mia camicia da notte era imbrattato del sangue del cervo e lo vidi. Il dottor Cullen era davanti a me. E accadde come col bosco. Riuscivo a distinguere ogni singola sfumatura dei suoi capelli e dei suoi occhi. Mi sembrava lo stesso di tanti anni prima, eppure era diverso. Intuivo che il tempo non aveva minimamente cambiato il suo aspetto, ma a me sembrava di vederlo per la prima volta. “Esme, sono io Carlisle. Mi riconosci?” “Si.” “Esme ti sei buttata dalla rupe. Te lo ricordi?” “Si.” Continuai a guardarlo curiosa. “Avevi numerose fratture. Saresti morta se non avessi… ti ho trasformata in un vampiro.” Continuai a guardarlo. Aveva detto che ero un vampiro??? “Ti sei accorta che in questi anni non sono invecchiato, vero? Io sono un vampiro Esme e ti ho trasformato per salvarti la vita.” “Mi stai dicendo la verità?” chiesi. “Si Esme. Questa è la pura verità.” Poi indicò il ragazzo che stava immobile, poco dietro di lui. Anche lui straordinariamente bello, era poco più basso del dottore, aveva i capelli color del bronzo e gli occhi dello stesso colore. Non sembrava vecchio, doveva avere più o meno 17 anni. “Questo è Edward. Stava per morire di spagnola e l’ho salvato come ho fatto con te. Resta con noi, così potremo aiutarti.” “Aiutarmi?” Non capivo cosa intendesse con quelle parole. “Si, potremo aiutarti a non uccidere nessuno. Vedi noi non siamo come gli altri vampiri. Non beviamo il sangue umano, cacciamo solo gli animali. Ma ora vieni con noi, ti portiamo a casa nostra e li ti spiegheremmo tutto per bene. Non è lontana da qui, è esattamente al centro della foresta. Coraggio su…” Dicendo queste parole mi tese la mano. Guardai ancora il ragazzo alle sue spalle. Carlisle lo aveva chiamato Edward. Edward… come… In quel momento non ebbi più dubbi. Mio marito era un mostro. Mio figlio era morto. Davanti a me c’era quell’uomo che tanto mi aveva affascinata da giovane, per cui sentivo già un potente sentimento. E dietro di lui, Edward. Edward come mio figlio. Avrei potuto fargli da madre. Avremmo potuto essere felici insieme. Come una vera famiglia. Era la seconda possibilità che mi veniva offerta per avere una famiglia, essere felice e avere la vita che avevo sempre sognato. Non so cosa avrebbe fatto un’ altra al posto mio, ma io non ebbi dubbi. Presi la mano di Carlisle e mi avvia con lui ed Edward verso la loro casa. E verso la mia nuova vita.
  
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