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Autore: nous    26/06/2010    3 recensioni
Arancio è il colore dell'ipocrisa. Gli eroi sono caduti: il presente è diverso dal futuro che si erano immaginati. La prepotente verità di Konoha nasconde la verità di Naruto. Sasuke non sa più qual'è la verità. Basta sapere che Madara è morto e che si festeggia un eroe fasullo. C'è chi ha aperto gli occhi. Chi vive di sogni. Konoha ignora tutto e continua a vivere.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la serie
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ARANCIO I

Ci sono giornate in cui non si sa che fare. Alzarsi o crogiolarsi nel letto fino alla morte. Sebbene la seconda ipotesi fosse allettante, la data imponeva il rendersi presentabile al pubblico.  Shikamaru Nara concetrò tutta la sua attenzione nel focalizzare l’ubicazione della sua divisa.  Avrebbe sicuramente preferito continuare a dormire: le ricorrenze di Konoha erano particolarmente noiose. Indossò la divisa da chunin. Sbadigliò e legandosi i capelli uscì dalla stanza.

La casa era insolitamente silenziosa; probabilmente gli altri lo avevano preceduto. Suo padre, come lui, non era il tipo da dare eccessivo peso alle feste di stato. Vi partecipava esclusivamente per il suo grado. Essere jonin implicava anche questo e Shikamaru ne aveva fatto esperienza con quella mattina di sonno privato. Per sua madre la cosa era differente: Yoshino nutriva un genuino entusiasmo nei confronti di quegli eventi mondani. Appeso all’uscio della residenza Nara vi era un drappo arancione. L’entusiasmo di sua madre era decisamente esagerato.

L’ossessione degli abitanti di Konoha per quel giorno era al limite del maniacale. Le vie del villaggio erano invase da decorazioni arancio. Troppo colore. Troppa ipocrisia. Ma che cosa poteva farci se loro avevano voluto così. Prese la via più breve per il Palazzo dell’Hokage. Il suo scopo era di arrivare il prima possibile incontrando il minor numero di persone e edifici con suppellettili arancioni. Quel colore, in quel giorno, lo metteva a disagio. Conosceva il perché, ma riteneva fosse meglio tacere e continuare a pensare a fatti propri. La filosofia del minimo sforzo era il suo credo e non vi avrebbe rinunciato per una questione morale.

Shikamaru poteva chiaramente scorgere i volti dei Kage. Primo. Secondo. Terzo. Quarto. Quinto. Sesto. Aveva trovato interessante come gli abitanti della foglia avessero eclissato il governo Danzo non solo non raffigurandolo mai, ma anche non considerandolo mai come Rokudaime. In effetti, l’attuale sarebbe stato il settimo. A Konoha si aveva l’abilità innata di nascondere gli eventi spiacevoli fino a perderne memoria.

 

 

«Avete redatto il rapporto della missione?»

«Si»

«E lo avete consegnato?»

«No. Il Rokudaime è attualmente occupato»

«Capisco, ma provvedete il prima possibile»

«Sarà fatto.»

Questa assicurazione bastò al vecchio per allontanarsi e lasciare solo il ragazzo in mezzo al corridoio. Appena l’odioso uomo voltò l’angolo, il giovane si rilassò. Da un po’ si domandava da quanto avesse iniziato a comportarsi da bravo soldatino. Non se lo ricordava, ma se si guardava attorno vedeva che tutti erano a modo loro cambiati anche se sembravano sempre gli stessi. Si ravvivò la zazzera bionda, credendo fosse un valido modo per allontanare quei pensieri scomodi.

Il biondo aveva sempre creduto che crescendo i problemi sarebbero scomparsi, ora, alla veneranda età di vent’anni, si era accorto di averli solo sostituiti con le scartoffie. Aveva ben altri progetti per la sua età, ma il passato è il passato e i sogni sono sogni. Quello che si immagina da bambini, spesso, si rivela un’utopia. Da tempo aveva imparato a mettere da parte le fantasie passate. Ogni giorno che trascorreva il mondo appariva meno bello di come fosse anni prima.

Non era nella sua indole passare il tempo a deprimersi lungo i corridoi del palazzo dell’Hokage, ma il solo pensiero di tornare a lavoro lo bloccò. Quel benedetto rapporto andava consegnato, nella speranza che non fosse mai letto. Odiava profondamente quel genere di missioni. Eliminazione. Nemmeno si ricordava il volto si tutti quelli a cui aveva tirato un kunai fatale. Persino l’ultimo non gli veniva in mente. Lo aveva guardato dritto negli occhi, mirato e colpito. Un tiro pulito, un centro perfetto tra le cavità oculari.

Mosse i primi passi in direzione dell’ufficio. Quella aveva tutti i presupposti per presentarsi come una pessima giornata. Gli stendardi arancione acceso fuori dalli vetri ne erano la prova. Ancora trenta passi e avrebbe varcato la soglia della stanza, ancora trentacinque passi e si sarebbe trovato affianco il suo capo ad assistere a quell’ingloriosa ricorrenza.

 

 

 

 

ARANCIO

 

«Cantami, o Diva, del Pelìde Achille

l'ira funesta che infiniti addusse

lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco

generose travolse alme d'eroi,

e di cani e d'augelli orrido pasto

lor salme abbandonò»

(OMERO, Iliade, libro I)

 

 

 

 

 

I.

 

«Vedo che lavori molto, Naruto» . Il biondo si voltò sorpreso.

«Shikamaru» disse come svegliato da un lungo sonno. «Anche tu qui» e il suo sguardo tornò a puntare l’arancione di fuori. Alla fine quella trentina di passi non era riuscito a farla.

Il moro accorciò le distanze, portandosi affianco al compagno.«Non ti piacciono proprio, eh? ».

«Dovrebbero!?». Naruto accennò un sorriso sghembo non degnandolo di uno sguardo. Shikamaru ormai aveva acquisito una certa esperienza nel gestire il biondo in situazioni come quella. Ogni anno quel siparietto si ripeteva con le stesse modalità e tempi. Forse il dialogo variava, ma il succo no.

Divagazione.

«Il grande capo ci starà aspettando. Andiamo…».

«Non ti preoccupare non saremo certo noi in ritardo».

«Quell’uomo non perde proprio il vizio…».

«Già…».

Silenzio e mugugni.

«Mhn…».

«Mhn…ma ti rendi conto!?».

Sfogo.

«Che?».

«Questa festa…».

«Ah…».

«Questa festa…non ha senso».

«Festeggiano l’uccisione di Madara. Ti celebrano.».

«Stronzate.»

Solo mettendo il sale sulla ferita questa si sarebbe cicatrizzata. Shikamaru sapeva che solo dando da dire a Naruto lo avrebbe aiutato a fare pace con il mondo.

«Stronzate. Io non ho fatto nulla. Nulla degno di essere celebrato. Lo sai, hai visto: ha fatto tutto lui. Da solo. Io…io alzato un polverone senza combinare nulla di concreto…»

«Lo hai ucciso.»

«Mi sono limitato a dargli il colpo di grazia. Il grosso lo ha fatto lui.». Naruto fissava i drappi arancioni come volesse incenerirli con lo sguardo. Per una decina di secondi rimase immobile senza nemmeno prendere fiato. Shikamaru comprendeva come l’amico ribollisse di rabbia nel guardare fuori dalla finestra.

«Mi sono trovato lì nel momento adatto, non mi merito nulla.» Liquidò così il moro, svoltandogli le spalle e comprendo i trenta passi che lo separavano dall’ufficio dell’Hokage. Shikamaru strinse le spalle fissandolo entrare, per poi seguirlo, come era consuetudine negli ultimi anni.

 

 

Fu svegliato dal brontolio del suo stomaco. Erano giorni che intervallava momenti di torpore a rari attimi di lucidità. Non si ricordava nemmeno l’ultima volta che avesse toccato cibo. Decise , quindi, che era arrivato il momento di svegliarsi e andare a fare qualcosa per affermare il suo essere vivo. Forse avrebbe ucciso qualcosa. Si sarebbe alzato, sarebbe corso nel bosco e avrebbe preso qualcosa, qualsiasi cosa.

Fece perno sulle braccia per sollevare il busto. Il braccio destro rispose all’impulso , il sinistro no. Ad essere precisi l’intorpidimento coinvolgeva la parte sinistra del torace, la spalla, il braccio, la mano, le dita. Tutto era addormentato. Supino,  portò la mano destra a massaggiarsi la zona vicina al cuore. Il palmo poteva avvertire un intenso e febbricitante calore a fior di pelle.

Rimase a pancia all’aria ancora a lungo, dopo che il suo stomaco lo svegliò, ad accarezzarsi il petto. Si era perso ad osservare le macchie di umidità sul soffitto. Alcune gli sembravano dei cavolfiori andati a male, con mezzi di intonaco cadenti ed umidicci; altri componevano codici. Tondo grande. Tondo grande. Tondo piccolo. Cerchio. Tondo grande. Continuò a decriptare le chiazze marroni sopra la sua testa fino a sentire la mano della stessa temperatura del torace. Ormai poteva percepire nuovamente la sua parte sinistra. Decise, allora, che era giunto il tempo di alzarsi e andare ad uccidere qualcosa, anche se ormai non aveva più fame.

Trovava scomoda quella sensazione di bruciore di quando si cessa di avere fame senza aver mangiato nulla.

Fuori era discretamente caldo. Uscì dal suo rifugio senza maglia. Le fronde di vegetazione, umide di mattino, gli stavano lasciando un alone appicicaticcio addosso. Si sentiva come grande carta moschicida. Una di quelle che sua madre metteva d’estate fuori dalla finestra della cucina. Si vedeva circondato da mosche. Ma lì, a parte qualche fastidioso stormo di moscerini, non c’era nulla. Forse qualche grassa larva intenta a mangiare le piante dall’interno, ma nulla che somigliasse ad una mosca. Troppo spesso la sua mente viaggiava più veloce della realtà.

Con quei suoi dannati occhi vedeva cose straordinarie. Però, di una realtà alternativa non aveva la più pallida idea di che farsene. Lo stavano ingannando. Prima il mondo si era preso beffa di lui ed ora anche le parti che componevano il suo corpo. Avrebbe preferito il silenzio a quel ronzio di mosche nella sua testa.

Agli insetti si sostituì uno scrosciare d’acqua. Probabilmente nelle vicinanze doveva esserci un fiume. Si diresse verso la fonte del rumore. Cacciare in quel sottobosco era troppo complicato, meglio pescare. Era da una vita che si nutriva di pesce.

Con la testa vuota si ritrovò davanti ai salti di una torrente. L’acqua era eccessivamente limpida per occultare le sue prede: dei pesci tonti che non sanno che sopra di loro vi era il predatore. Li fissò con intensità, come se il suo sguardo potesse uccidere anche loro. Quelli se ne rimanevano attorno al un masso, vivi ed ignari di tutto. Sorrise. Questa volta avrebbe dovuto sporcarsi le mani per uccidere.

Si avvicinò ancora, fino ad essere sopra il suo pasto. L’ombra del ragazzo cadeva al di là della roccia. Era stato un abile ninja e non avrebbe rovinato la sua caccia spaventando il cibo con la sua proiezione. Constatò ancora quanto l’acqua fosse limpida. Vide la sua immagine riflessa e la ignorò. Fulmineo, ruppe la superficie con il braccio, avverrò la vittima e la portò fuori. Il suo riflesso, in sua manciata di secondi, si ricompose.

Un giovane uomo con in mano un pesce. Un grosso pesce, un pasto adatto per una persona sola. Non si riconosceva. Era da un po’ che non si guardava in uno specchio. Lo scoprirsi diverso dal ricordo che aveva di sé, lo lasciò basito. Era magro, forse a causa della sua dieta fatta di sonno. Aveva il viso scavato. Una leggera barba incolta gli copriva il mento e le guance. I capelli erano arruffati. Lo sguardo incredibilmente vuoto. Non era più lui. La sua immagine lo guardava con espressione severa.. Poteva distinguere chiaramente il limite tra ossa e muscoli sulle braccia e sul torace scoperto. All’altezza del cuore vi era una cicatrice, il segno di un’ustione, più scura rispetto al pallore cadaverico delle sue membra. Quella dannata cicatrice lo tormentava da tempo. Ma era un ricordo, uno brutto che non si vuole dimenticare. Fissò la macchia sul petto. Voleva entravi dentro ed accedere a quelle memorie. Ora che era lucido, desiderava sapere che cosa fosse successo, che fine aveva fatto il suo vecchio io. Strinse il pungo, fino a sentire le unghie entrare dentro la carne del pesce. Non riusciva a capire cosa lo infastidisse maggiormente: se la nostalgia di sé, o l’incapacità di far riaffiorare i ricordi. Scaraventò l’animale sulla riva. Con un balzò lo raggiunse. Prese il kunai che portava al fianco, lo affondò nel ventre della bestia. Infilò dentro il taglio rosso la mano e la portò fuori con le viscere del pranzo. Si guardò attorno. Un grosso ramo secco sarebbe bastato ad alimentare un piccolo fuoco. Appena trovò la legna adatta, la portò vicino alla sponda. Trafisse il pesce con un rametto verde e conficcò lo spiedo a terra. Compose dei sigilli. Serpente, pecora, scimmia, cinghiale, cavallo, tigre.

«Katon!»

Ora poteva prepararsi un pasto decente.

 


   
 
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