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Autore: y3llowsoul    26/06/2010    3 recensioni
Colby non sapeva come dirlo. Seduto nella macchina ripassava le maniere diverse. Ci n’erano talmente tante, ma nessuna sembrava appropria. - Qualche volta bastano tre piccole parole per cambiare la vita di qualcuno. Attenzione: character death
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Charlie Eppes, Colby Granger, Don Eppes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tre piccole parole

Disclaimer: "Numb3rs" e i suoi personaggi non appartengono a me, ma a CBS – che non l'hanno apprezzato, altrimenti non l'avrebbero cancellato; allora perché non l'hanno semplicemente dato a qualcun'altro? Per esempio a... me? ;)
Grazie a: Alchimista, senza la quale non ce l'avrei fatta di scrivere questa storiella in un italiano comprensibile. Sei unica!
Spero che la Shot vi piacerà...



Tre piccole parole


Colby non sapeva come dirlo.

Seduto nella macchina ripassava le maniere diverse. Ci n’erano talmente tante, ma nessuna sembrava appropria. Si chiedeva come la stesse prendendo David. Si erano separati davanti casa di Charlie.

Aveva ancora nella testa le parole che Alan aveva detto quando aveva aperto loro la porta.

Oh, ciao! Voi due… avete idea di che ora è? E poi, se cercate Don o Charlie, venite per nulla. Nessuno dei due è a casa.

Alan aveva sorriso. Adesso probabilmente non sorrideva più.


 

La casa di Robin entrò nel suo campo di vista. Siccome Don aveva spento il suo cellulare e non era a casa, quell'accogliante dimora era la più probabile località del suo soggiorno notturno. Probabilmente avevano passato una bella serata e Colby detestava interromperli quando facevano qualcosa che lui preferiva davvero non immaginare.

Parcheggiò accanto al marciapiede, uscì dalla macchina e lasciò chiudere la porta il più silenziosamente possibile. Doveva almeno avere la premura di non mettere la procuratrice, per colmo di sfortuna, nei guai con i suoi vicini che sicuramente non sarebbero stati contenti di esser svegliati alle quattro di mattina da un agente dell’FBI rumoroso.

Colby attraversò il sentiero lastricato verso la porta. La piccola casa a due piani si stagliava davanti a lui nel buio. Silenzioso e tranquillo. Una calma che lui stava per distruggere.

Suonò il campanello. Non si mosse nulla e dopo qualche attimo si costrinse un’altra volta a suonare. Poco dopo, una finestra e allo stesso tempo la porta che dava sul balcone si illuminarono disopra. Allora era lì la sua camera da letto. Ma come mai Colby trovava quest’informazione così incredibilmente poco interessante?

Passò qualche secondo prima di sentire dei passi sulla scala. Infine, Robin aprì la porta. Era in’accappatoio. Don apparve dietro a lei, con una T-shirt, jeans neri, e a piedi nudi.

«Colby?» chiese sorpreso.

«Ciao Robin. Hey Don.»

Don gemette. «Caspita, sai che ora è? Cosa c’è?»

Colby guardò per terra e Robin subito capì che qualcosa non andava.

«Vieni dentro» si sbrigò a dire, lasciò che Colby entrasse, guardò una volta in tutte le direzioni fuori e poi chiuse la porta alle sue spalle lei.

«Siediti. Vuoi un caffè?» chiese quando si unì agli uomini in cucina.

«No, grazie» riuscì a rispondere quello, e quando Don si sedette, lo imitò. Anche Robin si sedette al tavolo con loro.

«Allora?» lo incoraggiò Don. «Perché sei qui? Ci hanno dato un nuovo caso?» Siccome non dovevano lavorare né oggi né domani per la prima volta da quasi due settimane, questo sarebbe davvero un’infamia.

Ma Colby scosse il capo. «No». Fissò le sue mani che erano unite, l’una nell’altra in un nodo fermo, e si chiese perché faceva così tanta fatica. In effetti, non lo stava facendo di certo per la prima volta.

«Ma…?»

Colby deglutì a fatica. Un’ultima volta si chiese in che modo avrebbe potuto dirlo e finalmente si decise per la strada più diretta.

«Charlie è morto».

Vide come Don diventò improvvisamente rigido.

«Dovresti sapere che non si scherza su questa cosa».

Colby respirò profondamente e guardò l’agente negli occhi.

«Don, non sto scherzando».

Aspettò finché Don non ricambiasse il suo sguardo e ripeté le dolorose parole.

«E’ morto. Mi dispiace».



Per un attimo, Colby credette che qualcuno avesse congelato la scena in una lastra di ghiaccio, ma dopo qualche secondo, Don cominciò ad annuire brevemente e a strofinarsi la fronte.

«Va bene… va bene… Chi è?»

Colby aggrottò le sopracciglia. «Don – mi hai sentito? Charlie –»

«Sì, sì, sì: ho capito. Va bene… Cosa puoi… Cosa puoi dirmi?»

Colby non sapeva ancora cosa pensare di quello strano comportamento. Ma d’altro canto neanche lui era nelle condizioni necessarie per riflettere al meglio. Ma almeno bastavano per ripetere alcune frasi che continuavano a martellargli i timpani.

«Charlie è stato coinvolto in un incidente, Don. Era per strada con la sua bicicletta. Un automobilista ubriaco non gli ha dato la precedenza e l’ha colpito in pieno lato».

Colby dovette deglutire. Aveva ancora quell’immagine terribile davanti agli occhi, un lenzuolo bianco sull’asfalto, sotto cui il corpo morto si profilava fin troppo chiaramente…

«Pare che Gary Walker abbia preso il caso appena ne ha sentito parlare» continuò Colby, accorgendosi in confusione che la sua voce tremolava un po’. «Ha chiamato David dopo che non è riuscito a rintracciarti e David ha telefonato me. In questo momento è da tuo padre».

I solchi sulla fronte di Don diventarono più profondi. «E gli state raccontando la stessa cosa? E’ necessario?»

«Don… voglio dire, deve saperlo, o no?»

«Deve?»

Cosa diavolo stava succedendo nel cervello di Don? Colby lanciò uno sguardo che chiedeva aiuto a Robin. Solo allora si accorse che lei stava piangendo in silenzio, una mano serrata davanti alla bocca, e in fretta guardò da un’altra parte.

«Certo che deve saperlo, Don!». Anche Colby aveva aggrottato il fronte. «Sei sicuro di aver capito ciò che ho detto?»

«Ma sì!» Respirò profondamente qualche volta finché non fu di nuovo inquietantemente calmo. «Dov’è? Charlie?»

«In ospedale».

La carnagione di Don diventò ancora un po’ di più pallida. «In ospedale?»

Qualcosa non andava, pensò Colby. Il comportamento di Don era… strano. Allarmante.

«Sì, in ospedale» ripeté con una certa prudenza nella voce. «Come sembra, è un donatore di organi».

Era si corresse Colby e dovette lottare contro le emozioni che volevano opprimerlo. Era, non è. Charlie era un donatore di organi. Un morto non può più esser niente, nemmeno un donatore di organi… Colby non ne sapeva niente. Quante cose ancora c’erano di Charlie che non sapeva? Non lo avrebbe saputo mai…

La voce di Don lo fece tornare dai suoi pensieri.

«D’accordo, bene… Ma che cosa abbiamo contro l’automobilista?»

«Avrà ciò che merita, Don, te lo prometto!».

«Non è quello che voglio sapere, voglio… cosa?»

La confusione sulla faccia di Don superò anzi quella di Colby. Si passò una mano su gli occhi, ma non poté cancellare quell’espressione.

«Voglio dire… se non ci fossero conseguenze giudiziali, non attirerebbe l’attenzione?»

Adesso, le due facce erano uguali per quanto riguardava la confusione. Solo Robin sembrava capire man mano.

«Don?»

Ma guarda? Dove era finita la dura procuratrice? Quel tremolio nella voce non se lesi addiceva affatto.

«Don, credo che tu abbia capito male la situazione».

«Perché?»

«Voglio dire… Lo credi alle parole di Colby sulla morte di Charlie?»

«Naturalmente no».



Silenzio. Calò con una pesantezza plumbea e lì si bloccò come se non volesse mai più andarsene. Nessuno sapeva cosa dire e nessuno diceva cosa credeva di sapere. Il cerchio vizioso del silenzio si stringeva in spirali sempre di più piccole finché Colby tirò la sagola di salvataggio.

«Posso portarti da lui».

E in effetti, per Don sembrava davvero essere la salvezza; il suo viso teso si schiarì un po’. Colby però non era sicuro se con la sua offerta avesse appena tirato Don nella perdizione.

Non parlarono durante la corsa. Ambedue stavano per cominciare a parlare più di una volta, ma ogni volta non lo facevano. Un’eternità dopo raggiunsero l’ospedale. Entrarono in un edificio annesso, attraversarono una sala quasi vuota di persone e presero l’ascensore per andare di sotto.

Colby stava sempre riflettendo febbrilmente se non dovesse dissuadere Don da non andare di persona. Ma poi era chiaro a lui che Don, prima o poi, avrebbe voluto comunque vedere Charlie un’ultima volta. Questo non impediva a Colby di sentirsi come un traditore, come se mandasse il suo amico e boss completamente impreparato in una gragnola di pallottole. Ma l’aveva detto, più di una volta, si era costretto ripetutamente di dirglielo…

Però Don non aveva voluto ascoltarlo.



In realtà Don voleva ascoltare, solo non le cose che Colby tentava di dirgli. Don avrebbe preferito molto di più sentire cosa stava succedendo qui.

Mentre seguiva Colby verso il sotterraneo, il nervosismo di Don aumentava sempre più. Perché erano qui? E cosa ancora più importante: come stava Charlie? Era chiaro che suo fratello era in qualche modo nei guai, probabilmente aveva avuto da fare con la Sicurezza Nazionale o la CIA o un qualsiasi altro ufficio di investigazione. Don poteva immaginare solo il che avevano dovuto fingere la morte di Charlie per proteggerlo.

Ma perché non lo avevano informato? Don sapeva che avrebbe dovuto essere contento che tutta la bugia era mantenuta così bene, che non lasciavano scappare fuori davvero niente, ma il suo desiderio di sapere cosa succedeva qui non si ridusse di certo per questo.

E soprattutto: perché Colby lo sapeva? I pensieri di Don si erano schiariti abbastanza per capire che David non sapeva niente e che perciò suo padre non stava realmente ascoltando quella storia assillante. Almeno sperava che Colby l’aveva solo inventato per farlo sembrare autentico davanti a Robin. Come la storia con l’ospedale. Certo, era anche possibile che avevano portato Charlie qui per apparenza, ma anche se Don non sapeva precisamente cosa stava succedendo, avrebbe preferito che suo fratello stesse in una casa sicura. Almeno… almeno se Charlie non fosse stato ferito.

Don era scosso da brividi. Non aveva idea di che cosa voleva dire tutto questo, che cosa era successo prima di tutto! Forse avevano assalito Charlie? Dio, forse avevano addirittura tentato di ucciderlo!

Don poteva solamente sperare che Colby lo stesse guidando direttamente da Charlie. Almeno adesso avrebbe finalmente saputo che cosa stava succedendo e perché tutti dovevano simulare la morte di Charlie. Ma sperava che Colby lo guidasse direttamente da Charlie. Perché non importava quale fosse la causa di quest’orrore – Don non sarebbe stato calmo finché non avesse visto Charlie in buona salute.

Oddio! Cosa aveva dovuto sopportare fino ad adesso suo fratello?! Forse l’avevano già inserito nel programma per proteggere i testimoni o qualcosa di simile? E Charlie sapeva che storia avevano inventato per garantire la sua sicurezza? Certamente non l’avevano informato; non c’erano dubbi su questo, Don conosceva questi uffici – non importa quale fosse la specifica questione – troppo bene. In ogni caso, una cosa era sicura – prima sarebbe arrivato da Charlie e meglio sarebbe stato.



«Siamo arrivati» disse la voce attenuata di Colby all’improvviso come se avesse letto i pensieri di Don. Erano davanti a una grande doppia porta accanto alla quale la campanella sembrava stranamente non al posto giusto.

«Sei sicuro di volerlo veramente?»

E bang, così la domanda era stata verbalizzata malgrado tutto. In zona Cesarini. Adesso Don aveva ancora una possibilità; avrebbe dovuto capire nel mentre che Colby diceva la verità, che era giusto, per quanto terribile che fosse…

«Certo che sono sicuro. Voglio sapere cosa succede, adesso» disse Don senza ulteriori indugi.

Qualche attimo dopo, la porta fu aperta. Colby li presentò entrambi e mostrò i loro documenti mentre Don tentava di vedere la stanza dietro al patologo. Charlie era davvero qui, da qualche parte? Don stava già per chiamarlo quando il medico li lasciò entrare.

Malgrado la luce fioca non ci volle molto a Don per distinguere che non c’era nessuno lì. Quella era solo una grande sala con parecchi tavoli di esame, come altre patologie che conosceva già.

Il patologo li guidò a un tavolo nel mezzo della sala. Sopra c’era un drappo verde. E sotto, inconfondibile, un corpo umano. I piedi erano visibili sotto il lenzuolo, e un biglietto era attaccato a uno di loro. Un’esistenza intera su un pezzettino di carta.

«Dov’è Charlie?» chiese Don a Colby.

Lui stesso sobbalzò un po’; la sua voce risuonava nelle mura sotterranee.

«Don, è qui. E’ lì sotto».

«Ma… no…»

«E’ morto, Don».

Don continuava a scuotere il capo lievemente.

«No, non è morto. L’avete solo inventato voi».

«Non abbiamo inventato niente. E’ morto».

Continuava a scuotere il capo, ma la voce era diventata più bassa e il parlare più affaticato.

«Tu menti».

«Forse potremmo semplicemente…?» prese la parola il patologo. Sembrava che stesse durando troppo per lui. Teneva già la mano sopra un lembo della copertina in attesa.

Colby lanciò uno sguardo preoccupato a Don.

«Sei pronto?»

Don avrebbe voluto parlare, ma la sua voce era scomparsa in qualche modo. Invece fece un movimento con la testa che era da qualche parte tra il negare e l’annuire.

Il patologo alzò il lenzuolo.



Don inciampò facendo qualche passo indietro. Se Colby non l’avesse mantenuto, sarebbe sicuramente crollato. E forse sarebbe stato meglio; in quel caso i suoi occhi avrebbero evitato un’ulteriore vista. Volle chiuderli, ma non riuscì a distogliere lo sguardo. Dovette continuare a fissare quel viso, quel viso troppo familiare, le fattezze quasi romane, il naso un po’ curvo, la fronte largo, i ricci scuri e vivaci, le labbra espressive che così spesso gli avevano offerto un sorriso, che così spesso gli avevano parlato…

Adesso erano congelate. Collocate nel marmo immobile che, grigio e freddo, irradiava una dignità che non conosceva più la vita. Erano scomparsi la vivacità, il calore del sorriso e degli occhi, tutto vuoto, tutto… morto.

All’inizio Don non si accorse di come stesse facendo fatica a respirare. Era troppo occupato a correre via, via dal patologo, via da Colby, via da quel corpo con viso pallido sul tavolo d’esame.

Non Charlie. No, non Charlie. Non poteva essere Charlie. Charlie era vivo. Don aveva visto Charlie la sera prima. Don aveva parlato con Charlie la sera prima. No. No, non può essere…

Non poteva essere! Era impossibile, perché non avrebbe potuto supportarlo! E doveva andare via da qui, doveva andare via e correre, correre da qualche parte, via, correre avanti…

Ma stranamente, i suoi piedi non si mossero di alcun centimetro. Solo la sua mano all’improvviso diventò indipendente e cominciò il suo viaggio, muovendosi verso il viso di Charlie…



La pelle era fredda e non si rifaceva neppure per sogno a suo fratello. Le dita si fecero indietro immediatamente. Non poteva essere. Questo non era suo fratello. Era semplicemente impossibile.

Ma la somiglianza era sorprendente.

Va bene… tutto logico… pensa a tutto logicamente, come farebbe Charlie adesso. Se questo non fosse Charlie…

«Chi è?»

Strano. Nemmeno lui era rimasto sé stesso. Sembrava aver almeno cambiato la sua voce con quella di qualcun altro, e precisamente con quella di un qualsiasi mollusco impaurito.

Almeno, anche Colby aveva perso tanto della sua forza e della sua prontezza nel rispondere. «Don, per favore smettila. E’ Charlie. Ha lo stesso gruppo sanguigno, era per strada con i suoi documenti sulla sua bicicletta sulla sua strada per casa, e a proposito ha perfettamente le stesse fattezze di Charlie. Smettila di farti illusioni. Questo non lo porterà indietro».

«Ma non è possibile» venne la debole protesta di Don, e con terrore l’agente dovette constatare che gli vennero le lacrime. No, no, no, c’era qualcosa di falso qui, paurosamente falso, tutto era falso; non doveva piangere, non c’era alcuna ragione per piangere, no, tutto questa era un malinteso…

Però, non poteva imbrogliare la sua anima. Dentro di sé Don sapeva che l’incomprensibile era realtà.

«No».

Don aveva tentato di urlare il suo dolore verso il destino, quasi fosse una sfida, ma non era uscito più che un bisbiglio fioco. E come se non fosse stato abbastanza per sancire la sua distruzione, le sue ginocchia cedettero e le lacrime scesero giù per le sue guance.

«No…»

Teneva la sua testa nelle mani, sostenendola, e gli occhi chiusi. Non voleva più vedere niente. Voleva bandire l’immagine di quell’orribile viso marmoreo dalla sua memoria per sempre. Voleva sfuggire, voleva andare a casa, voleva andare da Charlie…

Sentì un fiato accanto al suo viso, un braccio attorno alle sue spalle e una mano sul suo dorso. Colby. Colby tentava di consolarlo. Se Don ci avesse riflettuto un istante, sarebbe probabilmente stato imbarazzato; probabilmente sarebbe diventato furioso, con Colby, con sé stesso, con tutti. Avrebbe tentato di farsi vedere forte, di mantenere l’apparenza calma, l’apparenza del grandioso Don che niente e nessuno poteva sfiorare.

Ma perché? Se Charlie… se suo fratello veramente non fosse più qui… perché dovrebbe comunque fare una qualsiasi cosa?



Era semplicemente impossibile. Era troppo. Don non riusciva ancora a comprenderlo. Era allo stremo. Non sapeva, non sapeva niente, non poteva capire cosa stava succedendo e cosa era successo.

Le domande assillanti, dettagliate sarebbero venute più tardi: cosa era successo precisamente? Chi ne aveva la colpa? Avrebbe potuto lui impedirlo? Forse se fosse andato a prendere suo fratello e se non gli avesse lasciato usare la sua bicicletta…? Forse se avesse tentato di riparare la macchina di Charlie lui stesso invece di lasciar che Charlie la portasse dal meccanico…? Sarebbe stato in grado di impedirlo? Sarebbe potuto continuare a vivere?

No, c’era ancora tempo per queste domande. In questo momento, le domande erano molto semplici.

Cosa…

Come…

Perché…

Le domande erano calcolabili, ma non era lo stesso per le risposte. Solo una cosa era certa, onnipresente, e non si lasciava scacciare. La soluzione di tutte le domande, l’origine di tutti i problemi.

Charlie era morto.

Don non lo capiva. Non poteva e non voleva capirlo. Tutto ciò che sapeva era che, con queste tre parole, la sua vita come la conosceva lui, la vita con suo fratello a suo fianco, in quel momento e con queste parole quella vita aveva cessato di esistere. Era conscio che stava ancora respirando, che suo cuore continuava a battere, che al suo cervello continuava ad arrivare ossigeno. Però adesso non sapeva più dove fosse il senso di tutto questo, perché il suo corpo continuava a mantenerlo in vita.

Charlie è morto.

Ottusamente Don sentiva le lacrime rotolare giù dalla sua guancia. Ma non ci faceva attenzione. Non era più lì. Una parte di lui sembrava essere andata via, scomparsa, come se si fosse dissolta nel nulla. La causa di questo era facile da comprendere. Charlie era morto. E nella sua morta aveva preso con sé una parte di Don. La voragine si spalancava in Don e lasciava dentro un vuoto che non poteva esser riempito se non dal dolore, un dolore che gli sembrava impossibile da supportare.

Eppure non voleva riempire quella lacuna, non voleva riavere quella parte di sé stesso. Non poteva cambiare le cose passate. Non poteva riportare indietro suo fratello dal regno dei morti. Ma una parte di Don, essendo partita con Charlie, almeno non lo avrebbe lasciato da solo.

Nessuno poteva più dividerli adesso. Potevano essere infelici, lacerati, distrutti. Ma nessuno poteva portar via loro una cosa. Sì, gli avevano preso Charlie, ma una parte di Don sarebbe stata con lui per sempre, fino alla fine dei tempi. Erano insieme, più di insieme. Erano più vicini che mai durante la loro vita. Erano una cosa sola.


Fine.



  
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