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Autore: Hakigo    27/06/2010    0 recensioni
RACCONTO IN REVISIONE!
Cit Cap. 6: [Lo guardai imbarazzata e indignata, mordendomi il labbro, aspettando la sua reazione, ma lui mi stava semplicemente guardando, imbacuccato dentro Il suo cappotto da mille dollari e la dentro la sua sciarpa firmata. Sorrideva, col naso rosso e gli occhi brillanti.
In quel momento, quando mi sporsi verso di lui e lo baciai, capii.
La mia non era una cotta. Era qualcosa di dannatamente serio, troppo serio.
Mi cacciavo sempre nei guai, ma che potevo farci se non potevo vivere senza I miei stupidi problemi? Capii che l'amore non ha ostacoli, non ha pregiudizi, non ha ragione. L'amore è come una clessidra: se si riempie il cuore, la mente si svuota. Lui, quell'uomo splendido che mi teneva stretta a sè con il giornale ancora tra le dita, era il mio amore, il Dio del mio cuore e non avrei potuto impedirlo. L'amavo, l'amavo tantissimo e non avrei permesso al mio cervello di farmelo scappare, non ora che ne avevo tremendamente bisogno.
Quel bacio di una mattina gelida di settembre, mi scaldò più della cioccolata calda che ora giaceva impotente sul marciapiede.]

Un racconto attuale, che non mette da parte le difficoltà che propone la vita. Il tutto misto ad una tenera storia d'amore della protagonista Irene, un'italiana amante dell'arte e della buona cucina.
Buona lettura.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L'uomo è un essere fragile, che ha bisogno di concentrare la propria esistenza su un punto ben definito. Sì, l'uomo, colui che si crede di essere onnipotente; colui che si nutre della linfa vitale del proprio pianeta per danneggiarlo irreparabilmente; colui che con una piccola disfunzione del proprio corpo può perdere ogni prospettiva per il futuro; colui che vive della disgrazia dei propri simili.
Non avevo mai desiderato qualcosa di così particolare o avventuroso. Non ero mai stata accerchiata da uomini, non ero mai stata famosa per qualche mia opera. Eppure avevo trovato il mio punto, il botolo del gomitolo del mio destino: tutta la mia esistenza, tutta la mia fantasia, tutta la mia attenzione era dedicata all'arte.
Arte.
Una parola che rinchiude dentro di sé un'infinità di significati e di diversità.
Andai subito via dall'Italia, precisamente dopo un anno dalla fine delle scuole superiori di grafica pubblicitaria, grazie all'agenzia che mi aveva assunto subito dopo essermi diplomata. Viaggiai. Viaggiai molto, fino a ritrovarmi a New York all'età di 22 anni, nel quartiere di Little Italy, appena sopra un bar italiano dove molto spesso faccio colazione.
Nel mio quartiere a settembre si celebra S. Gennaro e io decisi di preparare le foto per l'articolo a cui avrebbe lavorato il mio collega Norman, nativo americano che non aveva comunque mai preso parte a quella festività.
Abitavo in un edificio di cinque piani con tre appartamenti ciascuno, che mi aveva logicamente passato l'ufficio appena arrivata in America. Io abitavo al secondo piano e la costruzione non era munita di un ascensore. L'appartamento non era grandissimo ma potevo viverci comodamente da persona sola qual'ero. Non mi mancava niente. C'era un bagno con la vasca ed uno specchio enorme, la cucina e la sala da pranzo, più la camera da letto munita di un grande finestrone che dava sulla strada, un armadio e un letto matrimoniale; una camera che usavo come studio, dove avevo il mio computer, la libreria, un piccolo televisore e un divano che serviva da letto quando le mie amiche venivano a trovarmi. Un piccolo appartamento e un lavoro. Ecco il mio sogno realizzato. Adesso mancava solo una cosa: un fidanzato.
Tasto dolente.
Non ne avevo avuti che due e mi erano più che bastati. Attualmente non ne avevo uno e neanche lo cercavo, anche se Norman aveva più e più volte flirtato con me. Non che fosse brutto, ma non era decisamente il mio tipo.
In tutto l'edificio ero conosciuta come “quella brava in cucina”. Questo soprannome che mi andava a genio me lo aveva dato la mia vicina di casa Angelina, una signora sui sessanta anni che mi era servita un po' come madre dopo il mio arrivo a Little Italy, ma che nonostante tutto, mi chiamava col mio nome reale in mia presenza, per paura che potessi offendermi: Irene.
Per la festa di S.Gennaro anche io mi stavo dando da fare. Avevamo deciso tutti noi del quartiere di scrivere degli enormi cartelloni di augurio per una buona festa, insieme a fare dei disegni per terra. Un po' di sere prima della processione, avevo preparato dei tramezzini e li avevo portati alla gente che lavorava in strada. Finito di cenare insieme a tutti gli abitanti di Little Italy, sono andata a fare qualche foto ai disegni prossimi alla colorazione, insieme alle foto al quartiere di notte. In settembre quella strada era bellissima. Nonostante non fosse ancora arrivato il primo freddo, gli alberi avevano cominciato a colorarsi di giallo, segno che l'autunno stava arrivando.
Ero chinata su un particolare del disegno, quando sentii la voce di Norman.
- Che belle le tue mutandine - mi alzai di scatto, imbarazzata e infastidita per quello che lui avrebbe definito un “saluto”.
- Come mai qui? - chiesi secca tirandomi in piedi e alzandomi I pantaloni per coprire l'intimo.
- Per scrivere l'articolo, è ovvio -
- Non è ancora pronto niente -
- Ma io voglio vedere le persone, studiare in che modo si preparano a questa festa - Norman era quasi petulante ormai. Più gli dicevo che non volevo uscire con lui, più diventava insistente.
Ad un tratto, un grande urlo arrivò dal fondo della strada. - Angelina! - gridavano le donne mentre gli uomini cercavano di tenerla in piedi. Quasi terrorizzata, corsi in fondo alla strada, passando impaziente la macchina fotografica al mio collega.
- Cos'ha? - chiesi con il fiatone, allarmata.
- E' svenuta! Dobbiamo portarla in ospedale - disse un nostro vicino, infermiere.
- Vengo con lei. E' troppo importante per me. -
 
Arrivati in ospedale, ci assegnarono un lettino e Angelina venne ricoverata quasi subito.
Il medico ci disse che era uno svenimento a causa del troppo sforzo e il suo cuore non aveva retto. Per la prima volta venni a conoscenza che era malata di cuore. Inizialmente cominciò a girarmi la testa ma poi mi calmai. Lei, che era come una madre, come una zia, con la quale avevo condiviso tutte le mie paure, le mie gioie. Non poteva abbandonarmi così, ancora sola in quell'immenso mondo americano di cui ancora non avevo preso parte. L'infermiere era andato a lavorare, visto che aveva il turno di notte ed io ero rimasta al capezzale della mia adorata mamma americana, vegliandola nel sonno.
Probabilmente mi appisolai, perchè non ricordo niente prima che mi svegliasse un uomo. Aprii gli occhi assonnata e alzai lo sguardo.
- Mi scusi... - cominciò lui.
- Ho chiesto il permesso al primario di rimanere qui - risposi secca, credendo che fosse uno dei medici.
- Volevo dirle che se ha sonno posso prendere io il suo posto - come si permetteva? Un estraneo vegliare alla mia adorata mamma, alla mia amica.
- Preferisco che ci sia una persona che conosce al suo risveglio - non cambiai minimamente tono, troppo infastidita dall'insistenza dell'altro.
- Allora rimango qui con lei. Si accomodi sul divanetto, rimango io qui -
- Va bene - tagliai corto. Avevo troppo sonno ed era evidente, non potevo rifiutare e poi non volevo uscire da quella stanza. Mi alzai e andai ad accovacciarmi sul divano, addormentandomi subito, cadendo in un sonno profondo.
- Sta aprendo gli occhi - sussurrò una voce da uomo che non conoscevo.
Mugugnai qualcosa e aprii gli occhi, ritrovando la stanza dell'ospedale illuminata e completamente contaminata dal profumo dei fiori. Il mio primo sguardo fu indirizzato ai fiori, per poi spostarmi verso Il letto, vedendo Angelina seduta sul letto, che mi guardava sorridendomi stancamente. Mi alzai di scatto - Diamine, volevo che fossi tu a vedermi al tuo risveglio invece mi hai visto nel mondo dei sogni!- dissi dispiaciuta, alzandomi e andando verso il lettino.
- Sto bene - mi disse lei con un sospiro - Adesso che c'è anche Fernando è qui mi sento più tranquilla -
- Chi è Fernando? - chiesi curiosa, girando attorno al letto per andarmi a sedere sulla sedia vicino al letto.
- Sono io - disse la stessa voce che avevo sentito poco prima. Fermo nella stanza c'era un uomo, con in mano due tazze di caffè fumanti. Lo osservai. Mi sembrava di averlo già visto. Mi passò uno dei caffè sorridendomi - Sono suo figlio. -
Il mio sguardo passò da lui alla mia mamma americana, tornando a lui quasi subito. Ecco chi era lo sconosciuto della notte prima! Beh, non poteva dire subito che era suo parente così stretto.
- Dovrai rimanere qui per un bel po' - dissi puntando su un altro argomento.
- Me lo ha detto il medico - disse lei stanca - Andate. Tu devi andare a lavoro e tu, Fernando, non hai dormito. Le mie chiavi... - commentò allarmata e io tirai fuori dal mio marsupio il suo mazzo di chiavi. Le diedi a suo figlio, dato che lei me ne aveva fatto gesto – Rimani nell'appartamento come avevamo stabilito. -
Salutammo e ci dirigemmo verso casa con gli autobus di linea. Non parlammo lungo il tragitto.
Solo quando cominciammo a salire le scale dell'appartamento mi parlò.
- Ehi -
- Si? -
- Molto carine le tue mutandine. -
Dovevo comprarmi una cinta. Non per I pantaloni, ma per frustare chiunque me lo dicesse, lui compreso.


NOTE FINALI___
Ehm °_° Un saluto a tutti, scusate se sarò molto scontata in questo commento. Allora, questa è la mia prima storia su efp e spero che andando in là con i capitoli non si dimostri tanto scontata quanto sembra adesso. Ho utilizzato il primo capitolo un po' come introduzione e descrizione della vita di Irene. Vi prego di scusarmi per eventuali errori grammaticali. La mia voglia di raccontare una storia è nata un po' così, senza un'ispirazione precisa, ma la storia piace molto anche a me. Vi prego solo di aspettare i prossimi capitoli e spero che sarete della mia stessa opinione. Ringrazio chiunque leggerà (se qualcuno leggerà) questo mio primo capitolo. Spero che continuerete a seguirla, anche perchè fra non molto pubblicherò il capitolo successivo, bacioni. Haki-chan.
   
 
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