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Autore: ReaderNotViewer    02/07/2010    2 recensioni
ll 20 maggio 2003 Sunnydale sprofondò all’Inferno. Circa tre settimane più tardi un certo fantasma ossigenato comparve nell’ufficio di Angel a Los Angeles. Questa storia si situa in un momento imprecisato compreso tra i due eventi. Ognuno dei capitoli si ispira a uno dei prompt ereditati dalla Festa dei Folli. Infine, prima che veniate a chiedermelo: se l’hanno fatto Disney, Bill Murray e gli autori di In viaggio nel tempo, perché non lo posso fare io?
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Spike
Note: Cross-over | Avvertimenti: Spoiler!
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CAPITOLO 4



Prompt: La rosa bianca



“A forza di botte in testa, diventerò anch’io rimbambito come Giles” borbottò Spike tra sé e sé. Era steso sul medesimo pavimento della solita stanza, uguale in tutto e per tutto a prima tranne che per la mancanza di un vaso di fiori dal tavolino sotto la riproduzione della Vergine delle Rocce. L’altra novità era un secondo bernoccolo sulla sua testa, questa volta sul lato opposto. Era sicuro che il fantasma della madre del presente non avesse avuto con sé nessun oggetto contundente.
Memore dell’esperienza con l’ombrello della nannie, infatti, Spike l’aveva guardata bene e aveva considerato che il massimo che avrebbe potuto fargli, era colpirlo con il tacco di una delle sue scarpe scollate. Non aveva previsto che gli avrebbe rotto in testa uno dei vasi di basilico che stavano sul davanzale della cucina di Amanda.
Si alzò e provò di nuovo, coscienziosamente, porta e finestra, che come si aspettava erano sigillate esattamente come prima. Inventariò daccapo tutto il contenuto della stanza, dalla tappezzeria a fiorellini ai quadri appesi ai mobili e agli altri oggetti, cercando di indovinare quale di questi avrebbe costituito il suo prossimo mezzo di trasporto. Considerò uno dopo l’altro la pipa, le bomboniere e il piatto d’argento, ma gli sembrarono ipotesi tanto improbabili quanto ridicole, posto, s’intende, che dopo aver viaggiato appeso a un ombrello e dentro un vaso da fiori i concetti di comico e di assurdo avessero ancora senso. Il portaombrelli pareva già più promettente, ma sarebbe stato un po’ ripetitivo, mentre Spike aveva l’impressione che chi comandava lì dentro, di chiunque si trattasse, fosse invece attento a ogni particolare. Si sedette sulla solita sedia e si rassegnò a un’ennesima attesa, che si prolungò al punto di fargli venire sonno: in quel posto sembrava notte, pertanto non sarebbe dovuto essere il momento di dormire, ma negli ultimi tempi aveva spesso riposato durante le ore di buio, perciò i ritmi abituali che avevano gestito la sua esistenza da vampiro erano stati sconvolti. O forse era finalmente giunto per lui il momento di abbandonarsi, una volta per tutte, al sonno eterno. Comunque fosse, quando fu improvvisamente ridestato da un discreto tossicchiare, si sentì molto imbarazzato di venir sorpreso a sonnecchiare con la testa ciondoloni, come un vecchietto.
“Sei stanco?” gli chiese una giovane donna molto graziosa, che stava in piedi di fronte a lui, guardandolo comprensiva “Tranquillo: abbiamo quasi finito, io sono l’ultima.”
La madre del futuro, che a prima vista sembrava una ragazzina, a uno sguardo più attento rivelava gli occhi duri e i lineamenti tirati caratteristici di chi è ricorsa abbondantemente alla chirurgia estetica. L’abbigliamento pareva stranissimo, come se per vestirsi avesse saccheggiato il guardaroba di uno studio di posa, abbinando capi che provenivano da momenti diversi degli ultimi cinquant’anni. Drusilla aveva avuto una camicia di pizzo nero molto simile, un tempo. E lo stesso Spike aveva portato una giacca non molto diversa, all’inizio dei favolosi anni Sessanta.
“Hai degli strani vestiti” commentò. “Ma ti stanno bene” concesse, osservando con apprezzamento il seno prosperoso sotto la camicia semitrasparente. La donna aveva la pelle ambrata, che contrastava con gli occhi molto chiari. I capelli, vaporosi e tinti di una curiosa sfumatura di castano, con riflessi quasi verdi, formavano una nuvola attorno al viso ben proporzionato.
“Sono alla moda” protestò la donna, sorpresa. “Alla moda di un periodo che tu non hai ancora visto” si corresse con un sorriso, dopo averci pensato su. “Pronto per andare?” Sorridendo non allargava troppo la bocca, come se le avessero cucito la pelle troppo stretta.
“Con che cosa andiamo?” chiese Spike, che si era alzato in piedi, guardandosi attorno interessato. “Con questo, no?” rispose la sua guida, accennando al tappeto persiano sotto i loro piedi. Si sedette agilmente per terra a gambe incrociate, invitando con un gesto Spike a fare altrettanto. “C’è un gran ritorno al classico” sospirò, accomodando attorno a sé il tessuto in eccesso della gonna, che era ampia e lunga. “In tutto, sai?” disse agitando la mano sottile, con le unghie corte e senza smalto, ma adorna di anelli enormi e scintillanti, che parevano usciti da un sacchetto di patatine fritte. Spike le si sedette di fronte, nella medesima posizione.
“Un tappeto volante, eh?” commentò in tono indifferente, ma quando cominciarono a sollevarsi lentamente non riuscì a fare a meno di esclamare: “Forte!” Si morse le labbra e la madre del futuro sorrise senza dire niente, mentre salivano insieme al tappeto, rigido sotto di loro come una tavola; solo le frange ondeggiavano leggermente. Vedendo avvicinarsi il soffitto, Spike abbassò istintivamente la testa, ma subito vide aprirsi nell’intonaco uno squarcio, dapprima piccolo, che si allargò rapidamente, lasciando apparire il profondo buio all’esterno. Senza venir colpiti nemmeno da un po’ di cemento o da qualche frammento di mattoni, passarono di misura attraverso un varco grande quanto bastava per il tappeto, e si ritrovarono a volare nella notte nera e fredda. Spike si allungò di lato per vedere da dove fossero usciti, ma non riuscì a scorgere al di sotto nient’altro che un’uniforme oscurità, poi, quando tentò di sporgersi ulteriormente, la sua guida lo afferrò saldamente per la mano e lo tirò indietro, scuotendo il capo in segno di ammonimento. Salirono verticalmente, poi cambiarono dolcemente direzione e cominciarono a procedere in orizzontale. Al vampiro pareva di essere ritornato ragazzo, ai tempi in cui si immergeva completamente con la fantasia nel mondo delle Mille e una notte. La loro velocità aumentò rapidamente, finché si ritrovarono a filare così in fretta che Spike, dopo aver tentato inutilmente di sollevare un pezzetto di tappeto tra le dita, rinunciò a darsi un contegno e si afferrò con la mano al bordo, che nonostante fosse rigido, dava ugualmente al tatto la sensazione di lana e di seta fittamente intrecciate. Il vento gli percuoteva la faccia e i capelli della madre del futuro, seduta di fronte a lui, ondeggiavano come quelli di un’annegata tra flutti impetuosi. Comparve qualche stella, poi la loro corsa divenne ancora più rapida, rendendo difficile mantenere il busto eretto. Vestito completamente di nero, Spike non vedeva nient’altro se non la pelle bianca delle sue stesse mani, la sclera degli occhi della sua guida e lo scintillare degli anelli che ella portava alle dita. Viaggiare in quel modo era una sensazione al tempo stesso inebriante e spaventosa, che se avesse respirato gli avrebbe mozzato il fiato in gola per l’emozione. Senza nessun preavviso e senza rallentare, il tappeto prese improvvisamente a scendere verticalmente, con un brusco mutamento di direzione che in teoria avrebbe dovuto sbalzare fuori bordo i suoi passeggeri, i quali invece rimasero dov’erano, incollati a quell’insolito mezzo di trasporto, proprio come due statuine di gesso al loro supporto. Spike imprecò brevemente al cambio di rotta e la giovane donna sorrise, lasciando scorgere il biancore dei denti. Non videro avvicinarsi il suolo, ma atterrarono bruscamente con un tonfo, sempre immersi nella più completa oscurità. Spike lasciò andare il bordo del tappeto appena in tempo per non rompersi le dita nell’impatto, perse l’equilibrio e rotolò fuori, andando a sbattere il naso contro un cordolo di cemento. “Avete molti reclami per gli atterraggi, suppongo” commentò mentre si rialzava. Si guardò attorno per capire dove fosse finito, confidando che la sua vista acuta riuscisse a distinguere i contorni delle cose, ora che erano fermi. Si trovava sul limite di un tetto di tegole scure piatte, lievemente inclinato, come quelli che si trovano un po’ dovunque, tranne che nelle regioni assolate o in quelle a clima molto rigido.
Sporgendosi dalla balaustra, Spike scorse un’anonima strada cittadina, un viale fiancheggiato con alberi così alti e imponenti da riparare la luce dei lampioni. Nella strada affacciavano altri palazzi, alti cinque o sei piani come quello in cima al quale si trovavano, per lo più contornati dalle aree sgombre dei giardini condominiali. Su entrambi i lati erano parcheggiate auto troppo lontane perché se ne potesse distinguere il modello o tantomeno la targa. Avrebbero potuto trovarsi nella periferia residenziale di una metropoli così come nel quartiere semicentrale di una cittadina, in qualsiasi parte del mondo o quasi, ma certamente non in Inghilterra, perché lì si circolava a destra, sebbene al momento non passasse nessuna macchina.
“Dove siamo?” chiese alla sua guida, che era ruzzolata dalla parte opposta del tappeto, e che ora ci si era seduta sopra, mentre si rimetteva la scarpa che aveva perso nell’impatto. A quanto Spike ricordava, si trattava di uno zoccolo con la suola di legno e un cinturino legato dietro la caviglia con un fiocco di seta: era incredibile quello che aveva visto le donne usare come calzatura nel corso dei decenni lungo cui si era sviluppata la sua esistenza.
“Non crederai che te lo possa dire, vero?” rispose la donna senza smettere di armeggiare col suo sandalo. “Spero che non si siano rovinate… le ho prese in saldo, ma sono di marca.”
“Chi o cosa siamo venuti a guardare?” chiese Spike.
Lei gli tese la mano per farsi aiutare a rimettersi in piedi, operazione che fece increspare il tappeto, tornato nel frattempo al suo normale stato di complemento d’arredo.
“Seguimi” gli rispose.
“Passiamo dal camino come Babbo Natale?” propose lui, indicando un camino a qualche metro di distanza: “Sarebbe in tema.” La donna non gli diede retta, ma raggiunse il colmo del tetto e prese a camminarci sopra, con tutta la grazia e la sicurezza di un’esperta funambola. Allibito, Spike le andò dietro, ma rimase sulla falda, posando cautamente i piedi uno dopo l’altro su quelle tegole inclinate e scivolose. Nonostante la sua agilità soprannaturale, non condivideva nemmeno alla lontana la tranquillità della sua guida, che avanzava invece con i suoi insicuri sandali di legno sulla stretta sommità del tetto, proprio come se stesse passeggiando lungo una comoda strada cittadina.
“Trucchetti per impressionare gli allocchi: odio la magia” brontolò Spike. Non aveva ancora finito la frase, che mise un piede in fallo ed evitò per un pelo di finire di sotto. Imprecò e la madre del futuro rise: “Attento, vampiro.”
‘Che idiota. Di che mi preoccupo?’ si disse Spike ‘Scommetto che rimbalzerei come una dannata palla.’
“Eccoci arrivati” annunciò la sua guida, accomodandosi graziosamente sul colmo del tetto, con le gambe penzoloni dall’altra parte. Poco al di sotto si apriva un’ampia finestra a vasistas, aperta per lasciar entrare il fresco della notte, che offriva una veduta perfetta della mansarda sottostante. Il locale era ampio, illuminato da una lampada da tavolo che lasciava larghe zone d’ombra. Sembrava una camera studio, arredata in modo semplice ma confortevole con mobili dalle linee armoniose e con tessuti naturali, che conferivano all’insieme un’atmosfera serenamente accogliente. La stanza, tuttavia, non era in ordine: i cuscini del divano erano fuori posto, una borsa di tessuto celeste era appoggiata sulla scrivania, con parte del contenuto sparpagliato sul ripiano e sulle mensole della libreria erano appoggiati tazze, piatti e bicchieri con i resti di una cena frugale. Il letto matrimoniale era fatto, ma il copriletto di pesante seta era stato abbassato, come se qualcuno vi si fosse sdraiato per un breve riposo, lasciando l’impronta del capo sui cuscini rivestiti dalle belle federe ricamate e coprendosi col leggero plaid, che ora era ammucchiato in fondo al letto. Così come il palazzo e la strada, quella stanza non offriva nessun indizio sul luogo in cui si trovavano. Un forte ronzio fece sobbalzare Spike, che ci mise qualche secondo a realizzare che si trattava della suoneria di un telefono. Si sentì un rumore di piedi nudi sulle doghe di legno del pavimento, poi una donna entrò nella stanza e il cuore del vampiro si contrasse, quasi prendesse la rincorsa per tornare a battere. Era lei, Buffy. Dalla sua posizione sul tetto, Spike riconobbe la linea delicata della nuca, lasciata scoperta dai capelli raccolti in un buffo nodo sulla sommità del capo, prima ancora di lasciarsi incantare dall’inimitabile modo di muoversi della Cacciatrice, quell’unione di forza e di delicatezza che era sempre stata la sua caratteristica. Gli era mancata: era morto bruciato, poi si era svegliato in quella dannata stanza, senza di lei e senza nemmeno sapere dove lei fosse. In quegli ultimi tempi, aveva sempre saputo dove fosse Buffy. Non aveva più avuto bisogno di spiarla di nascosto, per saziare il suo bisogno di vederla: lei gli diceva dove andava, e se per qualche ragione se ne dimenticava, bastava chiedere a Willow o a Xander per saperlo, perché anche loro, i migliori amici della Cacciatrice, si rendevano conto che Spike doveva essere al suo posto, un passo indietro a Buffy, pronto a guardarle le spalle. Era diventato naturale, prima ancora che lei venisse a dormire con lui, giù in quell’adorabile seminterrato. Prima che Buffy, passasse davanti ai suoi amici, radunati in cucina, aprisse la porta e scendesse le scale per andare da Spike e restare sola con lui, come se fosse la cosa più normale del mondo. Se le fosse successo qualcosa, lo avrebbero cercato per dirglielo. In quello stesso momento, forse, le stavano chiedendo che cosa diavolo gli fosse accaduto.
“Oh, ciao. No, non è troppo tardi” stava dicendo nel frattempo la Buffy del futuro, seduta sul letto con in mano quello che sembrava un giocattolo ma che invece doveva essere uno strano incrocio tra un telefonino e un computer portatile. Sotto l’accappatoio di morbida spugna, sembrava meno magra di quando Spike l’aveva lasciata, in lacrime, nel sotterraneo del liceo di Sunnydale. Anche il volto era meno scarno, anzi ricordava le guance piene e ancora quasi infantili della Cacciatrice adolescente che il vampiro aveva incontrato per la prima volta cinque anni prima. Quella che stava guardando ora, però, non era una ragazzina, bensì una giovane donna nel periodo migliore della sua vita: il colore dei capelli era leggermente più scuro, la linea delle sopracciglia disegnata in modo da far risaltare la forma degli occhi e le labbra si incurvavano spontaneamente in un sorriso, mentre parlava, come se fosse abituata ad essere felice.
“No, non è ancora tornato” disse Buffy. “Dai, Giles, è via per lavoro, mica per div…” s’interruppe, scuotendo il capo in un gesto di affettuosa esasperazione. “Sto benissimo qui, ho tutto quello che mi serve” disse ancora Buffy, dopo aver ascoltato quello che l’Osservatore aveva replicato. “Sono la Cacciatrice, ricordi?” rise. “Soprannaturalmente forte, bla bla bla. Non crederai seriamente che non me la possa cavare da sola, vero?”
Ma ovviamente non era facile tacitare l’Osservatore, che doveva aver mantenuto nei suoi confronti quel suo tipico atteggiamento, tra il presuntuoso e il protettivo, di cui lo stesso Spike aveva fatto le spese.
“Che cosa vuol dire che mi lascia troppo sola?” protestò Buffy, dopo un po’. Il suo sguardo corse al comodino accanto al letto, sul ripiano del quale era posato un esile vaso di cristallo, dove svettava una bellissima rosa bianca appena sbocciata. “A proposito, non so come abbia fatto, ma mi ha fatto recapitare anche oggi la solita rosa” sorrise, mentre si alzava e si metteva a camminare per la stanza, sempre parlando al telefono. Sfiorò delicatamente i petali del fiore nel vaso, nel passare accanto al comodino.
“Sai che prodezza: siamo a maggio, il mese delle rose” commentò Spike, rivolto alla sua guida.
“Sei geloso?” insinuò lei.
“Sono morto. Dovrei ricevere fiori, non mandarne” chiarì il vampiro, imbronciato. Si rammaricava di non essere mai riuscito a regalare niente a Buffy, nemmeno un soffione rubato in un campo. Se l’anno precedente le avesse offerto un mazzo di fiori, probabilmente glieli avrebbe fatti ingoiare. Quell’ultimo anno, beh, era… complicato. Spike sorrise, pensando che anche lei avrebbe detto proprio così.
Buffy uscì dalla stanza, costringendo entrambi i suoi visitatori ad allungare la testa per tenerla d’occhio. Sparì nel locale adiacente.
“Il tuo figlioccio sta benone” la sentirono dire.
“C’è un’altra finestra” affermò la madre del futuro. Scese dal colmo del tetto e si sdraiò sulla falda, con il capo verso il bordo. Da quella parte c’era il cortile, ribassato rispetto al livello della strada, perciò l’oscurità sprofondava per un altro piano ancora, lasciando intravedere qualche macchina parcheggiata sul fondo di quell’abisso. Spike si spinse più avanti possibile, si afferrò al bordo del tetto con le mani tenendo le braccia lungo i fianchi e si sporse verso il basso con la parte superiore del corpo: da quel lato si apriva una piccola finestra, così vicina al soffitto che la parte superiore dell’infisso quasi confinava con la grondaia. C’era una tendina, che però copriva solo la parte inferiore del vetro, perciò Spike aveva una buona visuale sulla stanza all’interno, che era piccola e illuminata solo dalla fievole luce di un’abatjour. Sebbene quella finestra fosse chiusa, la voce di Buffy riusciva a giungere, sia pure attutita, attraverso quella che si apriva sul tetto: “Mangia come un lupo, dorme come un ghiro e fa tante altre cose animalesche che non vorresti certamente sapere.”
Così dicendo, Buffy si chinava su un lettino bianco, dentro cui dormiva profondamente un neonato dal visino tondo, la boccuccia lievemente aperta, con un braccino grassoccio sollevato e un pugnetto minuscolo posato sulla guancia paffuta. Era un bambino bellissimo e aveva una vaga somiglianza con le foto di famiglia che c’erano in casa Summers.
Suo figlio’ si disse Spike. Non solo era sopravvissuta, ma aveva anche avuto un bambino. “Tu non puoi saperlo, ma io trovo che assomigli al mio maggiore” gli sussurrò nell’orecchio la sua guida, seduta sul bordo del tetto in una posizione impossibile, ma a suo agio come se si trovasse su una panchina al parco. Allungò una mano e giocherellò oziosamente con le dita della mano con cui Spike si afferrava alla sporgenza della copertura di tegole del palazzo.
“Ehi ehi, non fare scherzi” mormorò il vampiro, tentando, invano, di tirarsi su con un colpo di reni: impossibile, perché improvvisamente non aveva più forze.
“Questo ditino è andato al mercato” cantarellò la madre del futuro, staccando una ad una le dita di Spike dalla presa. Impotente, il vampiro annaspò col braccio all’indietro, senza però riuscire a riafferrarsi.
“Dammi una botta in testa” implorò torcendo il collo per guardare la sua guida in faccia. “Perché non mi dai una botta in testa come hanno fatto le altre due?”
Senza dar segno di aver sentito, la madre del futuro si alzò in piedi, restando in equilibrio sull’orlo del tetto, con l’ampia gonna che le svolazzava attorno.
“Tranquillo: questo non ti ucciderà” gli sorrise, prima di sferrare un calcio alla mano destra di Spike con uno dei suoi sandali di legno. Il vampiro perse la presa e precipitò a capofitto verso il vuoto. Prima di cadere, fece in tempo a vedere attraverso il vetro ancora per un attimo Buffy, nell’atto di posare le labbra sulla fronte del suo bambino.

Questa volta riprese i sensi sul nudo pavimento di legno, perché il tappeto se n’era andato insieme al fantasma della madre del futuro. Non c’era nessun nuovo bernoccolo. Era anche strano che ricordasse di aver cominciato a cadere ma non rammentasse l’impatto col suolo. L’unica cosa che gli facesse male erano le dita della mano destra, rosse e tumefatte. Probabilmente un paio erano rotte, ma sarebbe potuta andargli molto peggio. L’ultima volta che era caduto da una grande altezza, si era spezzato una gamba e un braccio, e forse qualcos’altro che al momento non ricordava: qualcuno doveva averlo portato nella sua cripta perché si riprendesse, ma allora era stato troppo sconvolto dalla morte di Buffy per preoccuparsi di se stesso o di coloro che lo avevano soccorso. Non fece in tempo a soffermarsi sul confronto tra quella circostanza e il futuro al quale aveva appena dato una sbirciatina, perché si accorse di non essere più solo nella stanza.
“Hai trovato queste gite istruttive?” s’informò Darla. Abbandonate seta e organza, era adesso vestita modernamente con un completino da ragazzina perversa: gonna blu, camicetta bianca e scarpine completamente prive di tacco. Aveva quasi quattrocento anni, ma così combinata ne dimostrava sì e no quattordici.
“Non direi: quest’ennesima rilettura non è per niente fedele all’originale” protestò Spike “Il presente era confuso e il futuro tutt’altro che minaccioso.”
Darla alzò le spalle: “Forse avrei fatto meglio a mangiarlo, dopotutto.”
“Chi?”
“Dickens” rispose lei, imbronciata. “Sai, qui pensavano che questa messa in scena ti avrebbe motivato” gli confidò, sedendo compostamente su una sedia. Spike si accomodò in quella a fianco e verificò che ciò che aveva addosso non si fosse strappato, ma il suo abbigliamento non sembrava aver risentito del volo giù dal tetto più di quanto ne avesse risentito lui. Forse era diventato senza saperlo un vampiro della Rice e perciò adesso sapeva volare. O il suo angelo custode, rientrando in servizio dal suo lunghissimo periodo di vacanza proprio in quell’occasione, lo aveva afferrato per i capelli mentre cadeva. Oppure era tutta un’allucinazione. O anche un brutto sogno. Magari si sarebbe svegliato davanti alla TV, dopo essersi addormentato di fronte a una delle molte versioni cinematografiche del Canto di Natale. Dopotutto, che prove aveva di essere veramente andato a fuoco nel sotterraneo del liceo di Sunnydale? Nonostante ricordasse la sensazione di calore, il diffondersi del dolore per tutto il corpo e persino l’odore di carne bruciata, sui suoi vestiti non c’erano né bruciature né tracce di fuliggine.
Scrutò con sospetto Darla, la quale scoppiò nella sua tipica risata, così cristallina da far male alle orecchie. Tutto in lei, del resto, era sempre stato duro e tagliente come vetro. “Ammetto che sarebbe divertente lasciartelo credere, ma no, non sei matto” gli rispose. “Non più del solito e certamente sempre meno di Dru.”
Povera Dru, pensò Spike fugacemente, chissà come se la stava cavando, tutta sola senza nessuno di loro a impedirle di sprofondare nei suoi deliri. Dal punto di vista di Drusilla, tuttavia, quelli ad essere messi male dovevano essere proprio gli altri componenti della famiglia: uno con l’anima (per non parlare dell’orribile taglio di capelli), una morta, un altro con l’anima e per di più morto (o qualcosa del genere). Probabilmente li commiserava per ciò che era loro accaduto e che le sue visioni dovevano averle già mostrato.
“E adesso che cosa succede?” chiese “Ma soprattutto: dove lo trovo un tacchino ripieno, in quest’epoca dell’anno?”
“Ci crederesti? Posso dirmi a buon titolo uno dei fondatori di questo paese, eppure non ho mai mangiato tacchino ripieno” confessò Darla. “Non succederà niente, per quanto ti riguarda” proseguì accavallando le gambe. Fece dondolare il piede, infilato dentro il mocassino blu, completamente privo di tacco. “Anche perché non ricorderai niente, temo” aggiunse con un sorriso malizioso.
“Perché diavolo…” cominciò Spike, sorpreso da quella che sembrava una complicata messa in scena priva di scopo.
Darla lo interruppe con un gesto della mano affusolata. “Consideralo un premio” gli consigliò. “Meglio ancora, un viaggio d’istruzione premio.”
“Un’inutile gita scolastica.”
“Non sarai né il primo né l’ultimo a non ricordare niente di una gita scolastica” sorrise lei, del tutto in tema col suo abbigliamento da liceale.
“Perché, allora?”
“Oh, ecco… sai, una di queste teorie moderne sulla motivazione sub qualcosa.” Darla sbuffò, irritata per essere costretta a spiegare ciò che lei stessa non aveva compreso. “Avessero chiesto a me, io ti avrei semplicemente rimandato di sotto con un bel calcio nel sedere” concluse imbronciata. La frase, detta in quel modo da colei che pareva l’interprete di un filmino scollacciato, lo fece sorridere. “Colpo in testa o che altro?” s’informò in fretta, vedendo che si stava alzando, come se la loro conversazione fosse finita.
“Se anche lo sapessi, credi che te lo direi?”
“Sei sempre la solita…”
“…puttana!” completò prontamente lei. “Certo. Ti sorprende, forse?”
“Intendevo dire carogna, ma va bene lo stesso” mormorò Spike. Sbatté le palpebre, accorgendosi che la vista gli si stava annebbiando. Questa volta forse non sarebbe stata dopotutto né una botta sul capo né una spinta giù da un tetto.
“Darla” chiamò, aggrappandosi alla sedia per non scivolare. Ora la vedeva avvolta da una nebbia leggera e luminosa, più o meno come un angelo, se non fosse stato blasfemo anche solo il pensarlo.
“Sì?” gli rispose con voce attutita, quasi ci fosse una grande distanza tra di loro.
“Io una volta del tacchino ho assaggiato la salsa” riuscì a dire, scandendo faticosamente le parole.
“E allora?”
“Non hai perso…” Spike chiuse gli occhi, rinunciando a lottare contro l’incoscienza in cui stava per sprofondare “…niente” riuscì ancora a dire, prima di perdere i sensi. Forse era soltanto suggestione, ma gli sembrò quasi che un tintinnare di campane natalizie – o forse era solo una risata, aguzza come una pietra preziosa? – lo accompagnasse giù nel buio.

FINE


***


Ecco fatto: tutto qui.
In quanto alla morale, mia cara Kiki May, temo di non essere all'altezza del mio famoso modello: come direbbe Spike, questa ennesima rivisitazione del Canto di Natale è alquanto farlocca. Oltretutto Spike non può ricordare un bel niente - se no, chiacchierone com'è, nella quinta stagione di Angel non si sarebbe certo tenuto per sé le sue esperienze soprannaturali, ti pare? Va beh, diciamo che questa "gita motivazionale" nell'inconscio del nostro vampiro preferito potrebbe fornire una mezza spiegazione al perché Spike, superato il periodo da fantasma, non si metta non dico alla ricerca, ma almeno in contatto col grande amore della sua non-vita. Comportamento la cui vera ragione ovviamente è "siamo su un altro canale e la Gellar è indisponibile", ma che indubbiamente incuriosisce il fanwriter.
A proposito, la madre del futuro era chi ti aspettavi? Io spero di sì.
Eugeal , che piacere trovarti qui! In effetti sì, se non conosci Angel (la serie) non puoi sapere chi è la madre del presente. Non voglio spoilerarti troppo, ma verso la fine della quinta stagione di Angel, Amanda si rivolgerà alla Wolfram & Hart per uno strano contratto con un clan di demoni a proposito del bambino che porta in grembo. E nell'ultimo episodio Spike salverà proprio quel bambino (non è che un momento delle molte cose che accadono nel finale, quindi spero di non avertelo rovinato). Piccola curiosità: l'attrice che interpreta Amanda altri non è che la vera signora Boreanaz (forse ora dovrei dire ex-signora, ma non vorrei cadere nel gossip).
Grazie ancora tanto a tutte e due. E che Whedon sia sempre con noi!

  
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